Se le scuole private tengono alla loro identità, facciano a meno dei finanziamenti pubblici

Nadia Urbinati
www.huffingtonpost.it

Intervistata dai giornalisti sull’interferenza subita nella scuola cattolica paritaria dove insegna per la sua presunta scelta lesbica, l’insegnante Silvia (nome fittizio che usa per proteggere l’anonimato) così ha riposto: “È la domanda che mi ha fatto la madre superiora a essere offensiva, perché ha leso i miei diritti di cittadina e di insegnante. Forse sono lesbica, forse non lo sono. Ma chiedermi di smentire voci sul mio orientamento sessuale, e far dipendere dalla risposta il rinnovo del contratto, è stato inaccettabile. Come se fosse normale indagare sotto le lenzuola dei dipendenti”. Verrebbe spontaneo rispondere all’insegnate che purtroppo in questo comportamento da parte della scuola privata cattolica non vi è nulla di scandaloso. Lo scandalo sta altrove: nel fatto che questa scuola riceva finanziamenti pubblici.

Indubbiamente la suora nella storia di Silvia ha le sue buone ragioni a voler “tutelare” l’istituto scolastico cattolico. Ai cattolici non si può chiedere di approvare l’aborto o l’omosessualità o le scelte libere in materia di morale privata (Papa Francesco ha parlato di compassione e tolleranza verso i peccatori, che non è proprio la stessa cosa di accettazione della libera scelta). Esiste una dottrina della Chiesa e nessun cattolico praticante può comportarsi da liberale e dirigere la sua volontà scegliendo secondo la propria privata coscienza se quest’ultima lo dirige fuori del seminato ecclesiale. Appartenere a una chiesa è oneroso e implica accettare dei vincoli. Senza di che l’identità religione si diluirebbe. Proprio qui, nella difesa della specificità della propria appartenenza religiosa, si è alimentato del resto il seme dello scisma dal tempo della Riforma protestante.

Le buone ragioni dei religiosi non possono tuttavia essere usate nella sfera pubblica, che è abitata da tutti, credenti in diverse fedi e non credenti. I diritti civili e la separazione tra legge civile e legge canonica hanno sancito la nascita della sfera pubblica come spazio davvero aperto proprio perché non confessionale. Qui, nella sfera pubblica, la richiesta della suora a Silvia è inaccettabile. È inaccettabile dunque che i soldi pubblici vadano a finanziare istituti scolastici identitari. Il caso dell’insegnante Silvia ci fa toccare con mano l’errore e la violazione del principio di eguaglianza del diritto contenuto nella legge istituita nel 2000 sul finanziamento pubblico delle scuole private.

I sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private parificate sostengono che assegnare l’aggettivo di “pubblico” solo alle scuole statali è un errore perché anche le scuole private svolgono un servizio pubblico. Questo argomento è stato escogitato per aggirare l’Art. 33 della Costituzione che stabilisce che le scuole private sono libere ma “senza oneri per lo stato”. Gli ideologi del “tutto pubblico” definiscono il pubblico in ragione del servizio erogato non dell’identità dell’erogatore. Si tratta di un errore fondamentale poiché è l’identità del titolare che definisce il carattere del possesso non il bene prodotto e diffuso. Gli ideologi, poi, fanno seguire a questo un argomento prosaico che in questi tempi di crisi purtroppo funziona: il pubblico (Comuni e Stato) spende meno erogando contributi a scuole private parificate esistenti che a potenziare il proprio servizio educativo. Quindi, è sufficiente che le scuole private rientrino nei criteri stabiliti dallo Stato perché acquistino il titolo di “paritarie” e possano accedere ai finanziamenti pubblici. Tra i criteri che lo Stato stabilisce ci sono quelli della sicurezza delle sedi, delle normative anti-incendio, e così via. E per le norme relativi alla delicatissima questione della “libertà”? Qui la questione si fa scivolosa e molto problematica.

I Decreti Ministeriali del 1998 e 1999 (Ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer, Democratici di Sinistra) e il testo unico per “concessione di contributi alle scuole secondarie legalmente riconosciute e pareggiate” che li converte in legge, costituiscono il presupposto per la successiva sistematica e regolare concessione di finanziamenti alle scuole private. In base alla legge 62/2000, emanata in attuazione dell’articolo 33 della Costituzione, le scuole cosiddette private dell’infanzia, primarie e secondarie possono chiedere la parità sottoponendosi alle norme relative ai piani di studio dell’istruzione nazionale. Per questo i sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private hanno concluso che è giusto parlare di scuola pubblica statale e scuola pubblica non statale. Spieghiamo i passaggi centrali di questa evoluzione in senso espansivo del “pubblico”.

