USA, la CIA in redazione

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Il grado di collaborazione raggiunto in questi ultimi anni tra la stampa ufficiale negli Stati Uniti e gli organi di governo è stato messo ulteriormente in luce qualche giorno fa da un’indagine apparsa sulla testata on-line The Intercept, co-diretta dall’ex editorialista del Guardian Glenn Greenwald, noto per avere pubblicato molti dei documenti riservati sulla NSA forniti da Edward Snowden.

In seguito a una richiesta basata sul Freedom of Information Act, la CIA ha reso pubbliche centinaia di pagine di documenti riguardanti appunto le relazioni esistenti tra la principale agenzia di intelligence a stelle e strisce e i giornalisti americani. Il quadro che ne è risultato, sia pure molto parziale, è al tempo stesso scoraggiante e relativamente prevedibile.

In sostanza, Greenwald ha delineato un rapporto estremamente cordiale tra le due parti, con richieste di commenti o modifiche sui pezzi ancora da pubblicare e scambi di opinioni nonostante i rappresentanti della stampa sarebbero tenuti a mantenere le distanze, se non un senso decisamente critico, nei confronti di un’agenzia responsabile di innumerevoli crimini e violazioni dei diritti umani e civili.

La vicenda che ha trovato maggiore spazio nell’articolo e che è rimbalzata su qualche testata negli Stati Uniti è quella dell’ex giornalista del Los Angeles Times, specializzato in questioni di intelligence, Ken Dilanian. Di quest’ultimo, dal maggio scorso passato alla Associated Press, vengono presentate una serie di e-mail scambiate con l’ufficio per le relazioni esterne della CIA, a conferma dei suoi “stretti rapporti con l’agenzia”, alla quale prometteva “una copertura giornalistica positiva e talvolta inviava intere bozze di articoli per essere valutati prima della pubblicazione”.

La corrispondenza in questione riguarda soltanto alcuni mesi nel corso del 2012, sufficienti però a chiarire quali siano i metodi “critici” impiegati dai professionisti dell’informazione negli Stati Uniti e, con ogni probabilità, non solo.

Tra gli esempi riportati da The Intercept, vi è un messaggio inoltrato da Dilanian a uno sconosciuto addetto all’ufficio stampa della CIA nel quale lo informa di essere al lavoro “su una storia relativa all’attività di controllo del Congresso sui bombardamenti con i droni”.

L’articolo, secondo il giornalista all’epoca alle dipendenze del Los Angeles Times, poteva “offrire una buona opportunità per voi ragazzi [della CIA]”. A Dilanian, cioè, premeva far sapere all’agenzia di Langley che il suo pezzo sarebbe potuto servire a “rassicurare l’opinione pubblica” sulle operazioni dei droni USA all’estero, responsabili di un numero imprecisato di vittime civili.

In un’altra occasione, invece, Dilanian aveva scambiato varie comunicazioni con la CIA in relazione ad un articolo in fase di preparazione sulle operazioni clandestine della stessa agenzia in Yemen. Alla fine, il giornalista aveva inviato ai suoi interlocutori una bozza modificata secondo le indicazioni ricevute, chiedendo se la nuova versione “appariva migliore”.

Di casi simili ve ne sono molti e tutti illuminanti. Nel giugno del 2012, ad esempio, dopo che alcuni membri del Congresso avevano inviato al presidente Obama una lettera per esprimere la loro preoccupazione nei riguardi del programma di bombardamenti con i droni condotto dalla CIA, Dilanian aveva scritto all’agenzia per prospettare l’ennesima “buona opportunità” per limitare i danni.

La lettera di deputati e senatori era giunta in seguito alle notizie che descrivevano varie incursioni con i droni in Pakistan e in Yemen con decine di morti tra la popolazione civile, il tutto senza alcun reale controllo sulle operazioni da parte del Congresso. In questa occasione, Dilanian informò la CIA che stava preparando un articolo “non solo rassicurante per l’opinione pubblica” ma che avrebbe fornito anche “la possibilità di fare luce sulla disinformazione relativa ai droni che a volte giunge dai media locali”.

Il giornalista americano chiedeva l’aiuto della CIA nel produrre una storia nella quale sarebbero stati citati esponenti del governo che sostenevano che il programma di bombardamenti veniva svolto con la dovuta attenzione per evitare “danni collaterali”, smentendo così quelle notizie che riportavano numerose vittime civili.

Qualche giorno dopo, Dilanian avrebbe risposto alla diffusione della notizia dell’uccisione con un drone in Pakistan del leader di al-Qaeda, Abu Yahya al-Libi, assieme ad almeno una decina di persone, sostenendo che il jihadista ricercato dagli USA era in realtà l’unica vittima dell’operazione. In un’e-mail inviata alla CIA prima della pubblicazione del pezzo, Dilanian chiedeva se l’agenzia avesse qualcosa da obiettare alla sua versione.

Prevedibilmente, la CIA non aveva nulla da eccepire, ma parecchi mesi più tardi Amnesty International avrebbe diffuso un rapporto sulla vicenda di al-Libi, rivelando che il missile lanciato da un drone aveva ucciso cinque uomini, tra cui oltretutto non figurava lo stesso militante fondamentalista. Al-Libi sarebbe stato ucciso da un secondo attacco avvenuto poco dopo il primo e che fece altre 15 vittime.

