Il ritorno della coscienza apocalittica: fuga dal presente o inizio di un tempo nuovo? di C.Fanti

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 30 del 06/09/2014

In un’epoca in cui incombe in molteplici modi la minaccia della fine del mondo, la coscienza apocalittica guadagna inevitabilmente terreno. È per questo che la rivista internazionale di teologia Concilium (edita dalla Queriniana di Brescia) ha scelto di dedicare proprio a questo tema (“Ritorno della coscienza apocalittica?”) il suo ultimo numero (3/2014), nella convinzione che, nei tempi difficili che l’umanità si trova ad affrontare, la letteratura apocalittica giudaico-cristiana, a cominciare dall’Apocalisse di Giovanni, possa offrire suggerimenti preziosi. Non a caso il profeta Giovanni, sottolinea il gesuita spagnolo Xavier Alegre Santamaría, si proponeva di aiutare le Chiese, da un lato, a sviluppare «una resistenza cosciente e lucida contro l’impero, smascherando le sue menzogne e svelando la sua mancanza di vero potere» e, dall’altro, a «promuovere i valori alternativi del Vangelo», quelli che, alla lunga, avrebbero finito «con l’abbattere la potenza dell’impero romano».

Ma in che modo sta irrompendo, negli attuali tempi di smarrimento, l’universo apocalittico? Espressione di «una cultura che è passata attraverso un cimitero di promesse non mantenute, di sogni ad occhi aperti che si sono trasformati in incubi», l’apocalittica, sostiene il sociologo e teologo Joaquín García Roca, «si presenta sotto tutte le forme possibili: come previsione scientifica, fantasia collettiva, grido d’allarme o prodotto dell’industria dello spettacolo». E se storicamente «sono stati gli impoveriti, le vittime e gli esclusi ad essere i principali produttori di apocalittica», come forma di resistenza e grido di ribellione contro il potere, mirando a raggiungere il più rapidamente possibile la fine e sperando in un futuro alternativo, oggi, afferma García Roca, l’apocalittica viene prodotta anche dai poteri politici, economici e culturali al fine di instillare la convinzione che nessuna alternativa è possibile.

E c’è anche un altro interrogativo a cui il numero di Concilium tenta di dare risposta: l’idea della fine di un mondo e di un tempo, scrivono nell’editoriale Hille Haker, Andrés Torres Queiruga e Marie-Theres Wacker, «rimanda all’inizio di un nuovo mondo e di un nuovo tempo» oppure «rappresenta soltanto una fuga dal presente, il quale altrimenti risulterebbe insopportabile?».

Di certo, sottolinea il teologo tedesco Gregor Taxacher, tutto, nel nostro presente postmoderno, appare infinitamente complesso, dal mutamento climatico alla crisi del debito pubblico fino alla povertà in Africa. Ma «se tutto è infinitamente complesso, tutto diventa facilmente indistinguibile, equivalente, indifferente», una «notte in cui tutti i gatti sono grigi». E se siamo potenti come mai prima, e informati come mai prima, il nostro sapere si tramuta però «in un conoscere la nostra impotenza». E, ancora, se, nel villaggio globale tutto è connesso con tutto, da ciò che mangiamo a ciò che utilizziamo ogni giorno, caricando su di noi una responsabilità universale, per i rapporti sociali ed ecologici del nostro mondo, «tuttavia questa responsabilità ci oltrepassa»: «Chi diventa corresponsabile di tutto, non è più capace di assumersi una responsabilità concreta: siamo colpevoli di tutto e di nulla».