L’articolo 33 della Costituzione della Repubblica Italiana dà il diritto “ad Enti e privati di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato”. Il fatto che i finanziamenti vengano dati a scuole gestite da privati, non costituisce violazione del suddetto articolo della Costituzione nel momento in cui anch’esse sono paritarie e pubbliche (aperte a tutti), come viene ricordato all’art 3 della legge 62/2000. Se è vero che in una democrazia parlamentare il parlamento ha il potere di cambiare un uomo in donna, ancora più facilmente esso può cambiare il significato di pubblico e privato. E così è stato. Il finanziamento alla scuola privata venne introdotto dal Disegno di Legge n. 2741 presentato dal governo Prodi il 5 agosto 1997. Nell’art. 1 si riconosce “… il valore e il carattere di servizio pubblico sulle iniziative di istruzione e formazione, promosse da enti e privati …” e si permettono stanziamenti a favore delle famiglie degli alunni che frequentano queste scuole private che perciò vengono dette paritarie. Tuttavia “Le somme destinate agli alunni delle scuole paritarie sono accreditate presso le scuole stesse, che attestano la frequenza degli alunni” (art. 3, 3). Infatti l’Art. 33 della Costituzione italiana, al 3° comma, non dispone solo che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”, ma anche che “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.” Quindi: lo Stato eroga i soldi alle scuole private parificate assicurando a queste ultime “piena libertà” (presumibilmente di indirizzo ideale educativo, con l’unico vincolo di rispettare i programmi ministeriali) e agli alunni trattamento equipollente agli alunni che frequentano le scuole statali.

Il seme della tensione che il caso dell’insegnante Silvia ha sollevato sta proprio in questa normativa: poiché esiste una contraddizione insanabile tra “piena libertà” della scuola privata e scuola pubblica: la prima è “piena libertà” che la scuola ha di essere selettiva proprio per preservare la propria libertà di continuare a essere cattolica o comunque identitaria; la scuola pubblica è libera perché aperta a tutti gli insegnati che lo meritano (e qui il merito è misurato con norme e regole pubbliche uguali per tutti) e a tutti gli allievi che lo vogliono (o che i loro genitori vogliono, nel caso si tratti di minori). Che garanzia assegna la legge a che gli insegnanti possano essere assunti da una scuola privata religiosa in basa al solo merito? Difficile dare una risposta.

Ma se la scuola cattolica vuole preservare questa “piena libertà” non dovrebbe ricevere soldi pubblici. Soldi che vengono cioè da chiunque, non solo dai cattolici, e soprattutto che sono e devono essere distribuiti badando a tener fede alla Costituzione non al dettato della Chiesa. Il paradosso è chiaro: la difesa dell’identità è un diritto della scuola privata che però non può essere finanziato con i soldi pubblici. Le scuole private che accettano di ricevere i soldi dello Stato devono sottostare alle stesse norme delle scuole pubbliche vere. Certo, questo urta contro la loro “piena libertà”. Certo, questo rischia di far perdere loro l’identità. Si comprende quanto sia sofistico e ipocrita l’argomento che vuole che tutte le scuole siano pubbliche (statali e paritarie) se erogano un bene pubblico come l’istruzione: per amore dei soldi si baratta la libertà – salvo sperare che in un paese dove il 95% dei cittadini è di formazione cattolica non si sia costretti a barattare proprio nulla. E invece lo Stato di diritto vanifica questa speranza anche laddove, come in Italia, c’è un regime mono-religioso.

Succede che la libertà individuale che la Costituzione difende (Art. 3) dà alle persone l’opportunità di vivere le proprie scelte senza che lo Stato interferisca con il loro contenuto – purché si rispetti la libertà altrui e la legge. Ma una chiesa e una scuola che ad essa vuole restare fedele può interferire e in qualche modo è prevedibile che lo faccia. E quindi, se davvero le scuole private vogliono onorare e difendere la loro “piena libertà” di esistere e prosperare devono avere la forza di farlo con le loro risorse: questa loro autonomia sarebbe davvero garanzia e segno della loro “piena libertà”. Diversamente, quanto successo all’insegnante Silvia non deve succedere e lo Stato deve intervenire prendendo provvedimenti contro la scuola la cui dirigente ha interferito con le scelte private di un’insegnante. Delle due l’una: o una scuola privata confessionale vuole i soldi pubblici o vuole proteggere la propria “piena libertà” e identità.

