Gaza, Siria, Centrafrica… Le vittime delle guerre ci riguardano molto da vicino

Andrea Iacomini, Portavoce UNICEF Italia
www.articolo21.org

10 milioni di italiani che vivono in condizioni di povertà relativa è una cifra spaventosa, la misura di una situazione di crisi che non sembra finire mai. I media e l’Istat ce ne hanno parlato ieri mentre a Gaza si consuma l’ennesima guerra con vittime e rappresaglie infinite e il Parlamento tenta la riforma del Senato. Penso alla famiglia italiana seduta a tavola all’ora di cena. Il papà si sentirà profondamente colpito, magari direttamente, dalla notizia sullo stato del nostro amato Paese e forse avrà distrattamente derubricato la domanda da 100 milioni di euro dei figli “Papà, ma che succede nella Striscia di Gaza?” con un “E’ lunga…vabbè ragazzi, laggiù è una polveriera fanno sempre la guerra tra di loro, non ci sono soluzioni”. Ha ragione il papà.

Ci sono questioni che ci toccano molto da vicino, che riguardano il nostro agire quotidiano, il nostro portafogli, che spostano irrimediabilmente “l’attenzione delle 20.30”, altre, ahimè, come le vittime delle guerre nel mondo non ci trovano emotivamente preparati neanche quando i numeri raddoppiati degli sbarchi, la gran parte dei quali sono madri e bimbi siriani in fuga da una guerra che ha prodotto 3 milioni di profughi e migliaia di morti ben oltre la guerra in Bosnia, ne rappresentano la più elementari delle spiegazioni.

Milioni di vittime delle guerre in corso fuggono dalle violenze, da morte sicura, da stupri, limitazioni della libertà e così via, sempre peggio. Ecco perché sono convinto che nessuno alzerà la testa mentre mangia un piatto di spaghetti alla notizia che 2,3 milioni (tutta Roma quasi per capirci) di bambini sono colpiti dalla guerra in Centrafrica (Centrafrica, si chiama così, e smettete di chiedermi il vero nome di questo paese africano quando vado in giro per Università in tutta Italia…è successo, lo giuro) e un bambino al giorno viene mutilato o ucciso a causa degli scontri.

Per non parlare del Sud Sudan dove le violenze interetniche hanno prodotto 1 milione di sfollati e 3 milioni di persone sono a rischio fame. Ho capito, no, nessuno dei due paesi partecipava ai Mondiali ed il Sud Sudan è uno Stato di recente creazione, ricco di petrolio, dove si dice, ma non è confermato, ci siano migliaia di morti. Genocidio, come in Ruanda e come forse in Siria, per non usare altre definizioni perché forse è troppo oppure troppo poco. Ma ce ne accorgeremo tra qualche anno e canteremo insieme stringendoci per mano “Mai più!”. Insomma le vittime della guerra come quella che ci hanno raccontato i nostri nonni 60 anni fa, sono moltissime e sono sempre “civili”.

Nelle guerre odierne, il 90% delle vittime è rappresentato da civili, che costituirono circa il 50% delle perdite umane complessive nella Prima guerra mondiale e il 66% nella Seconda guerra mondiale. Possibile? Si e a leggere questi dati sembra che il modo più sicuro per uscire vivi da un conflitto è essere un soldato in armi, mentre i rischi maggiori di essere ferito o ucciso li corre chi non ha alcun mezzo per difendersi.

Così i bambini sono le vittime preferite dei conflitti, mentre mi domando se qualcuno della famiglia di cui sopra avrà alzato la testa dal piatto mentre passano le immagini di uno dei pochi ma utili servizi che la tv italiana dedica a questi temi. Adolescenti, ragazzi e persino bambini vengono spesso utilizzati in prima persona nelle operazioni militari, dopo avere subito condizionamenti e violenze di ogni tipo. Succede da sempre, accade in queste ore.

Che fare? Ci vorrebbe una “Malala dei conflitti dimenticati”, delle violenze subite, delle stragi taciute, dei pacifismi spariti. Ci vorrebbe una first lady al giorno con un cartello simil “BringBackOurGirls” che dicesse semplicemente “Peace”. Ci vorrebbe un nuovo John Lennon, una giovane Yoko Ono, un ispirato John Fitzgerald Kennedy o un moderno Gandhi. O forse no, mi correggo, non serve scomodare personalità così importanti, guardiamo al futuro.