In questo quadro, il discorso biblico del giudizio ci diviene estraneo, risultando assai preferibile «parlare del “Dio buono” che ci accoglie tutti così come siamo», ma dimenticando che la Bibbia intera è piena di discorsi sul giudizio, che «Giovanni Battista apre il Nuovo Testamento parlando di giudizio (Mt 3,7-12) e l’Apocalisse di un altro Giovanni lo chiude con un tremendo mondo di immagini del giudizio universale». Che «fin dal primo giorno della Genesi, quando separa la luce dalle tenebre, e fino al giorno del giudizio universale, Dio è un Dio liberante, che elegge e nello stesso tempo anche rifiuta, salva e nello stesso tempo anche vince l’avversario»: un «fattore di opposizione nei confronti della sapienza e della forza di questo mondo». Che, insomma, la Bibbia è «pervasa da un salutare dualismo rivoluzionario, pervasa da partigianeria per coloro che non avrebbero voce alcuna, per coloro il cui sangue non griderebbe al cielo come quello di Abele».

Ma il fatto è che, evidenzia Taxacher, «la nostra difficoltà con l’apocalittica, specialmente nelle nazioni occidentali industrializzate, dipende dal fatto che noi stessi siamo Babilonia. Giovanni l’apocalittico si è permesso di sognare molte cose inaudite. Che tuttavia la città costruita sui setti colli, il cui tramonto egli sperava, dovesse un tempo diventare la città santa eterna, l’impero romano, il braccio politico del cristianesimo, stava al dì là di qualsiasi sua visione». Una «vita giusta», tuttavia, è possibile anche in Babilonia, perché è possibile serbare le promesse di Dio anche là dove «sembra che tutto cospiri contro di esse». Così, è possibile «chiamare per nome gli idoli a cui noi sacrifichiamo», gettando «sabbia negli ingranaggi» e continuando «a parlare, sussurrando, del Dio vivente».

Sull’interrogativo posto da Taxacher – come sia possibile, cioè, che Babilonia finisca per trasformarsi nella città santa eterna – pone l’accento anche Jorgen Ebach, docente della Facoltà teologica evangelica di Bochum, evidenziando che, se, da un lato, «l’indicazione secondo cui “mancano cinque minuti alle dodici” mette in moto le forze per dilatare quei cinque minuti del tempo che ancora rimane fino a farle diventare secoli», dall’altro, però, la rinuncia a questa indicazione apocalittica finirebbe per lasciare «che tutto vada avanti sempre così»: se, insomma, «ci si ricorda del fatto che non si andrà avanti sempre così», tale indicazione «rimane un fermento, un pungolo, un’obiezione contro la normatività del fattuale e perciò una modalità irrinunciabile del messaggio del Regno di Dio». Di seguito, ampi stralci dell’intervento di Jorgen Ebach. (claudia fanti)

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Non si può andare avanti sempre così

Jorgen Ebach
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I/ APOCALISSE: RIVELAZIONE O CATASTROFE?

Tra gli scritti apocalittici si annoverano due libri biblici. Nella Bibbia ebraica si tratta del libro di Daniele redatto, nella sua forma finale, verso il 166 a.C., il periodo della rivolta dei Maccabei contro il dominio straniero greco-seleucide. Nel Nuovo Testamento si tratta dell’Apocalisse di Giovanni, redatta alla fine del I secolo d.C., all’epoca dell’impero romano, e che fa riferimento, nei suoi temi centrali, al libro di Daniele. Inoltre, ad essi si aggiungono passi corrispondenti in altri scritti, per esempio in parti del libro di Zaccaria o in Mc 13 (…).

Il concetto di “apocalisse” risale alla “rivelazione” di Giovanni, che esordisce con il termine, presto diventato il titolo del libro, apokálypsis. (…). Apokálypsis significa così più o meno “rivelazione, svelamento, scoprimento”: viene scoperto il corso della storia, viene svelato il futuro, vengono rivelati il tempo venturo e il mondo venturo. Non si va sempre avanti così! Questo è, condensato in poche parole, il messaggio del libro di Daniele e dell’Apocalisse di Giovanni. I terrori del presente non avranno l’ultima parola, al posto degli imperi bestiali subentrerà, quale regno umano, il Regno di Dio (così specialmente in Dn 7).