Nonostante la legge del 2000 dichiari che si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, la Costituzione della Repubblica italiana ci dice che ciò non è possibile. Le due cose non stanno insieme e lo si vede proprio in casi come questo, quando si apre un conflitto tra “piena libertà” della scuola e “piena libertà” della persona. Quale delle due deve prevalere in caso di conflitto? Lo Stato ha il dovere di essere al fianco del singolo sempre, soprattutto nei casi in cui questo si trova ad essere sfidato dalla direzione scolastica dell’istituto dove lavora con incarico annuale. I diritti servono a proteggere non chi ha potere ma chi non ce l’ha. E invece la legge italiana sembra preoccuparsi più delle richieste della potente Chiesa Cattolica Romana (alla quale ha anche concesso il privilegio di esenzione dall’IMU) che dei diritti dei suoi cittadini. E questo è davvero inaccettabile.

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La madre superiora: «Un docente gay? Mai vicino ai bambini»

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Arcigay del Trentino ha deciso, nei giorni scorsi, di approfondire quanto è avvenuto all’Istituto Sacro Cuore, incontrando la Madre Superiora Eugenia Libratore. Il resoconto del faccia a faccia è stato pubblicato sul sito dell’associazione. Ecco la versione integrale.

Dopo i primi convenevoli di rito, introdotti nell’atrio della scuola e fatti accomodare in un’anticamera, incontriamo la Madre Superiora poi raggiunta dalla ex consigliera provinciale Franca Penasa. Subito si è entrati nel merito, e Madre Libratore ci spiega che il colloquio con l’insegnante è avvenuto “in un luogo riservato” e che ha affrontato la sua dipendente con queste concilianti parole: “Io mi trovo in una situazione imbarazzante, io sono la Superiora di un istituto, responsabile di una comunità educativa. Mi vengono delle voci e io non so, non ci credo neanche, aiutami a capire…”, avrebbe affermato la Superiora nell’incontro. “Da quel momento – continua la religiosa – è partita come una scoppiettata. Io avrei creduto di poter parlare tranquillamente con lei. Si è alzata e io sono rimasta senza parole. E se n’è andata”.

Da parte nostra, abbiamo cercato di spiegare che, forse, la domanda rispetto all’orientamento sessuale rivolta all’insegnante in questione, che sapeva di non avere il contratto rinnovato, potesse essere stata interpretata come il motivo del mancato rinnovo, quindi aver prodotto una reazione scomposta e rabbiosa, di chiusura e risentimento.

La Superiora afferma che era suo dovere, anche umano, approfondire la questione, dare riscontro (oppure, con maggiore speranza, vederle smentite) alle voci di una presunta omosessualità di una sua educatrice. Capiamo però, nel seguito della conversazione, che il chiarimento era necessario anche per la possibilità di nuove future collaborazioni che si verificano di prassi dopo una interruzione del rapporto di lavoro di una dipendente a tempo determinato. E’ infatti la consigliera Penasa a spiegarci meglio il concetto.

Franca Penasa afferma che “la definizione del corpo docente avviene soltanto a settembre” perché in base alla capacità di copertura del monte ore da parte dei docenti strutturati, è possibile che rimangano scoperte posizioni che sono poi colmate attingendo dagli insegnanti a contratto determinato. Quindi ci sarebbe la possibilità che l’insegnante in questione possa essere ripescata.

Dalle parole della Madre Superiora capiamo che la possibilità è decisamente realistica. Infatti ci spiega che “in cantiere c’è la creazione di un Polo scolastico, con gli Artigianelli e le Canossiane, quindi un’apertura importante che ci porterà delle novità. Novità sul piano numerico, un potenziamento sia degli insegnanti, sia degli allievi, sia delle ore. E noi siamo nelle condizioni di dare il giusto riconoscimento a quanti meritano”.

Ma tornando a parlare dell’incontro con la docente ribadisce: “non ho avuto lo spazio fisico di poter dire che questa situazione poteva essere riconsiderata”,

Noi a questo punto chiediamo esplicitamente alla Madre Superiora: “ma se le avesse detto sì, sono lesbica, e l’insegnante fosse stata nella possibilità di vedere rinnovato il suo contratto, lei, onestamente Madre, cosa avrebbe detto?”

