Palestina – Gli interessi dietro la tregua

Chiara Cruciati
il Manifesto, 17 luglio 2014,

L’accusa è sulla bocca di tutti: Hamas ha fatto fallire la pace non accettando il cessate il fuoco uscito dal cilindro egiziano e prontamente accolto da Tel Aviv. Tutta colpa di Hamas. La realtà è diversa, fatta di incontri e telefonate segrete, interessi che si accavallano e l’esclusione del movimento islamista dalla discussione. Le mani in pasta le hanno tutti: il premier israeliano Netanyahu (che avrebbe preparato il cessate il fuoco in una chiamata segreta con il presidente egiziano Al-Sisi), Il Cairo che non nasconde il desiderio di indebolire il nemico Hamas, l’Autorità Palestinese.

Ieri Abbas è volato nella capitale egiziana dove oggi incontrerà l’ex generale Al Sisi, a cui proporrà il dispiegamento di una forza dell’Autorità Palestinese che supervisioni il valico di Rafah e i 14 km di confine tra Striscia e Egitto. Un’interposizione che potrebbe essere applicata anche ad Erez, valico tra Gaza da Israele. L’Anp invierebbe un commando di guardie presidenziali che addestri ufficiali gazawi, dispiegati al confine e stipendiati da Ramallah. Abbas punta a presentarsi come mediatore tra la fazione palestinese (alleata-avversaria) e la controparte israeliana di cui tutela la sicurezza in Cisgiordania. A Tel Aviv l’idea non dispiacerebbe.

Ieri il presidente dell’Anp ha incontrato al Cairo Moussa Abu Marzouk, leader di Hamas, per discutere dell’iniziativa egiziana. Venerdì vedrà invece il capo del politburo islamista Meshaal, in Turchia, alla presenza del ministro degli Esteri del Qatar: Ankara e Doha sono i riferimenti di Hamas, che vede nella loro mediazione opportunità più favorevoli. Intanto voci contrarie alle iniziative unilaterali del presidente Abbas sono arrivate dall’Olp, dove c’è chi critica «l’esclusione e l’umiliazione del movimento islamista» a cui non è stato chiesto cosa voglia.

Già, Hamas. Cosa chiede? Ieri il portavoce Abu Zuhri ha comunicato all’Egitto il rifiuto del cessate il fuoco nei termini previsti ma solo fino alla soddisfazione delle richieste del movimento: ovvero il movimento è aperto a nuove proposte. Nei media locali gira un decalogo che indicherebbe le condizioni per la tregua. Dai vertici nessuna conferma e a Gaza c’è chi li ritiene veri solo in parte. Hamas chiederebbe un deciso allentamento dell’assedio: allontanamento dal confine dei veicoli militari israeliani e riconsegna della buffer zone ai contadini palestinesi; riapertura dei valichi di frontiera, sia per i residenti che per l’ingresso di materiali da costruzione e materiali necessari all’impianto elettrico; apertura del porto e dell’aeroporto sotto la supervisione Onu; definizione del limite delle acque territoriali a 6 miglia nautiche, entro le quali i pescatori siano liberi di pescare; apertura di Rafah sotto la supervisione internazionale e ricostruzione della zona industriale.

A ciò si aggiungono punti politici: liberazione dei prigionieri arrestati dopo la scomparsa dei tre coloni e di quelli catturati dopo essere stati rilasciati con l’accordo Shalit; tregua di 10 anni; permessi di ingresso in territorio israeliano e a Gerusalemme per i gazawi; e infine impegno israeliano a non interferire nelle questioni interne palestinesi, in particolare nell’accordo di riconciliazione con Fatah, uno degli obiettivi dell’offensiva militare.

Hamas non molla l’osso del governo di unità nazionale, consapevole della propria debolezza politica, della necessità di uscire dall’isolamento regionale in cui è finita dopo la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto e del bisogno di tornare a riaffermarsi in Cisgiordania. Da parte sua l’Anp tentenna, sospesa tra la necessità di non perdere ulteriore consenso popolare (riottenuto con il riavvicinamento a Hamas) e la tentazione di scaricare definitivamente la fazione avversaria. Una tregua negoziata da Ramallah rafforzerebbe Abbas, oggi visto da gran parte dei palestinesi come un burattino nelle mani israeliane.

Alla finestra sta Netanyahu. Bibi balla da solo: non ha comunicato al suo governo l’intenzione di cercare una tregua (il ministro delle Finanze Bennett e quello degli Esteri Lieberman lo hanno scoperto aprendo il giornale, si vocifera nei corridoi governativi) e negozia con gli egiziani bypassando gli Stati Uniti. Il segretario di Stato Usa Kerry, in procinto di volare al Cairo e a Tel Aviv, è stato scaricato da Al-Sisi e Netanyahu, che hanno entrambi cancellato la visita. Bibi ha bisogno di rafforzare la sua posizione in una coalizione indisciplinata: l’attacco a Gaza, pianificato da tempo, è lo strumento migliore per raccogliere un consenso forzato ma necessario, mettendo a tacere le pericolose voci di dissenso degli ultranazionalisti. La prima vittima è il vice ministro della Difesa, Danon, licenziato martedì per le critiche mosse alla proposta di cessate il fuoco. Colpirne uno per educarli tutti.

