Il golpe di don Matteo

Fabrizio Casari
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Il combinato disposto di riforma del Senato e legge elettorale in discussione è una porcata peggiore del Porcellum di Calderoli, che non a caso vi aderisce con entusiasmo. Suggella il patto di potere tra l’ambizioso Presidente del Consiglio e l’ormai ex Cavaliere. Che un patto destinato ad introdurre uno stravolgimento in negativo della Carta Costituzionale firmata dai giganti del nostro Paese possa essere introdotto da due guitti di successo con un ex comico alla finestra dipinge bene lo stato catatonico del Paese. Che a riformare il Senato sia un parlamento eletto con una legge incostituzionale ed un partito il cui boss è stato espulso proprio dal Senato, rappresenta invece perfettamente il lato paradossale di questa penosa commedia italiana. Che un premier eletto da un complotto di corte e un pregiudicato siglino l’intesa segretamente raggiunta, è parte dello stesso paradosso.

Le affinità elettive tra i due sono piuttosto evidenti, e un certo cesarismo figlio di ego ipertrofico e interessi inconfessabili li rende abbastanza sovrapponibili. Li accomuna il fastidio per la Costituzione e per le norme che Berlusconi definiva “lacciuoli” e Renzi definisce “vecchiume”. E se allo psiconano nemmeno 100 parlamentari di maggioranza furono sufficienti per legiferare altro se non per i suoi immediati e diretti interessi aziendali e giudiziari, anche al governicchio attuale riesce tremendamente complicato sopportare una benchè minima opposizione. Il metodo è più o meno lo stesso, al netto dell’eleganza: se Berlusconi comprava qualche IDV, Renzi arruola qualche pezzo di ex-SEL.

Ma le simmetrie non si esauriscono qui. Così come fu per il patto tra Berlusconi e Bossi, non sono mai stati resi pubblici i contenuti del patto del Nazareno e tuttavia il Premier ha la faccia tosta di chiedere più trasparenza, ai Cinque stelle. C’è poi un’anomalia rappresentata dalla contraddizione per la quale il governo e le riforme dispongono di due maggioranze diverse. Il senso del progetto è questo: il governo serve solo ad imporre le riforme subito; queste, una volta completate, permetteranno di far eleggere il governo che si vuole.

Se tutti noi avessimo avuto la precisa sensazione di una eccessiva ingerenza dei partiti nella cosa pubblica, ci pensa Renzi a mandarci in overdose. Il suo disegno autoritario di riforme istituzionali racconta molto della natura e dell’ampiezza delle sue ambizioni. L’idea di come debba essere eletto e composto il Senato ha dell’incredibile. Mentre il paese tutto, sostenuto peraltro dalla sentenza della Consulta, chiede di poter reintrodurre le preferenze nella legge elettorale per ridare un aspetto anche solo formale e parziale all’utilità di recarsi alla cabina elettorale, Renzi propone un Senato formato da sindaci e consiglieri regionali scelti dai partiti.

Che quindi avranno doppio incarico (e immunità) e daranno ai partiti la possibilità di scegliere chi nominare senatore senza nemmeno togliersi il disturbo di chiedere il voto popolare. Tra i compiti dei nuovi senatori c’è quello, primario, di non disturbare il governo, giacché la legge di bilancio (cioè la legge fondamentale dello Stato) non sarà materia sulla quale potranno esprimersi.

Questo Senato, destinato a diventare il maggior ente inutile del sistema pubblico, verrà insediato senza un voto popolare ma scelto dal censo imperante, cioè la casta partitocratica venduta a quella finanziaria. Se si vogliono cercare parallelismi internazionali, è bene ricordare un esempio su tutti: nel 1913, gli Stati Uniti decisero che i senatori – fino ad allora eletti dalle assemblee degli stati – dovessero essere eletti direttamente dai cittadini, proprio per rafforzare la democrazia rappresentativa.

Certo che è possibile superare il “bicameralismo perfetto”, basterebbe dare al Senato le competenze oggi contraddittorie ed indefinite assegnate alle Regioni dai Decreti Bassanini, autentico tsunami di idiozia istituzionale. La riforma che proponeva alla fine degli anni ‘70 il PCI, che prevedeva la trasformazione del Senato in “Camera delle Regioni” e la riduzione a poco più di 400 membri della Camera, sarebbe ancora il passepartout ideale per un disegno armonioso e funzionale del Bicameralismo. La riforma del Titolo V della Carta resta invece impantanata nell’applicazione del dettato del Piano di Rinascita Democratica redatta da un toscano ancor più famoso di Renzi.