La Superiora risponde affermando che se la questione rimane “di natura personale, onesta, discreta, e magari nessuno se ne rende conto…” Senza quello che la Chiesa definisce come scandalo, diciamo noi. La suora è stata interrotta, in tono professorale e spazientito afferma con disappunto che “queste cose vanno dette, io ho mille persone, mille famiglie che dovrò poi garantire, rassicurare, tranquillizzare. Perché mentre c’è qualcuno che si incuriosisce di quello che legge sul giornale, c’è anche qualcuno che dice: Madre ha fatto bene, meno male c’è qualcuno che dice qualcosa di diverso”.

Anche noi abbiamo letto alcuni commenti di lettori sui giornali locali che dicono: Per fortuna che una scuola cattolica non vuole docenti omosessuali. Chiediamo alla Superiora se condivide questo pensiero.

“La risposta a questa domanda – afferma – richiede un distinguo. Se si rimane dentro ad un ambito di discrezione e di tranquillità, e io non ho avuto genitori che vengono a lamentarsi perché quella fa discorsi sballati…”. Per noi è importante questo: chiediamo subito conferma, chiediamo: “Quindi non si è mai lamentato nessuno dell’operato di questa insegnante?” La risposta della Superiora è chiara, “no, perlomeno di questo no”, nessuno si è mai lamentato.

La Madre torna sul punto del colloquio. “Ma se questa si difende in questa maniera, anche così scostumata, a quel punto io non ho nessuna garanzia di poterla tenere”. Noi cerchiamo di capire meglio, e chiediamo se quindi la Madre abbia effettivamente fatto soltanto una domanda, e la suora lo ammette: “io le ho solo fatto una domanda…”. Continua dicendo, riferendosi alla ipotetica omosessualità della docente: “se io mi trovassi di fronte a una caso discreto, molto sereno, che non crea problemi… un caso che non viene esplicitato…”

Ci vuole spiegare, con qualche difficoltà a trovare le parole, che se non è esplicito nei comportamenti e nelle dichiarazioni, un insegnante omosessuale non deve necessariamente essere allontanato. Ci spiega che, per esempio, nella sua scuola c’è un laboratorio grafico a cui partecipano studenti più adulti, e se un insegnante manifestasse questa tendenza potrebbe essere trasferito lì, in modo che “possa occuparsi dei grandi e non dei più piccoli”.

Noi, com’è ovvio, chiediamo subito se forse pensa che una persona omosessuale non possa occuparsi dei bambini più piccoli. Lei risponde che “no, questa è una mia convinzione”, spiegandoci che un’insegnante omosessuale “posso utilizzarla con maggiore serenità e tranquillità con i grandi invece che con i piccoli. Ma questo è un mio gusto, una mia linea” ci tiene a precisare.

Il discorso è scivoloso, cerchiamo di approfondire e chiediamo se secondo lei un insegnante omosessuale possa avere la stessa umanità e capacità per svolgere il suo ruolo di educatore alla pari di un suo collega eterosessuale. Con pacatezza e con un tono saggio la religiosa afferma che “la situazione è molto complessa, non è così semplicistica. Sapete – ci spiega – che questo è un problema che si può ascrivere ad una serie di voci, da quella costituzionale a quella umana, a quella spirituale. É’ un problema che oggi più di ieri sentiamo vivo. Come verrà gestito? – si chiede retoricamente – è un problema che la chiesa ancora non ha definito”, si risponde.

La suora ci spiega che c’è un Sinodo che ne discuterà, noi spieghiamo che c’è un Catechismo della chiesa Cattolica che, pur giudicando negativamente il comportamento omosessuale, dice chiaramente che le persone omosessuali non devono essere discriminate. “Qui non è una questione di discriminazione – ci interromper Madre Libratore – si tratta di una questione di rispetto di tante altre sensibilità. Io ho una scuola da gestire e ho una responsabilità. Candidamente ci spiega che lei deve “tutelare mille sensibilità diverse”.

“Queste voci su questa insegnante mi sono giunte – afferma la religiosa – e questo dimostra che queste sensibilità ci sono. E non è vero che è tutto uguale – continua la suora – è vero che teoricamente un gay è uguale a me, però è anche vero che culturalmente e socialmente c’è una strada da fare, ci sono leggi in programma, ci sono condizioni sociali da misurare, è tutto un discorso che progressivamente ci porterà probabilmente ad una accoglienza, ma nel rispetto di quelle che sono le leggi di natura”.