Il balletto danzato da Al-Sisi e Netanyahu vuole indebolire Hamas e costringerlo alla resa. C’è un elemento che, però, potrebbe cambiare le carte in tavola: dopo l’operazione “Colonna di Difesa” del 2012 che ne annientò quasi completamente l’arsenale, in meno di due anni Hamas è stata in grado di ricrearlo di nuovo, più numeroso e efficace: migliaia di missili – provenienti dall’Iran – che coprono distanze sempre più ampie e si avvicinano agli obiettivi strategici, rendendosi difficilmente intercettabili dal costosissimo sistema Iron Dome. Ad oggi, secondo dati dell’esercito israeliano, i razzi distrutti dal sistema anti-missile sono circa il 20% del totale.

Hamas ha costantemente migliorato la propria intelligence e l’addestramento militare dei miliziani e reperito armi sofisticate. E nonostante la propaganda israeliana che esagera da una parte il pericolo rappresentato dai missili per generare panico nella popolazione e dall’altra l’efficacia di Iron Dome, secondo fonti militari israeliane l’arsenale di Hamas sarebbe stato intaccato di meno di un terzo. Anche Israele ha bisogno della tregua e questo regalerebbe qualche punto ad Hamas.

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Gaza, il mondo finge di non vedere e di non sapere

Salvatore Lucente
http://cronachelaiche.globalist.it/

Ormai è ufficiale. Sei ragazzi israeliani sono stati arrestati per il brutale omicidio del sedicenne palestinese Muhammad Abu Khudair avvenuto mercoledì 2 luglio a Gerusalemme Est. Giovani che fonti governative hanno definito “Jewish extremists”, persone appartenenti all’ultranazionalismo israeliano. Persone probabilmente non molto diverse da quelle che a Roma vanno in giro picchiando la gente perché la pensa diversamente da loro.

Per giorni i media hanno cercato di orientare l’opinione pubblica diffamando la memoria della vittima, con rocambolesche ricostruzioni dell’accaduto in cui le ipotesi di punta erano “ucciso per una faida familiare” oppure “ucciso perchè gay”. Ed i familiari della vittima, interrogati per ore, hanno poi rivelato di essere stati sottoposti a pressioni di ogni tipo per ammettere una di queste ipotesi. Alla fine, è uscita fuori la verità. Questo ragazzo, ufficialmente, è stato ucciso perchè palestinese. Non sono arrivati messaggi di cordoglio dall’Italia, articoli a tre colonne, foto nelle sedi istituzionali.

I particolari venuti fuori dall’autopsia di Muhammad sono raccapricianti. Il giovane, dopo essere stato rapito, è stato picchiato, costretto ad ingerire benzina ed è stato bruciato vivo. Le foto del corpo orribilmente martoriato sono visibili ovunque in rete. Fosse successo in qualunque altro paese, si sarebbe gridato alla barbarie.

Tre degli arrestati, un trentenne e due minorenni, hanno confessato. Gli altri tre, come riportato dalla testata israeliana Haaretz, sono stati rilasciati oggi per essere messi agli arresti domiciliari. Non sono sospettati di aver compiuto materialmente il brutale assassinio, ma “solo” di appartenere alla cellula che l’ha organizzato. A parti inverse, come abbiamo constatato, avremmo visto un’offensiva militare per eradicare questi “estremisti”.

La giustizia e l’inno alla vendetta

Dopo l’arresto dei sei, sono partite le glorificazioni a mezzo stampa dell’efficienza e imparzialità della giustizia israeliana, come se prendere gli autori di un atto così efferato e crudele non fosse il minimo da fare.

Il governo israeliano invece avrebbe dovuto farsi un profondo esame di coscienza, dopo aver lasciato che per giorni si inneggiasse alla vendetta. Gettando continuamente benzina sul fuoco subito dopo la scomparsa di Eyal, Gilad e Naftali, rapiti il 12 giugno e trovati morti il 30 nei pressi di Hebron. La comunità internazionale dovrebbe però chiedersi cosa ci facevano quei ragazzi lì, nei pressi di Hebron.

Perché, senza voler giustificare il barbaro omicidio, il movente non è razziale quanto piuttosto politico. Quei tre poveri ragazzi sono stati uccisi perché coloni, persone che vivono in terre non loro, spalleggiati dall’esercito. Persone che partecipano, loro malgrado, all’occupazione militare più lunga della storia.

