Obama e la nuova guerra in Iraq

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Mentre gli aerei da guerra e i droni americani continuano i bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS) nel nord dell’Iraq, il presidente Obama alla vigilia della sua partenza per le vacanze estive ha tenuto a chiarire che il nuovo intervento degli Stati Uniti nel paese che fu di Saddam Hussein con ogni probabilità non si concluderà nel breve periodo.

Le incursioni USA si stanno concentrando nell’area del monte Sinjar, dove membri della minoranza religiosa Yazidis sono assediati dai militanti jihadisti sunniti. Secondo i resoconti dei media, i bombardamenti americani avrebbero permesso a un certo numero di Yazidi di fuggire verso la Siria e il territorio controllato dai curdi in Iraq. A quelli rimasti nei pressi del monte Sinjar i cargo americani stanno fornendo cibo e acqua dal cielo.

Di fronte alla situazione di crisi nel nord dell’Iraq, nel fine settimana Obama ha dunque avvertito che le forze armate del suo paese non saranno in grado di “risolvere il problema nell’arco di qualche settimana” e che l’operazione in corso “è un progetto a lungo termine”. Come tutti gli interventi militari americani all’estero di questi anni hanno dimostrato, quasi certamente anche quello in corso in Iraq non farà che peggiorare la situazione sul campo.

I sostenitori della Casa Bianca hanno subito espresso preoccupazione per il nuovo coinvolgimento in un conflitto da sempre impopolare e a cui lo stesso presidente si era mostrato contrario fin dal lancio della sua candidatura alla guida del paese.

Le complicazioni per i democratici sono amplificate dall’imminente tornata elettorale di “medio termine” e dalle pressioni repubblicane per un impegno ancora maggiore in Iraq, come ha confermato in questi giorni la consueta incursione sui media d’oltreoceano del falco John McCain, il quale ha criticato l’amministrazione Obama per avere optato per “un’operazione troppo limitata” contro i militanti dell’ISIS.

Secondo il Pentagono, in ogni caso, relativamente semplice sarebbe il raggiungimento dell’obiettivo di impedire ai jihadisti di marciare verso Erbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Più complicato sarà invece risolvere la crisi umanitaria degli Yazidis e neutralizzare la minaccia islamista su Baghdad.

Proprio le sconfitte patite dai peshmerga curdi nei giorni scorsi per mano dei militanti dell’ISIS avevano spinto Obama ad autorizzare – senza l’approvazione del Congresso – i bombardamenti nel nord dell’Iraq. Il Kurdistan iracheno rappresenta d’altra parte un partner strategico per Washington nel quadro del mantenimento di una qualche influenza statunitense in questo paese mediorientale.

Più cauti sono apparsi al contrario gli americani nell’assistere il governo centrale di Baghdad, vista la diffidenza nutrita nei confronti del primo ministro sciita, Nouri Kamal al-Maliki, considerato troppo vicino all’Iran. Ad esempio, l’amministrazione Obama ha respinto l’ipotesi di fornire armamenti direttamente al governo di Baghdad, assumendosi la responsabilità diretta dei bombardamenti contro l’ISIS e suscitando le critiche delle élite sciite indigene.

Gli Stati Uniti intendono d’altra parte fare pressioni su Maliki per convincerlo a rinunciare alla sua candidatura per un terzo mandato alla guida del governo dopo le elezioni parlamentari dell’aprile scorso. Ciononostante, lo stallo politico a Baghdad è sembrato continuare nel fine settimana, con il rinvio a lunedì di una sessione dell’assemblea legislativa che dovrebbe portare alla nomina di un nuovo primo ministro dopo che il blocco parlamentare che appoggia Maliki ha annunciato di volere candidare nuovamente l’attuale premier.

Gli americani, inoltre, continuano a ritenere Maliki responsabile della crisi in cui è precipitato l’Iraq, principalmente a causa della marginalizzazione della minoranza sunnita nel paese, tra la quale in molti avevano almeno inizialmente appoggiato l’offensiva dei ribelli dell’ISIS.

Nelle parole dei leader americani e della stampa non viene invece mai sollevata la questione delle enormi responsabilità degli Stati Uniti nella situazione che sta attraversando l’Iraq.

Come ha confermato in un’intervista concessa questa settimana all’editorialista del New York Times, nonché sostenitore dell’invasione illegale del 2003, Thomas Friedman, lo stesso presidente Obama continua a dipingere una realtà immaginaria nella quale gli USA intervengono disinteressatamente in Iraq per difendere la popolazione inerme e aiutare un governo incapace di mettere a frutto il “sacrificio” dei soldati americani nell’ultimo decennio.

