I campi al confine tra morte e solidarietà: il dramma dei profughi iracheni

Chiara Cruciati
Near East News Agency

Tende bianche lungo il confine, la sabbia gialla a fare da contrasto. Pochissimi i fili stesi fuori con i vestiti ad asciugare: questa gente non ha avuto tempo né modo di portarsi dietro qualcosa dalle proprie case, nelle comunità prese d’assalto dall’Isil. Le immagini che arrivano dal Kurdistan parlano di una crisi umanitaria di vastissime proporzioni: sunniti, sciiti, cristiani e ora yazidi. Un milione e mezzo di rifugiati in due mesi. Molti sono fuggiti a Baghdad, dove il governo sta mettendo a disposizione case mobili, tanti altri nella regione autonoma del Kurdistan, ultimo avamposto contro violenze, stupri, minacce di morte.

«Attualmente mi trovo ad Irbil, capitale del Kurdistan iracheno – racconta al manifesto Fabio Forgione, capo missione di Medici Senza Frontiere – Operiamo in tre zone: ad Irbil e nelle zone limitrofe; a Dohuk, a nord della capitale curda; e a Kirkuk, a sud, da giugno controllata dai peshmerga e prima contesa tra il governo di Baghdad e i curdi. Ad oggi, secondo le statistiche disponibili, circa 70mila sfollati sarebbero arrivati nelle ultime due settimane».

Accolti in campi improvvisati, lungo le zone di frontiera ormai ufficiose tra il Kurdistan e le aree in cui si combatte ancora, in cui ogni giorno miliziani qaedisti e peshmerga si scontrano per rosicchiare terreno. I più fortunati, chi può permetterselo, trova riparo nei centri urbani, ma la maggior parte ha avuto a disposizione solo i campi profughi sorti nell’ultimo mese lungo il confine. Altri, i più vulnerabili, sono finiti dentro scuole, moschee, edifici pubblici: «I profughi vivono in campi improvvisati, in zone periferiche lungo il confine in cui anche prima delle nuove ondate di sfollati la presenza di servizi sanitari e medici era piuttosto limitata. Oltre alle città, come Dohuk e Irbil, le autorità curde per quanto possibile sono presenti anche in queste aree di periferia dove gli sfollati si sono concentrati, così da evitare infiltrazioni o pericoli per il resto del Kurdistan iracheno».

Le cronache delle scorse settimane hanno raccontato i lunghi viaggi intrapresi da sunniti, cristiani e yazidi per avere salva la vita: chi poteva è fuggito a bordo di camioncini o in sella ad un asino, il resto a piedi, nelle bollenti temperature dell’estate irachena. Senza cibo né acqua. Ancora oggi il bisogno è estremo: «Le necessità primarie sono l’accesso a acqua, cibo e medicinali per le malattie croniche e le vaccinazioni dei bambini – continua Forgione – Medici Senza Frontiere lavora nel settore medico: stiamo creando cliniche mobili che ci permettano di operare in un raggio di azione più ampio e coprire le necessità della popolazione che si muove da un villaggio all’altro, da un’area all’altra. Abbiamo creato team di medici e paramedici che assicurano i trattamenti medici di base e forniscono i medicinali per malattie croniche e salute mentale».

«I traumi a cui sono state soggette queste persone sono gravi. Alcuni di loro in maniera quasi immediata raccontano del loro viaggio; altri sono ancora in preda allo choc e non sono in grado di ricordare. In generale, a prescindere dalla provenienza, che si tratti di cristiani, yazidi o sunniti, gli spostamenti sono stati estremamente difficili a causa dei bombardamenti o per l’attraversamento di numerosi checkpoint, ognuno dei quali ha accresciuto il livello di trauma subito dai vari componenti della famiglia, senza distinzione: ne sono rimasti colpiti tutti, donne, uomini, bambini».

«Adesso la priorità è fare in modo che l’aiuto arrivi nel modo più veloce possibile: il 20% della popolazione sfollata si trova in condizioni precarie, in scuole, edifici pubblici o moschee, in luoghi dove il caldo estivo e le condizioni igieniche rendono la situazione complessa. I fondi che la comunità internazionale sta raccogliendo devono arrivare il più velocemente possibile, anche nelle zone dove l’accesso è più difficile, a quelle comunità sunnite ancora intrappolate nelle zone teatro del conflitto».

Se, infatti, nelle ultime settimane ad arrivare in Kurdistan sono per lo più cristiani e yazidi, i mesi di giugno e luglio sono stati teatro della fuga dei sunniti delle comunità occupate subito dall’Isil: «Le ondate precedenti, dopo la caduta di Mosul e la presa delle province dell’Iraq centrale, erano dovute ad arabi sunniti e sciiti – conclude Forgione – Ma ciò che tutti hanno notato fin dall’inizio è la solidarietà dimostrata dalle comunità locali, al di là dell’affiliazione politica o l’appartenenza etnica o religiosa. Le famiglie del luogo hanno fornito il primo fondamentale soccorso agli sfollati: lo hanno sottolineato anche le stesse famiglie rifugiate, hanno visto con i propri occhi l’empatia e la solidarietà delle comunità locali». Il primo approdo dopo la fuga dalla morte.