La fatica di diventare uomini diversi

Barbara Mapelli
http://27esimaora.corriere.it

Paolo Di Stefano ha scritto un articolo interessante, denso emotivamente ma anche ricco di stimoli di riflessione, sui padri che uccidono i loro figli. E propone di dare un nuovo nome a ciò che sta accadendo, figlicidio: credo sia giusto perché quando avvengono fatti nuovi, soprattutto se seriali, occorre inventare parole nuove, che li nominino nei loro significati, diversi rispetto al passato. Il giornalista termina il proprio scritto con un elogio all’imperfezione (dei genitori) e non si può che dargli ancora ragione: la ricerca della perfezione, madri perfette, padri che cercano di emularle, può generare sentimenti e situazioni difficili da controllare. Sentimenti di inadeguatezza, frustrazione, isolamento, difficoltà di comunicazione con l’esterno ma anche dentro la coppia.

Penso che tutto questo sia giusto osservarlo e che si debba ancora andare avanti a pensare insieme, riflettere, cercare di capire sempre più cosa sta accadendo e perché fenomeni dal segno positivo – le nuove e più consapevoli, partecipate paternità – possano trasformarsi e divenire percorsi di violenza e orrore.

Credo che tutto quanto accade nei cambiamenti dei rapporti tra donne e uomini abbia un legame, non si possa cioè esaminare i diversi fenomeni separatamente. Mi permetto allora un breve excursus per tentare una visione d’insieme, che sarà inevitabilmente parziale ma che si potrà comporre con altre riflessioni perché dobbiamo farlo, è necessario farlo, è l’unica risposta a fenomeni che ci sembra di non saper arginare e comprendere.

Da alcuni decenni abbiamo assistito, e alcune/alcuni di noi contribuito con le proprie scelte, con il proprio pensiero, a una rivoluzione epocale nelle relazioni di genere. Avviata dalle donne ha coinvolto anche gli uomini e credo più profondamente di quanto non appaia.

Donne e uomini sono cambiati, stanno cambiando e questo inevitabilmente riguarda il complesso della vita di ognuno, i rapporti privati, pubblici, professionali, riguarda quindi anche le famiglie, le nuove famiglie che si sono formate e si vanno formando. Per molteplici motivi – l’ansia di non essere all’altezza del compito genitoriale se si lavora, una presa di distanza dalla generazione precedente di madri “scellerate” e altri ragioni ancora – le giovani madri ambiscono a un modello di perfezione, non si accontentano di essere le madri “buone” o “sufficientemente buone” di Winnicott.

Accanto a loro uomini/padri spesso ammirati di questa ricerca e a loro volta concentrati nell’impresa di essere nuovi rispetto al modello del padre assente ancora dominante nelle generazioni precedenti. Di questa ambizione maschile si sono rapidamente impadroniti i media e la pubblicità, e allora un fiorire di spot, di copertine di rotocalco, di storie edificanti, cui nessuno di noi riesce a sottrarsi nel momento in cui ci incantiamo davanti a un passeggino condotto da un uomo, osserviamo con commozione il padre indomito, incurante della fatica e del sole, che costruisce castelli di sabbia, sistema costumini, infila braccioli, abbraccia con morbidi asciugamani corpicini bagnati.

Come misurarsi con tutto ciò, come confrontare i propri tentativi, talvolta maldestri, con queste immagini e con le madri sempre pronte a segnalare manchevolezze, imprecisioni o errori?

Lontani da immagini e modelli edificanti gli uomini/padri reali fanno i conti con le loro fatiche, con le contraddizioni che vivono ancora potenti di modelli ben diversi di maschilità. Si fa molta fatica, mi racconta uno di loro, a divenire uomini diversi, scontrandosi con un passato ancora ben vitale, e si fa molta fatica a crescere con i propri figli, ci si sente fragili e vulnerabili, incapaci e il vulnus che può far perdere la testa spesso è o sembra un motivo futile, scrive ancora Paolo Di Stefano, ma appare come un ostacolo insuperabile all’uomo che non sa opporvisi, che manca – ed è qualcosa che invece noi donne solitamente abbiamo – di un confronto, di un dialogo con uomini nella sua stessa situazione.

Vicini a donne che appaiono più brave in tutto, sottoposti a una continua proposizione di modelli inarrivabili, vivono frustrazioni legate non solo alla paternità, ma alla loro (presunta) inadeguatezza come uomini, ormai destituiti, o volontariamente rinunciatari, alle barriere di sicurezza edificate dalla società patriarcale, erosa nei suoi valori, ma che ancora non è morta, e, se è morta, scrive Sandro Bellassai nel suo bel libro L’invenzione della virilità, «non se ne sono ancora celebrati i funerali».

E siamo tutte e tutti noi che dobbiamo celebrarli questi funerali, prendendone coscienza, parlandone, sì anche tra donne e uomini, cercando di capire cosa si muove nella testa e nel cuore di quel padre, che non trascura la palestra e spesso è tatuato, e al contempo cerca di apprendere il senso, reale, del suo essere padre. Che non è divenire una madre di serie b, ma che significa probabilmente assumersi compiti, apprendere nuove virtù o riscoprirne e aggiornarne di antiche, che ancora sfuggono, a lui e a ognuno di noi.

Non posso e non voglio dare consigli, parlo delle mie esperienze e cerco di capire cosa succede intorno a me, vorrei che si generassero non solo parole nuove che parlano di eventi terribili, ma che nascesse, se pure a gradi, una quotidianità che si interroga, che non lascia soli e non lascia cadere un discorso, che è necessario e difficile, ed è il discorso dei tempi in cui viviamo.

Una quotidianità che investe singoli e singole, che racconta le loro storie, che divengono corali e riguardano la collettività, perché questa è la caratteristica delle riflessioni e pratiche di genere, essere tema privato e al contempo pubblico.

Una responsabilità di trasformazione delle esistenze di ognuno e di tutti che è troppo pesante per essere portata da ogni singola persona, donna o uomo che sia.