Quei poveri ragazzi sono anche loro vittime innocenti del lassismo con cui la comunità internazionale affronta la questione palestinese, dichiarando illegali gli insediamenti israeliani che chiamiamo comunemente “colonie”, ammonendo i propri cittadini a non commerciare con essi, ma lasciando tranquillamente che si moltiplichino. Non bastano gli ammonimenti e le risoluzioni, la comunità internazionale dovrebbe intervenire. O assumersi parte della responsabilità dell’accaduto.

Perché le atrocità cui assistiamo da tre giorni con l’attacco a Gaza derivano da questa vicenda.

Il bavaglio della stampa

Il premier israeliano e altri membri del governo hanno imputato sin dall’inizio l’accaduto ad Hamas, senza aver fornito nessun tipo di prova. Mentre sembra abbastanza certo che non siano stati i vertici dell’organizzazione a dare l’ordine del sequestro, ma una sorta di clan di Hebron solo in parte collegato ad Hamas.

Tutto questo è sembrato come il pretesto che si stava aspettando per riprendere in massa un’offensiva armata contro il popolo palestinese tutto.

Inquietante, è la rivelazione fatta dalla stampa israeliana del “bavaglio” impostogli dalle autorità militari durante le “operazioni di ricerca” dei tre ragazzi. Un bavaglio imposto subito dopo la notizia della loro scomparsa, quando l’esercito era già a conoscenza della loro morte, funzionale a far credere all’opinione pubblica e anche alle famiglie dei ragazzi, che fossero ancora vivi. Un’operazione cinica, utilizzare la scomparsa dei tre ragazzi per mascherare un’operazione militare in piena regola. Bisogna rispettare il dolore dei familiari delle vittime, di tutte le vittime. Non utilizzarlo come pretesto.

Dal rapimento dei tre ragazzi in poi, abbiamo assistito ad una escalation di violenza che ha portato alla “Operazione Bordo Sicuro” cui assistiamo oggi. Netanyahu poteva evitare questa escalation semplicemente rivelando la verità dei fatti.

Media italiani disattenti

Così come poteva evitare questa nuova guerra contro Gaza. Dalla maggior parte dei media italiani, Corriere della Sera in testa, sembra che l’esercito israeliano abbia dato inizio all’operazione Bordo Sicuro questo martedì, dopo che Hamas ha iniziato un lancio di razzi contro Israele. In effetti, martedì a Gaza ci sono stati 20 morti tra civili e componenti di gruppi armati, un numero altissimo di feriti, case distrutte, mentre un centinaio di razzi artigianali partiva dalla Striscia senza provocare danni significativi o feriti.

Ma è già dal 11 giugno, un giorno prima del rapimento, che è iniziato, un po’ alla volta, il bombardamento, quando le bombe intelligenti dell’IDF hanno ucciso un ricercato mentre andava in bicicletta e insieme a lui un ragazzino di 10 anni. Da allora e fino al 30 giugno, seguendo i dati ufficiali riportati dal OCHA (Ufficio UN per il coordinamento degli affari umanitari), l’aviazione israeliana ha lanciato una serie di attacchi missilistici lungo la Striscia di Gaza.

Gli obiettivi erano dichiaratamente militari, ma 29 civili tra cui 11 bambini sono rimasti feriti, mentre sono andate distrutte almeno 10 case, 6 officine, un magazzino alimentare e 450 alberi. Tre militanti di organizzazioni paramilitari sono stati uccisi. Nello stesso periodo, alcuni razzi sono stati lanciati verso Israele, uno di questi ha provocato un buco nel muro di una casa in Beit Hanoun, e l’incendio di una fabbrica a confine, con il ferimento di tre operai.

Ed è dal 30 giugno che Netanyahu accusa Hamas di lanciare razzi in territorio israeliano (per la prima volta dopo il cessate il fuoco del 2012) facendo partire una escalation di violenza da cui è stato “costretto” a difendersi. Il che significa, per i fatti appena riportati, che è stato proprio il governo israeliano a rompere il cessate il fuoco con il partito islamista ed a iniziare l’attacco.

Intanto, quale che sia la reale motivazione dell’attacco israeliano a Gaza, dopo tre notti in cui sono state sganciate più di 400 tonnellate di bombe, ci sarebbero almeno 76 morti in maggioranza civili, e oltre 550 i feriti, secondo quanto riportato dal ministero della salute di Gaza e dall’agenzia di Hamas Alray. E’ una strage, senza umanità. Mancano le parole per descriverla.

In poco più di 48 ore, l’operazione Bordo Sicuro si è già dimostrata più feroce, per gli oltre 740 obiettivi colpiti finora, di quella effettuata in otto giorni nel novembre 2012. Cosa stia davvero cercando di fare Israele a Gaza, e fin dove si spingerà se le organizzazioni internazionali non intervengono, non è dato saperlo. Il primo ministro Netanyahu ha avvertito che i “terroristi palestinesi” pagheranno un prezzo altissimo per i razzi che stanno lanciando su Israele. A pagare, finora, sono soprattutto donne e bambini.