Basterebbero scuole che insegnano ai nostri figli ad essere cittadini del mondo, padri normali che spieghino a cena il conflitto di Gaza o la guerra in Siria semplicemente dicendo loro che sono scempi che devono finire. Basterebbe qualche pagina in più di politica estera sui giornali e meno di politica interna, qualche autorevole cantante o intellettuale meno a gettone e più ad “emozione” per risvegliare qualche coscienza in più.

Basterebbe che tutti chiedessimo ai nostri media di investire ogni giorno in un servizio per conoscere quello che accade fuori dai nostri confini (abbiamo i migliori inviati del pianeta) e non come accade oggi con due minuti di “sciacquacoscienza” da periodo estivo o natalizio dove peraltro non vinceremo mai contro Belen, le spiagge più belle, i mari con la bandierina, Babbo Natale e il gossip nostrano (di cui peraltro vado matto anche io).

Basterebbe più amore, l’unico in grado di far parlare di vittime un mondo che va troppo veloce, che pullula di facili distrazioni. Le vittime non fanno notizia, meno dei morti. Oggi però rivolgo un appello ai Direttori delle grandi testate italiane, agli editori ai giornalisti. Parliamone, senza drammi, potremmo aiutare una generazione di italiani a crescere più forti, più veri e soprattutto più consapevoli. Le vittime delle guerre ci riguardano, il nostro Paese lo sa bene.

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La non infanzia dei bambini di Gaza, costretti a crescere tra la violenza

Eleonora Pochi
www.nena-news.it

C’è stato un tragico deterioramento del benessere psicofisico dei bambini dopo l’attacco militare israeliano del 2008, Piombo Fuso, quello del novembre 2012 e naturalmente l’operazione militare in corso. Secondo ricerche condotte da Eyad Sarraj, esperto di salute mentale e attivista per i diritti umani scomparso lo scorso inverno, la quasi totalità dei 950.000 bambini gazawi soffre di sintomi psicologici e comportamentali propri del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), tra cui aggressività, depressione, enuresi, flashback e un attaccamento psicotico alla madre o ad un familiare.

E la ciclicità degli attacchi militari fa sì che i bambini siano profondamente e cronicamente traumatizzati perché non riescono a risolvere il loro trauma. Proprio per questo, rilevava Sarraj, “è molto difficile parlare di PTSD quando il trauma continua a ripetersi e a mantenere livelli di stress ricorrenti”.

Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni. Ha visto schizzare il cervello di suo fratello, a causa delle schegge di una bomba e quattro anni più tardi, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale. Ad oggi, Fatima soffre di PTSD. “Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa: Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra resistenza che li spaventa”, ha raccontato all’ONU Mohamed Shokri, 12 anni.

L’evento-guerra, ovviamente, è il più traumatico per il bambino. Tutto il sistema sensoriale è allertato e colpito profondamente: essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni militari; vedere soldati, armi, spari, persone uccise; sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria.

Ieri sulla spiaggia di Gaza City un missile israeliano ha colpito quattro bambini che giocavano, uccidendoli. Un evento del genere, oltre che essere follia disumana, scaturisce profondi traumi nei bambini sopravvissuti, anche solo guardandolo in tv. Anzitutto perché la sensazione di sentirsi perennemente in pericolo di vita causa anche psicosi, oltre che far insorgere traumi.

Da simili eventi scaturiscono emozioni forti come la paura, il dolore, la collera, il senso di impotenza, talvolta il senso di colpa per essere sopravvissuti. La gravità del trauma è condizionata da sette fattori: la violenza improvvisa di un evento traumatico, la vicinanza fisica e affettiva all’evento, la durata e la ripetizione dell’evento, il grado di brutalità, la conoscenza degli assassini. Lo stress e lo choc possono arrivare a turbare molto profondamente aree interne, con rappresentazioni emotive non sempre facilmente verbalizzabili o in molti casi non verbalizzate. L’evitare o, al contrario, ripetere ossessivamente ricordi o comportamenti riguardanti il trauma, sembrano essere due polarità frequenti nella sindrome PTSD e, in generale, in tutti i disturbi che scaturiscono da un’esperienza traumatica.

Ayesh Samour, direttore dell’unico ospedale psichiatrico presente nella Striscia, spiega: “Ai bambini di Gaza è stata negata un’infanzia normale a causa dell’insicurezza e instabilità del loro ambiente. E non temporaneamente. Una cultura di violenza e di morte pervade nella loro mente, rendendoli più aggressivi e arrabbiati”.