Come mai il termine “apocalisse”, che allude a questa speranza, è diventato un concetto per indicare il terrore più grande? Se oggi per descrivere una catastrofe non si trovano le parole, nei media si dice che è accaduto qualcosa di apocalittico. Il -film di Francis Ford Coppola, Apocalypse now (1979), mise mitologicamente in scena la realtà della guerra del Vietnam. Günther Anders chiamò la rimozione della mortale minaccia nucleare una «cecità apocalittica».”Apocalisse”: rivelazione o terrore, speranza o inferno? La storia della parola fa parte dello stesso suo contenuto.

II/ ROTTURA O CONTINUITÀ?

C’è un ulteriore memorabile scostamento tra il messaggio degli scritti apocalittici della Bibbia e la loro storia degli effetti. Ecco un esempio palese: quando, alla fine del XIX secolo, venne restaurata secondo lo stile neogotico la cattedrale di S. Stefano a Metz, nell’allora Lotaringia tedesca, si aggiunsero ai portali le statue dei profeti maggiori. Non era cosa inusitata rappresentarli nella figura di personalità posteriori. Proprio il profeta Daniele appare nel portone occidentale della cattedrale, inaugurato nel 1903, nella figura dell’imperatore tedesco-prussiano Guglielmo II! Come ha potuto Daniele, che più di ogni altro annuncia la fine degli imperi, diventare la figura di un simile imperialista? Come ha potuto l’indicazione temporale apocalittica – modernamente formulata: “Mancano cinque minuti alle dodici” – trasformarsi in imperi plurisecolari? Come ha potuto la speranza che non si sarebbe sempre andati avanti così trasformarsi nella conferma che si andrà avanti per sempre così? Con queste contraddizioni ha a che fare chi si occupa di apocalittica: come può il potenziale di resistenza e di speranza dell’apocalittica essere ereditato, senza che ciò a cui esso tende si rovesci nel suo contrario?

Innanzitutto alcune citazioni e dei racconti che, a proprio modo, lasciano tracce per comprendere l’apocalittica biblica nonché la storia del modo in cui è stata letta e dell’influsso che ha esercitato. E in primo luogo una annotazione di Pinchas Lapide. Egli chiama l’apocalittica una «messianite, ossia una malattia endemica o, per meglio dire, una infiammazione acuta degli organi giudaici della speranza».

Un racconto chassidico di rabbì Levi Yitzchak di Berdyciv, risalente al XVIII secolo o all’inizio del XIX: «Quando si stese il contratto di nozze per il figlio del rabbì, vi si scrisse, come da tradizione, che le nozze sarebbero state celebrate nel tale e tal giorno a Berdyciv. Ma il rabbi di Berdyciv, furioso, stracciò il contratto urlando: “Come mai a Berdyciv? Scrivi: Le nozze si celebreranno nel tale e tal giorno a Gerusalemme. Solo nel caso che il Messia non sia per quel giorno ancora arrivato, le nozze si celebreranno a Berdyciv”».

All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, in una discussione seminariale tenuta a Berlino, Jacob Taubes, erudito rabbino, esperto in ebraismo e filosofo, spiegò. l’origine dell’apocalittica con una barzelletta indovinata: «Dopo la rivolta scoppiata in Ungheria, nel 1956, un profugo trovò rifugio provvisorio presso alcuni amici a Vienna. Insieme discutevano su dove il profugo dovesse emigrare. Presero un mappamondo, valutando le possibili destinazioni. Ognuna aveva i suoi pro, ma anche i suoi contro. Dopo lunga ricerca, l’emigrante sospirò e chiese: “Non avete per caso un altro mappamondo?”».

Questa, afferma Taubes, è la situazione di Daniele, così è l’apocalittica. Ed egli stesso si mostra come apocalittico par excellence quando in un colloquio dice: «Voi dovete scusarmi, ma in un solo mondo io non posso vivere».

