Obama e la guerra infinita

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Alla vigilia del tredicesimo anniversario degli attacchi dell’11 settembre, il presidente Obama ha ufficialmente annunciato l’apertura di una nuova avventura bellica che consegna sempre più gli Stati Uniti a uno stato di guerra permanente. Oggi come nel 2001, le giustificazioni per l’ennesimo intervento all’estero sono apparentemente legate al dilagare del terrorismo internazionale, sia pure in una versione aggiornata, e oggi come nel 2001 le cause e le circostanze che hanno determinato l’ulteriore situazione di crisi continuano a essere tenute nascoste all’opinione pubblica.

A Obama sono stati sufficienti meno di 15 minuti di diretta televisiva per notificare al paese l’invio di altri 475 soldati in Iraq e l’escalation delle operazioni militari non solo nello stesso Iraq ma anche in Siria per combattere la nuova creatura del fondamentalismo sunnita, ancora una volta emanazione diretta della politica estera criminale degli Stati Uniti.

Il coinvolgimento di Washington nella crisi siriana segna anche il “successo” dell’apparato militare e della sicurezza nazionale americano nel proprio sforzo per la rimozione del regime di Assad. Esattamente dodici mesi fa, l’amministrazione Obama fu costretta a una clamorosa marcia indietro dopo il fallimento del tentativo di bombardare la Siria a causa della vastissima opposizione popolare a una nuova guerra e, di riflesso, del mancato sostegno ottenuto dal Congresso.

In quell’occasione, un’operazione “false flag” dei “ribelli” anti-Assad con l’assistenza diretta della Turchia aveva cercato di creare un casus belli per l’intervento occidentale contro Damasco, operando un attacco con armi chimiche nei pressi della capitale siriana e attribuito poi al regime.

Oggi, invece, gli Stati Uniti sono giunti allo stesso obiettivo per un percorso diverso ma che rientra in una metodologia consolidata, ricorrendo cioè alla necessità di fermare l’avanzata di una formazione jihadista violenta – l’ISIS – che ha potuto però ottenere un grado di successo con pochi precedenti grazie proprio alle manovre degli USA e dei loro alleati a favore dell’opposizione armata in Siria.

Nel suo discorso nella notte italiana di mercoledì, Obama ha delineato una strategia da perseguire su più fronti. In primo luogo, l’inquilino della Casa Bianca ha escluso una ripetizione dei conflitti in Iraq e in Afghanistan, caratterizzati da una forte presenza di militari USA sul terreno. Questa pretesa è però in parte smentita dai fatti, visto che in Iraq sono già presenti ormai poco meno di duemila militari americani, anche se ufficialmente senza incarichi di combattimento.

Le garanzie della limitatezza dell’intervento in Iraq e in Siria contrastano poi con la vastità dell’obiettivo dell’estirpazione di un movimento che controlla immensi territori e che ha già costruito una rudimentale organizzazione di governo. Inoltre, le ammonizioni dello stesso Obama circa la lunga durata dell’impegno contro l’ISIS lasciano intendere una pressoché certa escalation, se sarà necessario anche con l’invio di truppe di terra, come hanno confermato anche le osservazioni circolate sui media in questi giorni di vari analisti vicini al governo di Washigton.

I modelli a cui Obama ha fatto riferimento mercoledì sono stati comunque lo Yemen e la Somalia, dove da anni la CIA e il Pentagono conducono bombardamenti illegali con i droni, ma anche azioni delle Forze Speciali, contro le formazioni integraliste AQAP (Al-Qaeda nella Penisola Arabica) e Al-Shabaab.

Al di là dell’ironia involontaria di Obama nel definire un “successo” le operazioni in questi due paesi, l’apparente cambiamento di strategia nella proiezione del potere degli USA nel mondo – da guerre con centinaia di migliaia di soldati a operazioni “mirate” – non solo è determinato dalla profonda impopolarità di conflitti sanguinosi con ingenti perdite in termini di uomini, ma risponde soprattutto alla dottrina interventista globale dell’imperialismo a stelle strisce elaborata nella sua forma più chiara proprio dall’attuale presidente. Un impegno multipolare per far fronte alle innumerevoli crisi nel pianeta esclude di per sé il continuo ricorso a contigenti militari significativi.

La tesi così sostenuta dal presidente democratico si risolve perciò in uno degli altri punti fermi della strategia mediorientale appena annunciata, vale a dire la creazione di un’alleanza internazionale per combattere l’ISIS e il sostegno militare e finanziario alle forze armate indigene. Fin dall’inizio delle operazioni contro l’ISIS in Iraq, gli USA e vari governi europei hanno garantito forniture ed equipaggiamenti militari alle forze regolari di Baghdad e ai peshmerga della regione autonoma del Kurdistan iracheno.