Quando le facciamo presente che siamo a conoscenza che nella sua scuola ci sono altri insegnanti omosessuali, la suora risponde che “aprirà molto gli occhi”, chiarendo subito che se quella che sarà eventualmente riscontrata in alcuni insegnanti “è una tendenza che rientra nell’ambito di una vita normale di rapporti normali, andiamo avanti, ma se qualcuno esplicitamente vive l’omosessualità – precisa Madre Libratore – io ho devo tutelare gli altri, i genitori”. Noi ribattiamo subito chiedendole da chi o da che cosa dovessero mai essere tutelati. “Tutelati da una normalità di vita” ci spiega la suora, ma purtroppo siamo sicuri che intendesse il contrario, cioè tutelarli dalla diversità, tutelare la presunta normalità da ciò che è considerato da lei sbagliato e dannoso: un insegnante omosessuale.

Rimaniamo su questo punto e chiediamo cosa potrebbe succedere se scoprisse l’omosessualità di qualche insegnante. Cosa farebbe, sarebbe forse licenziato?

“Vedremo che persone sono – risponde lei – e le valuteremo in base al criterio del rispetto delle altre persone”.

Interviene anche Franca Penasa, ex consigliera provinciale della Lega Nord, ora addetta stampa del Sacro Cuore. “Voi sapete che qui le persone pagano una retta – ci spiega – e a differenza della scuola pubblica siamo una scuola con determinate caratteristiche e dobbiamo ascoltare tutto quello che ci viene detto da chi paga la retta. A volte anche noi pensiamo che una cosa non vada fatta, ma noi offriamo un servizio. E questa scuola ha un indirizzo e molti vengono qui per questo”.

A questo punto il problema è di principio. Diciamo che sì, i genitori possono esigere un certo servizio considerato che pagano la retta, ma ci sono anche delle regole da rispettare. Facciamo un esempio. Se una scuola privata che tra i suoi insegnanti ne ha alcuni di colore, e arriva il leghista di turno e dice: io non voglio che un insegnante bingo-bongo insegni a mio figlio, voi cosa fate, lo licenziate? “Non è mai successo”, ci rassicura la consigliera Penasa.

La Madre Superiora ci risponde spazientita e tenta un altro esempio. “Sentite – ci dice – lei va in un negozio e non le piace un capo di abbigliamento, lei non lo prende, qui la famiglia viene, le piace il progetto di vita, le piace la modalità, la prende. Se non la prende se ne va. Io non la mando via – ci spiega – se na va da sola”. Gli esempi ci portano fuori strada, quindi torniamo a bomba e battiamo lo stesso chiodo: se un suo dipendente fosse omosessuale e vivesse la sua omosessualità alla luce del sole e in maniera limpida… A questo punto anche la Madre Superiora mette da parte le ipotesi e afferma chiaramente che “se mi viene a chiedere lavoro e mi dice sono omosessuale, io probabilmente la aiuterò in un altro modo, probabilmente le trovo un altro lavoro, ma non la metto vicino ai bambini”.

Ok, abbiamo capito che secondo la Superiora i bambini devono essere tutelati dalla pericolosità di un omosessuale. Ora, con rispetto, rivolgiamo una domanda alla Madre Superiora, per valutare la sua pericolosità. “Madre, possiamo chiederle quale sia il suo orientamento sessuale?”

Con imbarazzo, dapprima bofonchiando un impercettibile “il mio… perché me lo chiedete?…”, risponde affermando di aver sublimato la sua sessualità nella religione. Abbiamo fatto alla religiosa la stessa domanda che lei ha rivolto all’insegnante. Non si è scomposta più di tanto, non si è alzata rovesciando il tavolo, ma crediamo – considerata la sua espressione – di averla messa in sincero imbarazzo, di essere sembrati sconvenienti e del tutto fuori luogo. E non possiamo che darle ragione.

La Superiora chiude la parentesi dell’indagine sul suo orientamento sessuale in modo netto, tornando su quando affermava: “Se lei mi chiedesse di venire a insegnare e mi dicesse sono omosessuale, io gli direi che forse ha sbagliato strada. Vada da un’altra parte”.