III/ DELIMITAZIONE DEL TEMPO, ELIMINAZIONE DELLO SPAZIO

Non c’è soltanto un mondo e soltanto un tempo, quello del presente; piuttosto verranno un nuovo tempo e un nuovo mondo. In questa prospettiva, secondo Ernst Käsemann, «l’apocalittica è stata la madre di ogni teologia cristiana», ma anche il discorso rabbinico a proposito di “questo mondo” (…) e del “mondo venturo” (…) si pone nella stessa linea. Ecco due citazioni prese da scritti apocalittici intertestamentari: «L’Altissimo non ha creato soltanto un eone, ma due» (4 Esd 7,50); «Infatti se ci fosse soltanto la vita di qui, nulla sarebbe più amaro di questo» (ApBar syr 21,13).

Alla eliminazione dei confini (Entgrenzung) dello spazio corrisponde nell’apocalittica una delimitazione (Begrenzung) del tempo. Questo tempo ha una scadenza; non si andrà avanti sempre così; piuttosto – soprattutto per l’Apocalisse giovannea – dopo violente lotte contro le potenze del male verrà il Regno di Dio. Tuttavia questa indicazione è ambivalente. Si deve sperare che si tratti soltanto di un tempo breve, fino a che, finalmente, questo mondo e questo tempo abbiano fine e irrompano un nuovo mondo e un nuovo tempo? Questa è la speranza di coloro che soffrono nelle situazioni del momento presente, di coloro che non hanno nulla da perdere fuorché le loro catene e coloro per i quali una fine con terrore è preferibile a un terrore senza fine. Chi però ha molto più da perdere, chi nelle situazioni date si è ben sistemato e da esse ha tratto profitto farà di tutto perché tale tempo continui e perché tutto rimanga così com’è. Questa dilatazione del tempo diventa possibile per il fatto che negli stessi scritti biblico-apocalittici le indicazioni di tempo sono cifrate e permettono più di un’unica lettura. Un tale linguaggio in codice è un ulteriore tratto fondamentale degli scritti apocalittici. Così gli imperi descritti per immagini fanno la loro comparsa in forma di metalli (Dn 2) o di bestie (Dn 7; Ap 12s.) e i loro sovrani vengono evocati tramite allusioni – per esempio il seleucide Antioco IV Epifane in Dn 7,8 come l’undicesimo corno della quarta bestia – o mediante un numero enigmatico – come il nome dell’imperatore romano Nerone nel numero “666” in Ap 13,18. Simbolicamente appare cifrato in Ap 16,16 il luogo dell’ultima battaglia con le potenze di Satana: il suo nome ebraico sarebbe, si dice qui nel testo greco, Armaghedòn. Se lo si legge in termini ebraici come har megiddo, allora sembra un’allusione al “monte di Meghiddo”, il luogo nel quale il re giudaico Giosia, cui grandi speranze erano legate, morì improvvisamente in una battaglia contro il faraone Necao (2 Re 23,29).

Le indicazioni di tempo già menzionate acquistarono grande importanza nel momento in cui il libro di Daniele e l’Apocalisse di Giovanni vennero letti non più come espressione di un tempo del tutto concreto e delle sue aspettative, bensì come una tabella di marcia dell’intera storia mondiale, di quella finora nota e di tutta quella futura. I «tre tempi e metà di un tempo» citati in Dn 7,25 hanno subìto una mutazione: da annuncio, del resto piuttosto preciso, di un tempo di governo di tre anni e mezzo che restava ancora ad Antioco, ad un numero enigmatico dai molti significati. Di molti significati si caricarono anche i «mille anni» di cui si parla in Ap 20,2s.: per così tanto Satana sarà incatenato fino a che, letteralmente, il diavolo non sarà lasciato libero e si arriverà così all’ultima battaglia. (…).