In territorio siriano, invece, come previsto la strategia americana dovrebbe basarsi sulla riesumazione delle forze ribelli “moderate”, semplicemente inesistenti o, quanto meno, spazzate via nei mesi scorsi dal regime di Assad, nonché dalla loro inettitudine e a causa del consenso praticamente nullo raccolto tra la popolazione.

Proprio sulla nuova campagna di addestramento e finanziamento dei ribelli anti-Assad e anti-ISIS si limiterà probabilmente a esprimersi il Congresso americano, evitando un voto formale per autorizzare operazioni di guerra in Siria che risulterebbe politicamente difficile da sostenere a poche settimane dalle elezioni di medio termine.

Obama, peraltro, ha fatto sapere mercoledì di non avere bisogno di alcuna autorizzazione del Congresso per lanciare una guerra senza limiti di tempo né vincoli in Siria. L’amministrazione democratica, per colpire i militanti dell’ISIS, intende infatti riferirsi alla già esistente autorizzazione all’uso della forza approvata da Camera e Senato all’indomani dell’11 settembre 2001.

Quel provvedimento intendeva però assegnare poteri straordinari al presidente solo contro i responsabili degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono, identificati nell’organizzazione di al-Qaeda. Com’è noto, da mesi i vertici di quest’ultima hanno però ripudiato l’ISIS, annunciando che questo gruppo di fanatici sunniti non fa parte della loro organizzazione terroristica.

Al fine di evitare spinose questioni legali che ora devono sembrare superate, Obama aveva recentemente fatto riferimento ai poteri costituzionali riconosciutigli come comandante in capo per operare gli oltre 150 bombardameni finora condotti contro l’ISIS in Iraq. Su queste basi, però, sarebbe necessario rispettare il dettato della War Powers Resolution del 1973, secondo la quale, in assenza di un voto del Congresso, il presidente deve mettere fine alle ostilità da lui dichiarate entro 60 giorni.

Per questa amministrazione, come per la precedente, la Costituzione e le leggi degli Stati Uniti sono tuttavia carta straccia, da manipolare secondo i propri bisogni. Già nel 2011 con la guerra in Libia, ad esempio, Obama aggirò i limiti imposti ai propri poteri, sostenendo che le operazioni nel paese nord-africano non erano da considerarsi una vera e propria guerra – nonostante i 50 mila morti e un paese devastato – perché le forze americane non correvano in pratica nessun rischio.

Inquietante, infine, è apparso il riferimento di Obama alla facoltà del suo paese di perseguire l’ISIS ovunque e senza tenere conto di alcun confine. Ciò lascia intendere possibili interventi futuri anche in altri paesi mediorientali, quelli ovviamente che manifestino resistenze all’egemonia americana, come Iran o Libano.

Parlando ieri alla nazione, Obama ha inoltre ribadito che l’uso della forza da parte statunitense è giustificato da qualsiasi presunta minaccia agli interessi cruciali degli USA. La portata di questa interpretazione risulta evidente proprio con l’ISIS e la Siria, visto che lo stesso Obama ha confermato come non ci sia alcuna indicazione che i jihadisti stiano progettando attacchi in territorio americano, ma questi ultimi potrebbero diventare una “minaccia crescente” se lasciati liberi di operare.

Nel commentare l’interminabile conflitto contro le forze del “terrore”, così, in maniera fintamente ingenua, il New York Times ha scritto giovedì che Obama, con la decisione appena presa, potrebbe avere assicurato un’eredità di guerra al suo successore, precisamente come aveva fatto George W. Bush nei suoi confronti. L’osservazione, nella sua superficialità, è il livello massimo di ammissione da parte di un giornale ufficiale, e quindi dell’establishment americano, dello stato di guerra senza fine che alimenta l’apparato di potere degli Stati Uniti, come risposta all’inevitabile declino di quel che resta della prima superpotenza del pianeta.

A tredici anni dal lancio del colossale inganno della “guerra al terrore”, dunque, la pace appare sempre più lontana, così come un miraggio è l’America in salute descritta da Obama sul finire del suo intervento di mercoledì. La guerra permanente al terrorismo – frutto volontario e assieme involontario della contraddittoria politica estera statunitense – non è che l’espressione di uno sforzo senza fine, e per questo destinato a fallire, di ricreare un equilibrio, in Medio Oriente come altrove, nel quale Washington possa promuovere i propri interessi ed estendere la propria influenza in maniera incontrastata.

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L’America pronta per il “midterm”

Mario Lombardo
www.altrenotizie.org

Con il voto in alcuni stati della costa orientale, nella giornata di martedì si è chiusa negli Stati Uniti la stagione 2014 delle primarie in vista delle elezioni di metà termine del 4 novembre prossimo per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington. L’appuntamento con le urne, già tradizionalmente disertato da molti elettori in assenza della sfida per la Casa Bianca, anche se potrebbe decidere il cambio di maggioranza al Senato, sembra suscitare ben poco interesse al di fuori dei media ufficiali e dei circoli di potere, confermando la crescente sfiducia degli americani verso un sistema totalmente bloccato e privo di reali alternative politche.