Le radici della catastrofe irachena, al contrario, affondano nelle decisioni dei governi statunitensi a partire dalla prima guerra del Golfo nel 1991, seguita da pesantissime sanzioni, bombardamenti e dall’invasione voluta dall’amministrazione Bush sulla base di menzogne come l’esistenza di fantomatiche “armi di distruzione di massa” e l’inesistente collaborazione del regime di Saddam con al-Qaeda.

Dopo l’invasione, erano stati gli stessi americani ad avere fomentato le divisioni settarie in Iraq, così da affievolire la resistenza all’occupazione.

Ancor più, l’attuale amministrazione democratica ha apertamente coltivato forze integraliste sunnite come ISIS per destabilizzare governi sgraditi nel mondo arabo. Ciò è accaduto in Libia, dove l’intervento della NATO in appoggio a formazioni “ribelli” che hanno gettato ora il paese nordafricano nel caos aveva provocato oltre 50 mila morti e l’assassinio brutale di Gheddafi.

Soprattutto, la consolidata strategia USA di puntare su gruppi fondamentalisti, che teoricamente dovrebbero essere i nemici giurati della “civiltà occidentale”, è apparsa evidente in Siria, la cui crisi ha portato direttamente a quella irachena.

Proprio in Siria, le forze di ISIS si battono da tempo contro il regime di Bashar al-Assad in una guerra che ha fatto più di 100 mila morti e milioni di profughi. Qui, tuttavia, gli USA non solo non hanno mai condannato le forze integraliste anti-governative come stanno facendo in Iraq, ma hanno anzi di fatto appoggiato i ribelli.

Nella retorica ufficiale, gli Stati Uniti e i loro alleati affermano di sostenere soltanto i ribelli “moderati” o “secolari”, ma in realtà paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia hanno finanziato e armato le forze jihadiste, le uniche in grado di costituire una seria minaccia per il regime di Assad.

Le contraddizioni della politica estera del governo americano risultano addirittura moltiplicate proprio in Iraq, dal momento che i militanti dell’ISIS, oltre ad essere una creatura stessa delle manovre degli USA e dei loro alleati arabi, vengono combattuti con bombardamenti aerei pur rappresentando da un lato la giustificazione per il nuovo intervento di Washington nelle vicende di un Iraq sempre più orbitante verso Teheran e dall’altro lo strumento per rafforzare i tentativi di mettere da parte il premier “ultrasettario” Maliki e installare un governo meglio disposto verso l’Occidente.

In questo quadro, appare superfluo ricordarlo, ad uscire sconfitta è ancora una volta la popolazione civile già provata da due decenni di guerre e sanzioni. Una popolazione civile quella irachena che condivide dunque la sorte di quella in Ucraina orientale e a Gaza, i cui responsabili – il regime golpista neo-fascista di Kiev e il governo di estrema destra israeliano – hanno però mano libera per i loro crimini grazie al “senso di giustizia” altamente selettivo degli Stati Uniti d’America.

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Gli USA e il dilemma dell’Isis

Michele Paris
www.altrenotizie.org

I più recenti massacri settari registrati in varie località dell’Iraq stanno minacciando seriamente la strategia americana nel paese mediorientale per contenere l’avanzata dei militanti dello Stato Islamico (ISIS) e sottrarre il governo di Baghdad all’influenza iraniana. Il complicarsi della situazione ha visto inoltre l’amministrazione Obama minacciare un possibile allargamento delle operazioni militari in corso in Iraq alla Siria, dove l’ISIS continua ad operare, sia pure tra molti dubbi sull’atteggiamento da tenere nei confronti del regime di Bashar al-Assad.

Due esplosioni nel fine settimana a Baghdad e nella città settentrionale di Kirkuk hanno fatto più di 40 morti e sono seguite al gravissimo attentato di venerdì in una moschea sunnita nella provincia di Diyala con una settantina vittime. Quest’ultima operazione, la cui responsabilità non risulta ancora chiara, è stata da molti attribuita a membri di milizie sciite, provocando ripercussioni politiche nella capitale.

