Scuola, il Patto piange ma non per le paritarie

Valerio Gigante
www.adistaonline.it

Doveva essere l’ennesimo annuncio di “svolta”, “riforma”, “rivoluzione”. Alla fine, più realisticamente, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato a Roma, il 3 settembre scorso, alla fine del Consiglio dei Ministri, un “Patto educativo”, pur non resistendo alla tentazione di definire le sue “linee guida” per la scuola come lo strumento attraverso il quale “rivoluzionare” nei prossimi 12 mesi il sistema di istruzione del nostro Paese.

La scuola è un po’ come la nazionale di calcio. Tutti si sentono in qualche modo coinvolti quando se ne discute (perché sono stati studenti, o sono genitori di studenti, o persone che gravitano o hanno gravitato a vario titolo in quell’ambiente), tutti pensano di avere la soluzione ai suoi mali ed ai suoi problemi. Insomma, la scuola è un tema cool: anche per questo, tutti coloro che negli ultimi due decenni si sono avvicendati al governo vi si sono cimentati, presentando una loro “riforma” della scuola (Berlinguer, Moratti, Fioroni, Gelmini, solo per citarne alcuni) fatta di facili slogan che andassero incontro alle messianiche attese dell’opinione pubblica (basti ricordare le tre “i” della Riforma Moratti: inglese, impresa, internet). Ma anche intervenendo pesantemente sul budget e sulle tutele giuridiche che garantiscono l’autonomia dell’istituzione che più di tutte contribuisce alla costruzione di un sapere critico e di una cittadinanza consapevole.

Il risultato è stato un taglio drastico di risorse e personale (soprattutto nel triennio di applicazione della “riforma Gelmini”, tra il 2008 e il 2011), un progressivo spostamento di risorse dall’istruzione pubblica a quella privata, una forte accentuazione del ruolo della scuola come ponte verso il mondo del lavoro piuttosto che come luogo dove formare alla cittadinanza; una progressiva verticizzazione dei processi decisionali, a scapito dell’autonomia degli organi collegiali.
Privati e private

Le proposte di Renzi non sembrano andare in controtendenza rispetto al processo in atto da anni. Lo accelerano anzi, solo in parte mascherando questa operazione con l’annuncio di un nuovo straordinario piano di assunzioni (cui però fa da pendant l’annuncio della ministra Marianna Madia che per gli statali gli stipendi, fermi dal 2010, resteranno ancora bloccati per mancanza di risorse). Si parla di innovazione tecnologica («Non saremo soddisfatti fino a quando l’ultima scuola dell’ultimo comune d’Italia non avrà banda larga veloce, wi-fi programmabile»), di implementazione dello studio delle lingue e degli insegnamenti tradizionali svolti in altre lingue, di rapporto più stretto tra scuole ed imprese. Si apre nuovamente al contributo dei privati (dai soldi versati direttamente dai genitori fino a quelli delle imprese), si prospetta una nuova legislazione della scuola che dia maggiore potere decisionale ai dirigenti scolastici e crei una maggiore differenziazione (anche salariale) tra i docenti, in base al “merito”.

Il tutto, al solito, avviene attraverso processi decisionali calati dall’alto e che non hanno coinvolto chi la scuola la vive e la fa quotidianamente. Le linee guida escono dal Ministero dell’Istruzione bell’e pronte. E poco cambia che Renzi abbia annunciato che dal 15 settembre al 15 novembre avvierà una “campagna di ascolto” per conoscere il parere dei cittadini sul documento governativo. Non è postando il proprio parere su internet (un espediente introdotto da Mario Monti ai tempi della spending review) che si partecipa realmente ai processi decisionali. Ma in certi casi basta l’illusione. Tanto più che il premier ha manifestato in più occasioni l’intenzione di bypassare i corpi intermedi (cioè sindacati, associazioni studentesche e di categoria, che comunque hanno accolto per ora negativamente la sua proposta) per rivolgersi esclusivamente e direttamente ad un indistinto “mondo della scuola”.

C’è poi, sotteso, il capitolo del rapporto tra pubblico e privato. Nella scuola questo confine è stato rotto nel 2000. Paradossalmente (ma solo in apparenza) durante un governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi, e con all’Istruzione il primo ministro non democristiano dell’età repubblicana, Luigi Berlinguer. Fu lui a volere fortemente il varo della legge 62/2000, quella che all’art. 1 sancisce che «il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, comma 2 della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali». Da allora scuole statali e non statali sono state considerate ugualmente “pubbliche”. E quindi, essendo tutte parte del sistema nazionale di istruzione, a tutte vennero garantiti finanziamenti. Per le private si tratta di circa 500 milioni di euro l’anno, cui vanno aggiunti i fondi che arrivano da Comuni e Regioni. In tutto (sono dati che riporta Marina Boscaino sull’ultimo numero di MicroMega, interamente dedicato alla scuola), circa due miliardi di euro all’anno. Un budget che ha tenuto a galla l’istruzione privata (al 90% e oltre di segno cattolico) nell’ultimo decennio. Ma oggi rischiano di non bastare, visto il lento, ma inarrestabile, calo di iscrizioni nelle scuole cattoliche.
Sussidiarietà, risparmio, libertà di scelta