A rendere ancora più cupo un clima generale fatto di difficoltà economiche persistenti, disuguaglianze sociali senza precedenti e preparativi per nuove guerre oltreoceano, sembra essere non solo la realtà di due partiti pro-business praticamente intercambiabili che monopolizzano la scena politica statunitense, ma anche la scarsità di sfide realmente competitive che andranno in scena tra meno di due mesi.

Come previsto negli USA, nel “midterm” la Camera dei Rappresentanti verrà rinnovata completamente, mentre al Senato saranno in palio 36 seggi sui 100 complessivi, di cui 21 attualmente detenuti da democratici e 15 da repubblicani.

Nel caso della Camera, è opinione ampiamente condivisa che i repubblicani riusciranno a conservare la maggioranza in maniera agevole, con addirittura un possibile incremento del margine di 35 seggi (234-199) che vantano sui democratici nel 113esimo Congresso uscente.

Dal momento che gli equilibri nei distretti elettorali dei singoli stati per la Camera di Washington risultano in gran parte consolidati, in pratica poco più di una settantina di seggi vedranno una reale competizione tra i candidati dei diversi schieramenti. Ancora meno sono poi i seggi per i quali le sfide si annunciano equilibrate, così che la composizione finale della Camera si discosterà solo in minima parte da quella attuale.

La drastica diminuzione del numero di elezioni competitive per la Camera è in parte il risultato delle modifiche dei distretti elettorali messe in atto in questi anni dalle assemblee legislative locali per assicurare il dominio di uno dei due partiti, attraverso l’inclusione nei confini dei distretti stessi di città o quartieri i cui elettori tendono a votare per il partito che si intende favorire e l’esclusione di quelli che propendono per l’avversario.

Soprattutto, però, questa dinamica è il risultato di una consolidata polarizzazione dell’elettorato americano, riscontrabile però quasi esclusivamente tra una percentuale relativamente ristretta di votanti che partecipano attivamente al processo di selezione della classe dirigente, laddove la grande maggioranza della popolazione rimane indifferente di fronte ad una scelta limitata a due partiti che sono espressione di diverse sezioni delle élites economico-finanziarie del paese.

Casi emblematici di questa realtà sono gli stati solitamente ascrivibili al Partito Democratico o a quello Repubblicano. Come accade nel corso delle campagne elettorali presidenziali, infatti, anche nella corsa al Congresso il partito che raccoglie ben poche fortune in un determinato stato evita in sostanza di “sprecare” risorse economiche in una competizione persa in partenza.

Ciò è evidente ad esempio in vari stati del sud, a grande maggioranza repubblicana, o viceversa nel nord-est e sulla costa occidentale, dove a prevalare sono i democratici. Particolarmente significativi sono i casi di California e Texas, i due stati con le più nutrite delegazioni alla Camera. In entrambi gli stati, secondo gli analisti d’oltreoceano, complessivamente solo due seggi sembrano essere realmente in bilico tra i candidati in corsa sui 55 in palio nel primo e i 36 nel secondo.

In molti casi, inoltre, il partito sfavorito non ha nemmeno presentato un candidato, come nello stesso Texas, dove i democratici non saranno presenti in una decina di distretti su 36. Le sfide per la Camera, in definitiva, si sono risolte in buona parte durante le primarie dei mesi scorsi, con i confronti interni ai due partiti tra l’anima moderata e ultra-conservatrice dei repubblicani e tra quella ugualmente moderata e “progressista” dei democratici.

Secondo gli standard dei media ufficiali americani, maggiore interesse dovrebbe destare la sorte del Senato, dove la maggioranza democratica di 55 seggi contro i 45 dei repubblicani appare seriamente a rischio. Anche in questo caso, dei 36 seggi che verranno rinnovati solo la metà circa vedrà sfide competitive, quasi tutte in stati tradizionalmente repubblicani o in bilico tra i due partiti.

Se i seggi aperti di Montana, South Dakota e West Virginia, dove i senatori democratici in carica hanno da tempo annunciato il loro ritiro, sembrano destinati ai repubblicani, altri quattro stati vinti da Mitt Romney su Obama nelle presidenziali del 2012 – Alaska, Arkansas, Louisiana e North Carolina – appaiono in bilico e, anzi, vedono al momento leggermente favoriti i democratici.

Questi ultimi hanno però dei margini molto ristretti visto il clima politico a loro sfavorevole e non possono permettersi in pratica nessuna sconfitta in stati dove sono maggiormente favoriti, nonostante debbano talvolta fronteggiare agguerriti rivali repubblicani.