Poche ore dopo l’esplosione, cioè, alcuni leader sunniti hanno annunciato il boicottaggio delle trattative per la formazione del nuovo governo del primo ministro incaricato, Haider al-Abadi. Il nuovo capo del governo sciita in pectore aveva sostituito Nouri Kamal al-Maliki dopo le pressioni soprattutto statunitensi e il suo compito dovrebbe essere quello di raccogliere il consenso della minoranza sunnita, così da sottrarre il supporto popolare alla ribellione anti-governativa che aveva favorito l’avanzata dell’ISIS.

Le nuove violenze rischiano però di gettare ancor più l’Iraq nel baratro dello scontro settario che era esploso in particolare tra il 2006 e il 2007 durante l’occupazione americana.

Il delinearsi del nuovo scenario nel paese che fu di Saddam Hussein si è accompagnato anche ad un innalzamento dei toni negli Stati Uniti che fa intravedere un ulteriore allargamento del conflitto in Medio Oriente.

La campagna retorica orchestrata a Washington per favorire un possibile aumento dell’impegno militare americano era stata inaugurata giovedì scorso dal numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, il quale aveva descritto l’ISIS come una “minaccia imminente” per gli interessi del suo paese.

Le dichiarazioni del segretario alla Difesa sono state seguite il giorno successivo da quelle del vice consigliere per la Sicurezza Nazionale, Ben Rhodes, per il quale atti come la decapitazione del giornalista americano James Foley rappresenterebbero attacchi diretti contro gli Stati Uniti, tali da giustificare ritorsioni che non possono essere limitate dai confini dei singoli paesi.

Lo stesso capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, aveva a sua volta rivelato come il Pentagono stia valutando l’ipotesi di un conflitto più ampio contro i militanti islamisti dell’ISIS, la cui eventuale sconfitta dovrebbe appunto passare attraverso un’operazione militare americana diretta contro “la parte della loro organizzazione in territorio siriano”.

Le modalità di un simile nuovo impegno degli Stati Uniti sono però oggetto di un acceso dibattito a Washington. L’amministrazione Obama continua infatti ad essere molto cauta nei confronti di un intervento diretto in Siria contro un’organizzazione fondamentalista che appare a tutti gli effetti una creatura stessa della propria strategia mediorientale.

Se fonti governative hanno parlato apertamente di un possibile utilizzo di droni o addirittura dell’invio di squadre delle Forze Speciali in Siria, altri ritengono che ciò debba essere evitato e che si debba piuttosto puntare sulla creazione di una sorta di coalizione di paesi mediorientali alleati degli USA – alcuni dei quali sono stati peraltro finanziatori dell’ISIS – o sull’ennesima operazione di rilancio delle cosiddette forze “moderate” di dubbia esistenza all’interno dell’opposizione siriana, se non sulla fornitura di armi ai curdi siriani.

Dal momento che l’ISIS rappresenta la principale forza anti-regime in Siria, incursioni americane in quest’ultimo paese potrebbero risolversi in un favore per Assad. Ciò ha inevitabilmente prodotto un acceso dibattito a Washington sull’opportunità di un intervento di questo genere e sui suoi obiettivi finali, soprattutto alla luce dell’inconsistenza dell’opposizione “secolare”, ancora più impopolare del regime, che in questi anni media e governi occidentali hanno cercato di promuovere senza successo.

Per molti all’interno dell’establishment statunitense la battaglia contro l’ISIS dovrebbe procedere in parallelo con lo sforzo in corso per la deposizione di Assad, mentre altri ritengono che Washington debba mettere finalmente da parte l’avversione per Damasco e coordinare in maniera più o meno aperta con il regime alauita la lotta ai terroristi sunniti.

Questa seconda ipotesi è sembrata essere supportata nei giorni scorsi almeno da due media arabi, i quali hanno riportato una qualche collaborazione – peraltro non confermata – tra gli USA e il governo siriano, con l’intelligence americana che avrebbe fornito informazioni alle forze di Assad per colpire con bombardamenti aerei le postazioni dell’ISIS in Siria.

Una simile evoluzione della vicenda siriana segnerebbe l’ennesima contorsione di una politica estera statunitense completamente destituita da ogni logica. Infatti, dopo avere fomentato una rivolta settaria per abbattere il regime di Damasco con la creazione di formazioni integraliste violente come l’ISIS, l’amministrazione Obama potrebbe ora rivolgere la propria potenza di fuoco e quella dei suoi alleati contro quest’ultima in Siria, finendo per garantire la sopravvivenza dell’odiato regime di Bashar al-Assad.