Almeno una modifica suggerita dall’ufficio stampa della CIA è stata riscontrata da Greenwald nella versione pubblicata di un articolo di Ken Dilanian sul Los Angeles Times, nonostante la corrispondenza resa pubblica non riveli il contenuto dei messaggi inoltrati dalla stessa agenzia di intelligence.

Il 16 maggio 2012, infatti, un pezzo uscito sul principale quotidiano della California, relativo al coinvolgimento della CIA nella “guerra al terrorismo” in Yemen, appare parzialmente diverso rispetto alla bozza della stessa storia sottoposta dal reporter all’agenzia due settimane prima.

Su indicazione della CIA, Dilanian aveva rimosso l’esplicito riferimento alla presenza di membri dell’agenzia nel paese della penisola arabica, dove stavano collaborando con clan locali per fornire le informazioni di intelligence necessarie alle incursioni dei droni USA, sostituendolo con un cenno più vago a “un piccolo contingente di truppe americane” e aggiungendo la presenza di Al-Qaeda nel territorio in questione.

Il lavoro di disinformazione svolto da Dilanian è confermato infine da uno scambio di messaggi sulle polemiche seguite alla collaborazione della CIA con la regista e lo sceneggiatore del film “Zero Dark Thirty” – rispettivamente Kathryn Bigelow e Mark Boal – sull’assassinio di Osama bin Laden. I repubblicani, in particolare, avevano criticato l’amministrazione Obama per avere condiviso con gli autori del film di propaganda alcune informazioni riservate sul blitz in Pakistan.

Per Dilanian la vicenda rappresentava una nuova occasione di intervenire per proteggere la CIA dalle conseguenze della rivelazione. In questo caso, il reporter proponeva di scrivere un articolo nel quale si sosteneva che le informazioni fornite per la realizzazione di “Zero Dark Thirty” erano “routine” e che non si discostavano da quelle che l’agenzia aveva offerto al mondo del cinema in altre occasioni, dimostrando così che “l’episodio non rappresenta affatto uno scandalo”.

Un anno più tardi, scrive Greenwald, un documento interno della CIA, pubblicato in seguito ad una richiesta approvata in base al Freedom of Information Act, avrebbe confermato che l’ufficio per le relazioni esterne dell’agenzia di Langley – lo stesso con cui era in contatto Dilanian – aveva chiesto e ottenuto modifiche alla sceneggiatura del film per fare apparire la CIA sotto una luce migliore. La corrispondenza di Dilanian con la CIA è costellata anche di espressioni che rivelano la familiarità dei rapporti tra le due parti e l’entusiasmo con cui il giornalista sottoponeva il proprio lavoro all’esame dell’intelligence americana.

Raggiunto da Greenwald per commentare i suoi legami con la CIA, Ken Dilanian ha definito la condivisione dei suoi articoli con l’agenzia prima della pubblicazione – cosa che, inoltre, andava contro il codice di autoregolamentazione interno alla redazione del Los Angeles Times – soltanto come una “pessima idea”.

La condotta di Dilanian e il suo minimizzare le rivelazioni di The Intercept testimoniano di un’evoluzione del ruolo della stampa ufficiale negli Stati Uniti specifico di questi ultimi anni. In particolare, il clima venutosi a creare dopo l’11 settembre 2001 ha determinato una sorta di rapporto di simbiosi tra la stampa “manistream” e il governo di Washington, all’interno del quale le notizie da pubblicare devono passare attraverso una vera e propria censura o, sempre più spesso, auto-censura.

In questo scenario, il diritto del pubblico all’informazione viene subordinato alle necessità della sicurezza nazionale con conseguenze catastrofiche per la libertà di stampa. I media principali, ormai in mano a grandi corporations e diretti da multimilionari, si dimostrano peraltro perfettamente a loro agio in questa realtà.

Il New York Times, solo per citare una pubblicazione ritenuta tra le più prestigiose, nell’America del post-11 settembre aveva ad esempio rimandato la pubblicazione della notizia dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione Bush di un programma di intercettazione illegale su richiesta della Casa Bianca, così da non compromettere la rielezione del presidente repubblicano nel 2004.

Inoltre, la stessa testata aveva concordato con l’amministrazione Obama la pubblicazione dei documenti riservati del Dipartimento di Stato ottenuti da Wikileaks, mentre l’allora direttore, Bill Keller, si era impegnato in prima persona nell’opera di demolizione dell’immagine di Julian Assange, giungendo inoltre a scrivere in un famigerato editoriale che la libertà di stampa consisteva principalmente nella “libertà di non pubblicare determinate informazioni”, verosimilmente se considerate dannose per il governo.

La condotta di Ken Dilanian non è dunque un’eccezione, visto che la sola indagine di The Intercept ha riscontrato contatti abituali tra la CIA e reporter o editorialisti di altre testate, come Washington Post, New York Times, Wall Street Journal, Fox News e NPR (National Public Radio).

Oltre a discutere del materiale da pubblicare, molti esponenti della carta stampata e dell’informazione digitale vengono frequentemente invitati al quartier generale della CIA per “briefing e altri eventi”, a cui partecipano, assieme ai giornalisti, anche alcuni dei cosiddetti “ombudsmen” di varie testate, la cui figura negli USA, secondo molti, dovrebbe essere garanzia della trasparenza e della qualità dell’informazione.