Pur dovendo giocare sulla difensiva, il Partito Democratico ha comunque qualche carta da giocare in tre stati dove i seggi in palio sono occupati da senatori repubblicani. In Kentucky a essere in pericolo è addirittura il leader di minoranza Mitch McConnell, accreditato dai sondaggi solo di un lieve vantaggio sulla 35enne democratica Alison Lundergan Grimes. In Georgia, invece, i democratici con Michelle Nunn – figlia dell’ex senatore Sam Nunn – sembrano avere un margine, anche se precario, sull’imprenditore repubblicano David Perdue.

Più complessa è infine la situazione in Kansas, dove il ritiro del candidato democratico, il procuratore distrettuale Chad Taylor, avrebbe singolarmente complicato le cose per il repubblicano in carica, Pat Roberts. La mossa di Taylor, infatti, potrebbe favorire un candidato indipendente ben finanziato, l’imprenditore Greg Orman, il quale secondo alcuni avrebbe accettato di votare con i democratici se eletto al Senato in cambio, appunto, del ritiro dalla corsa dello stesso Taylor.

I repubblicani stanno investendo ingenti risorse per conquistare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, così da ostacolare ulteriormente, secondo la versione ufficiale, l’implementazione dell’agenda del presidente Obama o per promuovere il loro programa. In realtà, anche se il Senato dovesse passare di mano, le differenze rispetto alla situazione attuale nei prossimi due anni potrebbero non essere particolarmente evidenti.

Obama, oltre a mantenere il potere di veto sui provvedimenti del Congresso che può essere neutralizzato solo con una maggioranza dei due terzi di entrambe le camere, ha già visto affondare in questi anni molte delle sue iniziative alla Camera dei Rappresentanti, nonostante l’appoggio della maggioranza democratica al Senato. Quel che è certo, è che il ribaltamento degli equilibri al Senato produrrebbe invece un nuovo spostamento a destra dell’asse politico di Washington.

In ogni caso, se fino a pochi mesi fa le probabilità di mantenere una maggioranza anche risicata al Senato sembravano reali per i democratici, oggi la situazione appare ribaltata e il partito del presidente viene dato decisamente in affanno.

A conferma di quanto descritto in precedenza sulla totale sfiducia degli elettori verso la classe politica americana, un recentissimo sondaggio Gallup ha rivelato come appena il 14% degli elettori approvi l’operato del Congresso. Questo livello infimo di gradimento a due mesi dalle elezioni è il più basso mai registrato da Gallup da quarant’anni a questa parte.

L’insoddisfazione si concretizzerà con percentuali di astensione elevatissime, mentre saranno i democratici a pagarne maggiormente il prezzo nelle scelte degli elettori, visto che controllano la Casa Bianca. Anche se il suo nome non apparirà sulle schede, Obama rappresenta poi un’ulteriore zavorra per i candidati democratici, soprattutto negli stati considerati di tendenze conservatrici, come dimostra il gradimento in continua caduta della sua amministrazione.

Assieme alle elezioni per il Congresso, il 4 novembre gli elettori americani saranno chiamati a scegliere anche molti governatori e assemblee legislative statali, dove a dominare attualmente sono i repubblicani. Dopo i successi del 2010, però, governatori e parlamentari locali del Partito Repubblicano hanno generalmente messo in atto devastanti politiche anti-sociali e sembrano quindi dover andare incontro a non poche sconfitte.

Tra i governatori repubblicani maggiormente a rischio ci sarebbero Tom Corbett (Pennsylvania), Rick Snyder (Michigan), Scott Walker (Wisconsin) e Rick Scott (Florida). Il possibile cambio alla guida di questi stati non preannuncia comunque significative variazioni dell’agenda politica, come potrebbe accadere in Florida, dove il candidato democratico sarà infatti un ex repubblicano, vale a dire l’ex governatore Charlie Crist.

Nel complesso, il voto di “midterm” è caratterizzato da livelli di spesa da record nelle campagne elettorali, grazie anche a più o meno recenti sentenze della Corte Suprema che hanno abbattuto gran parte dei limiti alle contribuzioni per i donatori più facoltosi. In alcune competizioni a livello statale, come in quella per un seggio al Senato in Kentucky o per la carica di governatore in Florida, la spesa complessiva dei candidati ha addirittura già superato i 100 milioni di dollari.

Questa è d’altra parte la logica conseguenza dell’evoluzione di un sistema politico fatto di ricchi e al servizio dei ricchi, con la conseguente emarginazione delle classi disagiate, tanto che il continuo lievitare delle somme spese nelle campagne elettorali risulta ormai inversamente proporzionale al livello di interesse degli elettori e alla credibilità agli occhi di questi ultimi della classe politica americana.