V/ NESSUNA TABELLA DI MARCIA DELLA STORIA MONDIALE

Molti evangelicali continuano a leggere le apocalissi bibliche come tabella di marcia della storia mondiale. Un esempio recente è il fatto di riferire la stella “Assenzio” in Ap 8,11 all’incidente nucleare di Cernobyl, perché in lingua ucraina Cernobyl significa assenzio. Tali “decifrazioni” fraintendono radicalmente ciò che la Bibbia vuol dire. Questo fraintendimento è la tipica conseguenza della concezione secondo la quale la Bibbia non può errare.

Questo è evidente soprattutto nella storia dell’interpretazione del libro di Daniele e della successione dei regni in esso descritta per immagini. A tal riguardo è necessario anzitutto contestualizzare letterariamente il libro di Daniele. Nella sua forma finale esso fu redatto al tempo della rivolta maccabaica contro il dominio del successore seleucide di Alessandro Magno, ossia verso il 167 o 166 a.C. Nel rivestimento letterario questo tempo appare come un futuro già intravisto secoli prima da Daniele in alcune visioni. Ciò che il Daniele letterario, alla corte babilonese e più tardi persiana, vede profeticamente come futuro è il presente sia dei redattori sia degli uomini e delle donne destinatari del libro. (…). In questa prospettiva Dn 2 e 7, ognuno a modo suo, delineano la successione di quattro regni. Il primo e quello dei babilonesi, ossia il tempo in cui si colloca la visione profetica di Daniele. Il quarto e ultimo è quello del presente di coloro che lo leggono, ossia quello dei greci. Partendo da qui i due regni in mezzo vanno decifrati come quello dei medi e quello dei persiani. Il quarto regno sarà – così soprattutto Dn 7 – l’ultimo prima dell’irruzione del Regno di Dio. Non si andrà sempre avanti così. In realtà quel quarto regno crollerà subito dopo la compilazione del libro di Daniele. Non vi fece seguito tuttavia il Regno di Dio, bensì l’impero romano. Dal punto di vista storico “Daniele” si è sbagliato, i latori delle aspettative connesse a questa concezione del corso del tempo e del mondo si sono sbagliati. Poiché però nella successiva lettura giudaica e poi soprattutto in quella cristiana non poteva essere ciò che non doveva essere – ossia che un’affermazione biblica si dimostrasse falsa – si cercò di conciliare il dato di fatto del dominio romano con il libro di Daniele. Una possibilità di dare spazio all’imperium romanum nel quadruplice schema di Daniele era la congiunzione del regno dei medi, senz’altro difficilmente concepibile come a sé stante, con quello dei persiani, così che ci fosse posto per un quarto dominio, vale a dire quello romano. In tal modo la verità di Daniele poté essere salvaguardata.

L’Apocalisse di Giovanni riprende motivi di Daniele e unisce le sue quattro bestie in un mostro nel quale si manifesta Roma (Ap 12s.). Nella prospettiva delle due apocalissi biblico-canoniche era dunque Roma l’ultimo regno prima dell’irruzione del Regno di Dio. Di conseguenza c’era da sperare che quell’ultimo regno alla fine crollasse. Tuttavia per i lettori e le lettrici cristiani in epoca romana affrontare questa attesa diventò sempre più problematico. Chi infatti si augurava ancora realmente quella irruzione? Secondo l’Apocalisse di Giovanni prima dell’irruzione definitiva del Regno di Dio ci sarebbero stati pur sempre terribili combattimenti contro le potenze di Satana. Per gli uomini e le donne perseguitati, primi destinatari delle due apocalissi bibliche canoniche, una fine di terrore, lo ripetiamo, era comunque preferibile al terrore senza fine. Ma ciò valeva ancora per le cristiane e i cristiani dopo la svolta costantiniana e per di più da quando, sotto Teodosio, l’impero romano era diventato cristiano?