L’aspetto della riforma elettorale non è meno grave di quella del Senato e la dice lunga sulle ambizioni inconfessate ed inconfessabili del Presidente del Consiglio. L’antico obbligo costituzionale, che vedeva la formazione del governo come risultato di una maggioranza elettorale, verrà superato con l’introduzione di una legge elettorale che permetterà di insediare un governo frutto della minoranza più grande, non della maggioranza. L’assegnazione del premio di maggioranza a chi raggiunga la quota del 37% dei voti, infatti, rappresenterebbe il coefficiente internazionalmente più basso tra quelli conosciuti, a fronte però di uno sbarramento elettorale tra i più alti al mondo.

I due dati non possono essere letti separatamente: si regalano decine di seggi a chi non li ha avuti dalle urne, mentre la soglia di sbarramento consente solo a tre partiti (dei quali uno, M5S, con un futuro tutto da verificare) l’accesso alla Camera, negando così la possibilità di essere rappresentati a milioni di elettori che non si riconoscono nei tre aggregati maggiori. Se il Porcellum di Calderoli negava agli elettori il diritto all’indicazione delle preferenze, l’Italicum di Renzi gli nega addirittura il diritto di voto.

Il mancato diritto di scelta voluto dal PDL diventa il mancato esercizio del diritto di voto voluto dal PD. Dovremmo avere un’assemblea che legifera per i cittadini senza che questi ultimi possano votarne i componenti. E poco importa che la Corte Costituzionale prima o poi boccerà la legge, il ganzo di Pontassieve ha fretta, chi l’ha insediato passerà a riscuotere a breve e non c’è tempo da perdere.

Questo prevede in sostanza la legge elettorale progettata da Renzi: a chi non ha si regala, a chi potrebbe avere si nega. La relazione tra rappresentanti e rappresentati, principio cardine della democrazia, diviene un orpello da sacrificare sull’altare della velocità e dell’ansia mediatica dell’ex sindaco di Firenze.

Forse il dato più penoso riguarda proprio il PD e il suo incedere intruppato sotto gli stivali del suo capo: erede in qualche modo di un partito sempre impegnato nell’ampliamento della democrazia, nell’inarrestabile declino di cultura politica che lo caratterizza è diventato il motore principale dell’involuzione antidemocratica del Paese. E non è certo un caso se, parallelamente, insieme alla lotta per la democrazia del PCI ha perduto anche la rettitudine sulla questione morale.

Difficile separare le due convinzioni, frutto in effetti dello stesso sistema valoriale prematuramente scomparso: ed è per questo che si assiste alla sua crisi etica, con la definitiva entrata nell’alveo dei partiti motori della corruzione nazionale, ricalcando in ciò le orme familiari ad una parte della sua comunità, la stessa cui appartiene, peraltro, il suo ducetto.

E comunque, ancor più evidente risulta l’assoluta incongruenza con i problemi del Paese, ai quali Renzi ritiene evidentemente di aver messo mano con gli 80 euro per alcuni, a fronte dell’aumento generalizzato delle imposte locali. Mentre Renzi vive nella ricerca quotidiana di una battuta da titolo e di una foto che lo immortali, il Paese arranca come non mai.

Le previsioni di crescita che il Ministero dell’Economia diffonde vengono smentite al ribasso a stretto giro da organismi sia internazionali sia italiani. Intanto, la disoccupazione è giunta a livelli insopportabili per la tenuta del tessuto sociale, la stessa Inps invoca l’abbattimento rapido della legge Fornero, la crisi delle aziende si acuisce ogni giorno di più, la pressione fiscale continua a crescere oltre ogni ragionevole livello. Ma il Presidente del Consiglio è concentrato solo sulla riforma del Senato.

Anche le pietre sanno che dovremo aspettarci un autunno durissimo, che vivremo sotto l’attacco dei fondi speculativi e nell’indifferenza della BCE. Così come tutti sanno che non avremo sconti sul riordino dei conti pubblici sia perché Berlino non cede, sia perché i paesi del Nord Europa non vogliono nemmeno sentir parlare di allentamento del rigore finanziario, sia perché i paesi del Sud Europa, ai quali è stata imposta la tragedia sociale attraverso l’invasione della “troika”, non accetterebbero un diverso percorso per l’Italia.

Al momento gli avanzi di sacrestia al governo indicano nell’abolizione definitiva dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il prossimo impegno per modernizzare. Anche qui, le somiglianze con l’operato del cavaliere nero sono evidenti.

La grande stampa evita di porre alcune, decisive domande al Presidente del Consiglio, riaffermando con ciò come la sua funzione di cane da guardia del potere sia solo un lontano ricordo e spiegando, più di mille assemblee sindacali, il perché della sua crisi irreversibile. Celebra i presunti fasti del renzismo a colpi di titoli e foto e ripropone una categoria come sempre arruolata dai poteri forti, fatta da giornalisti che in realtà sono funzionari politici liberi di scrivere quello che la libertà editoriale gli ordina.

Il Premier, dal canto suo, sa che non serve a molto governare, basta dare la sensazione di farlo. E’ importante far vedere che tutto cambia per occultare il come cambia. E’ vero, cambia verso. Si va nel verso sbagliato.