Anche su questo versante il governo è da mesi impegnato a tranquillizzare la Chiesa che non intende abbandonare le private al loro destino. Non sarà certo un caso che le prime indiscrezioni del progetto governativo sulla scuola siano state anticipate a fine agosto dalla ministra dell’Istruzione Stefania Giannini al Meeting di Rimini, annuale raduno di Comunione e Liberazione, che è da oltre trent’anni l’avamposto di ogni progetto di privatizzazione della scuola e baluardo nel sostegno agli istituti cattolici. E infatti, nel testo governativo presentato il 3 settembre, al punto 3, si garantisce: «Servirà lavorare per dare alle scuole paritarie (valutate positivamente) maggiore certezza sulle risorse loro destinate, nonché garanzia di procedure semplificate per la loro assegnazione».

Negli ultimi mesi, del resto, la ministra Giannini si è spesa più volte sul tema della difesa delle scuole private. «I soldi sono necessari per la scuola pubblica e quella paritetica [sic!], che non lascerò indietro», disse in una intervista a Repubblica (15/2) all’inizio del suo mandato. «La libertà di scelta educativa deve trovare anche in Italia un suo spazio politico e culturale concreto. Servono misure perché le paritarie possano essere una delle opzioni per le famiglie»; «la libertà di scelta educativa è un principio europeo ed è un principio di grande civiltà. Scuole statali e paritarie devono avere uguali diritti», affermò il 27 febbraio, intervenendo alla trasmissione di Radio1, “Prima di tutto”; «la paritaria è uno dei punti del sistema che funziona meglio quindi si tratta di rafforzarla», ribadì il 10 marzo seduta in mezzo ai bimbi di una scuola dell’infanzia parrocchiale a Padova. C’è poi lo stesso Renzi, che a Bologna – ai tempi del referendum del 2013 che voleva bloccare i fondi pubblici ai nido privati (allora era candidato alle primarie del Pd) – si pronunciò a favore del finanziamento delle scuole dell’infanzia private con i fondi pubblici, invocando il principio di sussidiarietà.

Ecco, a destra come nel centrosinistra, la copertura ideologica per giustificare i finanziamenti alle private viene sempre dalla parola magica “sussidiarietà”; la legittimazione giuridica dalla “legge sulla parità” di Berlinguer. Il motivo di ordine “pratico” dalla vulgata che pretenderebbe che le scuole private farebbero addirittura risparmiare soldi allo Stato.

Partiamo da quest’ultima. Sono anni che l’Associazione genitori delle scuole cattoliche (Agesc) sostiene che lo Stato risparmierebbe circa sei miliardi ogni anno grazie alla presenza delle scuole paritarie. Una affermazione che, sempre sull’ultimo numero di MicroMega, Marina Boscaino commenta così: «L’Agesc si riferisce al bilancio (parziale) dello Stato e non a quello (complessivo, non formalizzato, ma reale) della nazione, intesa come insieme di cittadini e di famiglie. Se tutti ci pagassimo sanità e scuola privata, lo Stato avrebbe indubbiamente un enorme avanzo di bilancio. Chi manda i figli alle paritarie, se non le evade, paga sia le tasse (che finanziano anche la scuola pubblica) sia la retta privata. Lo studente paritario costa meno allo Stato perché costa di più alle famiglie. Meglio: a quelle che se lo possono permettere». C’è poi il principio della sussidiarietà, che vuole che le attività debbano essere svolte dagli enti territoriali, anche privati, più vicini ai cittadini e solo in caso di necessità o maggiore efficienza può intervenire il livello superiore, quello statale. E quindi lo Stato sarebbe tenuto a finanziare le strutture private per garantire ai cittadini “libertà di scelta”. Su questa base Berlinguer sancì che scuole statali e non statali facevano tutte parte del sistema nazionale di istruzione.

Ma il principio della sussidiarietà può andare bene per la sanità, dove lo Stato stipula convenzioni con i privati per assicurare cure su tutto il territorio nazionale, anche dove non siano presenti strutture pubbliche. Non certo per la scuola, dal momento che, sopra ogni legge dello Stato, resta l’art. 33 della Costituzione (che la legge di parità scolastica infatti citava, ma che poi vanificava), che afferma esplicitamente (non lo fa in nessun altro caso) che la Repubblica «istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». E che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione», ma «senza oneri per lo Stato». Cioè senza soldi pubblici. Proprio a tutela di quella necessaria pluralità, libertà, laicità, autonomia dell’insegnamento e della trasmissione della cultura che solo lo Stato, e non il privato, può garantire.