Karla, Gregorio e gli altri. In Messico los periodistas los matan

Claudio Alessandro Colombrita

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Uccisi, feriti, sequestrati e minacciati, come in una delle tante guerre che si combattono ogni giorno in ogni parte del mondo. Sono i giornalisti del Messico, costretti ad una vera e propria crociata per la libertà d’informazione, messi a bavaglio da un Paese che ha tutto l’interesse di offuscare la verità. Il narcotraffico e la sua repressione portano alla medesima conseguenza: la censura di ogni forma di giornalismo. Dal primo aprile al trenta giugno di quest’anno, infatti, sono ben ottantasette le offensive portate a media e giornalisti, secondo i dati raccolti dall’organizzazione internazionale Articolo 19. Trentanove aggressioni fisiche, quattordici intimidazioni, nove minacce, tredici arresti, quattro atti di censura e otto azioni legali. L’ultimo, in ordine di tempo, subito dalla reporter Karla Janeth Silva e da una segretaria, nella sede del giornale “El Heraldo de Silao”, nel pomeriggio del 4 Settembre. La giornalista, secondo le ricostruzioni, sarebbe stata aggredita da un gruppo di persone non ancora identificate, che si sono accanite contro di lei procurandole una ferita al cranio, una frattura nasale, ferite alle labbra e lividi su tutto il corpo che l’hanno costretta a un ricovero immediato.

Secondo le prime ricostruzioni, basate sulle indagini del pubblico ministero e sulle dichiarazioni della giornalista, un gruppo di persone, non ancora identificate, sarebbe stato mandato dal sindaco di Silao, Enrique Benjamín Solís Arzola, per mettere a tacere le dure critiche mosse dalla Silva all’amministrazione della città. Nel corso dei mesi, la reporter aveva denunciato la mancanza di servizi comunali, l’assenza di trasparenza e lo spreco di risorse e viveva nella consapevolezza che qualcosa potesse accadere, vista la non invidiabile media di un attentato al giorno subito dai giornalisti in Messico.

La militarizzazione e la guerra al narcotraffico, intensificata dall’ex presidente conservatore Felipe Calderòn, ha portato ad un’ondata di violenza senza precedenti in tutta la società e gli operatori dell’informazione sono quelli maggiormente a rischio. Si pensi che dal 2006 a oggi ci sono stati cinquantuno omicidi e venti rapimenti.

Nulla è cambiato nel periodo 2013-2014. Anzi, si assiste ad una generale censura nei confronti della libertà d’espressione e del diritto alla protesta. Soprattutto nella capitale, Città del Messico, dove, lo scorso anno, è stato eletto il nuovo sindaco di centrosinistra Miguel Àngel Mancera. Sempre secondo i dati forniti dall’organizzazione non governativa Articolo 19, la città che nel 2013 ha registrato più intolleranze nei confronti dei giornalisti (diciannove) è stata Veracruz. Seguono Città del Messico con quindici e Quintana Roo con dodici.

I cartelli del narcotraffico da un lato e le autorità dei tre livelli di governo dall’altro intrappolano i reporter in una gabbia da cui è difficile uscire. L’autocensura è la soluzione più battuta, per evitare di rimetterci la pelle. La complicità tra governo e criminalità organizzata, in certi contesti, è radicata e lascia poco spazio alla libertà di stampa. Si pensi che circa il quarantaquattro per cento degli attentati ha come responsabili i tre livelli di governo e delle duecentosettantaquattro occasioni in cui è stato possibile identificare il colpevole, in ben centoquarantasei si è trattato di un rappresentante dello Stato, in maggioranza di poliziotti municipali.

Nei luoghi dove ci sono diversi narcocartelli che lottano per il predominio sul territorio, svolgere la professione di giornalista è stimolante, ma tremendamente rischioso. Queste faide sfuggono al controllo dello Stato, che non vuole rischiare di mettersi contro la criminalità organizzata solo per salvaguardare i diritti di chi vuole raccontare la verità. In molte città del Messico si assiste ad arresti e reclusioni forzate di reporter che, magari, hanno fotografato un poliziotto che usava violenza, documentato abusi e raccontato i movimenti di piazza.
«Con le pallottole non si uccide la verità». «Con le pallottole non si uccide la verità».

Eppure, in Messico esistono due istituzioni statali per rispondere a tali problemi: la Procura speciale per i delitti contro la libertà di espressione e il Meccanismo per la protezione di giornalisti e difensori dei diritti umani. Un tentativo per illudere la stampa di avere qualche tipo di appoggio governativo.

La giovane ed esile Karla Silva non ha perso, però, le speranze e l’entusiasmo per questa professione. E dalle colonne dell’ “El Heraldo de Silao” ha lanciato il suo messaggio: «Ringrazio i colleghi giornalisti che mi hanno manifestato la loro solidarietà in queste ore. Non mollo. Anche dopo questo episodio. Ho studiato tanto per poter svolgere questa professione, e insieme alla mia famiglia continuerò a combattere».

Il contesto è proibitivo. Ma la reporter è perfettamente a conoscenza dei rischi che corre giornalmente nella sua battaglia: «I rischi, come in qualsiasi lavoro, sono pane quotidiano. Però, non possiamo restare in silenzio e negare ciò che sta accadendo nella nostra società. Questa è la nostra parte, essere portavoce per chi non può avere una voce in pubblico».

Prima del ferimento della Silva, altre violenze sono state perpetrate nei confronti della stampa, da gennaio ad oggi. L’11 Febbraio Gregorio Jiménez de la Cruz, cronista veracruzano, è stato ritrovato in una fossa comune dopo essere stato sequestrato e ucciso. I cronisti del giornale “El Noroeste” hanno subito delle aggressioni da parte della polizia, perché impegnati a ricostruire le relazioni del boss Guzman nei giorni successivi al suo arresto. Il sito “1dmx.org”, che documentava in un archivio tutta la violenza della polizia nelle manifestazione del 2013, è stato chiuso dalle autorità federali. Infine, a Città del Messico, Fabiola Gutiérrez, collaboratrice del portale digitale “Somos El Medio”, è stata arrestata illegalmente, e il direttore di Articolo 19, Darìo Ramìrez, proprio due giorni prima di presentare il rapporto, ha subìto un furto.

I dati parlano chiaro. Non è un caso che, per il terzo anno di fila, Freedom House, nel suo rapporto “libertà di stampa 2014″, abbia classificato il Messico nella categoria «non libero» di esercitare la libertà di stampa «dopo le contabilità dolorose di settantasei giornalisti uccisi e sedici scomparsi dal 2000». Numeri confermati da Articolo 19, che ha collocato il Paese al centotrentaduesimo posto della lista di nazioni che non danno garanzie per la libertà di espressione.