Tutti i “passi di pace” necessari. Il documento della manifestazione di Firenze

Ingrid Colanicchia
Adista Notizie n. 34 del 04/10/2014

Considerando i conflitti domestici, l’invio di contingenti al di là dei propri confini, la crescente militarizzazione della società e l’import-export di armi, sono pochi i Paesi che possono dirsi veramente pacifici. E tra questi non c’è senz’altro l’Italia che tra “missioni di pace”, esportazioni di armi da primato e, per restare ai nostri giorni, invio di armi ai peshmerga curdi, ha un curriculum di tutto rispetto sotto il profilo guerrafondaio. Con buona pace della Costituzione e della legge 185 del 1990 che vieta, per esempio, l’esportazione di materiali di armamento verso Paesi in stato di conflitto armato o responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani. L’Institute for Peace and Economics ha calcolato che nel 2013 il costo globale dei conflitti che hanno insanguinato il nostro Pianeta corrisponde a una cifra pari all’11,3% del Pil mondiale.

Di fronte a scenari così catastrofici ogni singolo passo di pace è importante. Come quello compiuto dalle migliaia di persone che hanno partecipato, il 21 settembre scorso, alla manifestazione “Facciamo Insieme un Passo di Pace”, organizzata a Firenze da un folto gruppo di associazioni e realtà del pacifismo italiano (Rete della Pace, Rete italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci! e Tavolo Interventi Civili di Pace!).

Ma più importanti ancora sono i passi che il movimento ha in cantiere per il prossimo futuro illustrati in un documento steso dalle realtà promotrici che si configura come una piattaforma comune su molte questioni che interrogano il nostro presente: da quelle più calde – Iraq, Siria, Palestina, Ucraina – a quelle che, nel sistema informativo che tutto fagocita e tutto dimentica, non fanno neppure più notizia, come l’occupazione militare da parte del Marocco dell’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale.

Disarmo, nonviolenza e smilitarizzazione

Le realtà promotrici partono dall’Italia rilanciando la Campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta presentata il 25 aprile scorso all’Arena di pace e disarmo di Verona, il cui obiettivo è – attraverso una proposta di legge di iniziativa popolare la cui raccolta firme partirà il 2 ottobre prossimo – la creazione di un Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta, finanziato attraverso l’introduzione dell’“opzione fiscale”, vale a dire la possibilità per i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, di destinare a questo scopo una quota pari al sei per mille dell’imposta sul reddito. Si darebbe così concretezza, secondo i promotori, «a ciò che prefiguravano i Costituenti con il ripudio della guerra» anziché «finanziare cacciabombardieri portaerei e missioni di guerra, che lasciano il Paese indifeso dalle vere minacce che lo colpiscono e lo rendono invece minaccioso agli occhi del mondo».

Nell’ottica della costruzione di alternative all’uso della forza durante le crisi internazionali, le realtà promotrici sostengono «l’urgenza di organizzare Interventi Civili di Pace in zone di confitto, tramite Corpi di volontari e operatori professionali», avviandone la sperimentazione attraverso il Servizio civile italiano.

Impossibile prescindere in questo contesto dal ruolo giocato dalle spese militari nella crescita delle guerre e dei conflitti. Per questo le realtà promotrici chiedono, tra le altre cose, di rivedere l’acquisto di armi da parte del nostro Paese, in particolare per quanto riguarda i caccia F35.

Così come non si può prescindere dalla questione della militarizzazione del territorio, «tema globale e intrinseco ai nuovi modelli di difesa, di logiche di guerra e controllo del Pianeta che, dalle avventure coloniali in poi, caratterizzano le politiche degli Stati moderni». Le associazioni vi dedicano un intero capitolo del documento con un’attenzione speciale al caso della Sardegna, dove 24mila ettari di territorio sono sottratti all’economia civile e destinati a scopi militari (come, per esempio, le esercitazioni dei caccia israeliani), chiedendo il cessate il fuoco immediato in tutti i poligoni; lo smantellamento delle basi militari dell’isola; l’avvio di una inchiesta approfondita sulle conseguenze degli insediamenti sulla salute pubblica.

Migranti: vittime dei conflitti e dell’UE

Ma le crisi che interessano o hanno interessato in questi anni tanti Paesi del mondo – ad alcuni dei quali il documento dedica specifiche riflessioni sottolineando le responsabilità dell’Occidente – non esauriscono la loro carica letale nelle zone di conflitto: anche le migliaia di persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo ne sono una conseguenza. «Le guerre e le numerose crisi internazionali in corso – denunciano le associazioni – causano migliaia di vittime civili nei Paesi di origine, ma costringono anche milioni di persone a fuggire dal rischio di torture, persecuzioni e di perdere la propria vita». Le politiche del rifiuto che hanno caratterizzato l’Unione Europea, proseguono le realtà promotrici, «hanno assunto sino ad oggi come priorità il controllo delle frontiere e il contrasto delle migrazioni “illegali” causando la morte di migliaia di persone. Ma anni di chiusura delle frontiere, di controllo dei mari, di respingimenti illegittimi, di detenzioni arbitrarie, di violazioni dei diritti umani non hanno fermato gli arrivi dei migranti e delle persone che cercano protezione internazionale in Europa».

Le associazioni chiedono quindi al governo italiano e all’UE di garantire il diritto di arrivare e di chiedere asilo; di applicare la Direttiva Europea sulla Protezione temporanea (2001/55/CE); di sospendere gli accordi esistenti con i Paesi terzi che non offrono adeguate ed effettive garanzie del rispetto dei diritti umani; di uniformare gli standard di accoglienza di profughi e richiedenti asilo in tutti i Paesi europei e di giungere ad una programmazione comune e coordinata dell’accoglienza che consenta di ripartirne le responsabilità tra tutti i Paesi membri; di ratificare la Convenzione sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie; di chiudere i centri di detenzione e di garantire i diritti di cittadinanza facilitando l’acquisizione della nazionalità del Paese di residenza ai cittadini di Paesi terzi stabilmente presenti in Italia e in Europa.

È su questa agenda che ci si ritroverà insieme nei prossimi mesi, ciascuno con la propria specificità. Ciascuno facendo il proprio “passo di pace”.