Perché non possiamo dirci femministi

Matteo Persivale
http://27esimaora.corriere.it

Joseph Gordon Levitt, 33 anni, attore dal curriculum interessante (film indipendenti come “Mysterious Skin” e kolossal non banali come “Inception”), regista intelligente (“Don John” con Scarlett Johansson, apologo su un Don Giovanni da Jersey Shore), giovane uomo di buoni studi (Columbia University), ha recente fatto coming out parlando con il Daily Beast: «Sono un femminista».

Una dichiarazione lodevole nell’intento, garbata e per niente predicatoria nella forma, ma assai discutibile nella sostanza. Perché i confini della solidarietà con chi è vittima di discriminazione, a qualsiasi livello, sono ben definiti da una questione centrale: sarebbe ovviamente ridicolo se un uomo bianco – o una donna bianca – sostenessero di essere, per solidarietà, neri. Un uomo femminista?

È – quasi – la stessa cosa. Tutta la (lodevole) determinazione a impegnarsi per la parità – di diritti, di opportunità, di trattamento – tra donne e uomini non cambia il fatto inequivocabile che una categoria non sottoposta a discriminazione non può pensare di sapere, davvero, cosa significhi, partire svantaggiati.

Perché la propria identità è, in questo, una uscita di sicurezza, una garanzia, una polizza di assicurazione senza data di scadenza: gli uomini bianchi, eterosessuali, privi di handicap fisici o cognitivi, che hanno potuto studiare e che vivono in Paesi industrializzati (come milioni di uomini: come Gordon-Levitt, e come l’autore di questo post) sono la categoria storicamente meno oppressa della storia umana.

Noi uomini di buona volontà possiamo cercare di informarci, di non ripetere gli errori delle generazioni precedenti, di impegnarci a essere colleghi e partner rispettosi a disposti all’ascolto. Possiamo indignarci ascoltando gli aneddoti francamente sconfortanti che ci raccontano le nostre amiche, le nostre sorelle, le nostre compagne e le nostre mogli, i mille episodi di piccola e grande discriminazione, dai commenti che in altri Paesi sarebbero giustamente inaccettabili sul luogo di lavoro alle molestie vere e proprie, tutte le cose che a noi non toccherà mai subire, per nostra (non meritata, succede e basta, se sei un uomo) fortuna.

Possiamo far vedere con l’esempio, ai nostri figli, se ne abbiamo, che lavare i piatti o cucinare o fare i mestieri di casa non è una prerogativa genetica riservata per misteriosi motivi alle loro madri e alle loro sorelle. Possiamo leggere, capire, informarci. Ma restiamo per forza di cose al di fuori dei confini della discriminazione per combattere la quale il femminismo è nato.

Gli uomini sensibili alle ragioni del femminismo restano uomini. Ecco perché possiamo dirci uomini di buona volontà, possiamo sognare la parità e impegnarci, nel nostro piccolo, per un mondo dove ci siano meno disuguaglianze di genere. Possiamo fare il tifo per le nostre amiche, le nostre compagne, le nostre colleghe. Gioire per le loro piccole e grandi vittorie. Possiamo sognare un mondo – o, almeno, un’Italia — dove sia banalmente normale vedere donne capufficio, donne amministratrici delegate, donne presidentesse. Un’Italia dove l’attuale eccezione diventi una civilissima, scandinava, banale regola. Possiamo sostenere le quote rosa. Semplicemente, non possiamo dirci femministi.