DOTTRINA APOCALITTICA O DOTTRINA CATECONTICA?

In questo contesto di interessi l’impero romano passa dal suo ruolo di ultimo, prima dell’avvento del Regno di Dio, a quello che trattiene salvificamente i terribili combattimenti venturi prima della realizzazione di quel Regno. Di grande efficacia fu a questo riguardo un passo della (postpaolina) Seconda lettera ai Tessalonicesi. Qui, in 2,1-8, si parla di qualcosa o di qualcuno che in realtà trattiene la venuta del Regno di Dio, ma in tal modo anche la signoria di Satana annunciata per il tempo che precede. Questa cosa o questo qualcuno che “trattiene” (katéchon, katéchôn) venne interpretato riferendolo a Roma e all’imperatore. L’impero romano divenne così la protezione prima dell’apocalisse. Finché dura questo impero, la cattiva potenza viene trattenuta e perciò esso dovrebbe durare a lungo ed essere (per dirla con l’Eneide di Virgilio) un imperium sine fine, un regno senza fine. Il passo della Seconda lettera ai Tessalonicesi è il testo originario della “catecontica”, della teoria e prassi storico-filosofica e storico-teologica, nonché politica: riguarda il fatto di trattenere (katéchein) le catastrofi, contenere il male e ritardare il crollo di questo mondo e di questo tempo. Si tratta di evitare l’apocalisse. Ora diventa evidente perché il libro di Daniele, in quanto “tabella di marcia della storia mondiale” culminante nell’impero romano, passò da scritto di lotta antiimperiale a garanzia biblica del perdurare di questo impero. Per tale motivo l’impero romano doveva durare e proseguire a Bisanzio, Aquisgrana, Vienna, Mosca e pure a Washington. E così diventa evidente perché l’immagine sopra citata di Guglielmo II nel ruolo di Daniele vada in realtà oltre il libro stesso di Daniele, ma non oltre la storia efficacissima della sua lettura.

PERDITA DEL SENSO DELLA REALTA O SPERANZA RADICALE?

Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Al posto della sopra citata «infiammazione acuta degli organi giudaici della speranza» deve forse subentrare una disillusione? (…).

Certamente rimane il rischio della perdita della realtà. Torniamo alla storia del rabbì di Berdyciv. Di sicuro quelle nozze, se hanno avuto luogo, hanno avuto luogo a Berdyciv e non a Gerusalemme, poiché il Messia non era giunto. Il rabbì di Berdyciv è forse un visionario apocalittico se riconosce ancora alla realtà solo un posto a margine del possibile? O forse egli prende così sul serio il messaggio della “Scrittura” da farlo contro quella realtà che presumibilmente “ora” è così? L’osservazione di Jacob Taubes, secondo cui egli non poteva vivere in un solo mondo, è forse un escapismo elitario oppure egli perseverava nella convinzione che ciò che è non è il tutto? L’eredità dell’apocalittica è una fuoriuscita dalla storia e dai suoi reali conflitti oppure è un radicale immergersi in questa storia, in quanto questa contesta alla realtà di essere la totalità? (…). L’indicazione secondo cui “mancano cinque minuti alle dodici” mette in moto, se vi si presta assolutamente ascolto, le forze per dilatare quei cinque minuti del tempo che ancora rimane fino a farle diventare ore, fino a farle diventare secoli. Ma la rinuncia a questa indicazione apocalittica lascia che tutto vada avanti sempre così. Se l’eredità dell’apocalittica diventa la tabella di marcia della storia mondiale essa tradisce non soltanto ciò che gli scritti apocalittici biblici hanno da dire, ma diventa – che lo si voglia o no – garanzia dello status quo. Se ci si ricorda del fatto che non si andrà avanti sempre così, essa rimane un fermento, un pungolo, un’obiezione contro la normatività del fattuale e perciò una modalità irrinunciabile del messaggio del Regno di Dio.