Bolivia, il trionfo di Evo Morales

Fabrizio Casari
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Il messaggio delle urne boliviane è chiarissimo: il primo presidente indio della Bolivia sarà anche il prossimo. Con oltre il 60% dei voti, infatti, affermandosi in otto dei nove dipartimenti in cui è suddiviso il Paese, Evo Morales ha stravinto le elezioni di domenica scorsa in Bolivia e sarà ancora Presidente per altri 4 anni. L’ex leader del MAS (Movimiento al Socialismo), figura nobilissima della sinistra latinoamericana, ha conquistato per la terza volta la presidenza del suo paese, surclassando l’opposizione di destra sponsorizzata da Washington.

Il risultato era atteso. Non tanto per la debolezza della destra, quanto per i risultati di otto anni di presidenza della sinistra. Evo ha raccolto i frutti di quanto seminato in un paese che, nonostante la contrazione economica dell’area, risulta in pieno ciclo espansivo da diversi anni.

Ciò grazie agli otto anni della sua presidenza, caratterizzatasi per le politiche socialiste nella riorganizzazione dell’economia, fatte anche di nazionalizzazione degli impianti e di restituzione agli interessi nazionali degli accordi con le compagnie straniere. Con una economia in crescita del 6%, la Bolivia non poteva che assegnare con il voto il riconoscimento alla qualità dell’impianto socio-economico del modello.

I risultati della sua politica economica si sono visti: il ricavato dei suoi giacimenti di gas, delle sue piantagioni di soia e della raccolta della pasta di coca destinata al mercato legale, hanno prodotto un pareggio di bilancio mai registrato nella storia del paese andino. Un tempo destinate a prendere il volo verso gli USA, le risorse ottenute dall’industria dello sfruttamento degli idrocarburi sono state la fonte di finanziamento delle opere sociali che hanno enormemente ridotto la distanza tra i diversi settori sociali della società boliviana.

Aiuti diretti e indiretti agli anziani, alle donne in gravidanza e a tutti i bambini, ampliamento dei servizi e riconoscimento del dovere d’intervento dello Stato nelle problematiche più acute sono state il modus operandi del governare di Evo Morales.

Il successo economico del socialismo boliviano è stato possibile anche grazie ad un generale smantellamento del sistema costituzionale precedente, cucito su misura per gli interessi del latifondo locale le multinazionali estrattive statunitensi e che aveva regalato alla Bolivia 190 anni di storia coloniale.

In questo senso tra i successi maggiori e migliori ottenuti da Evo nei precedenti mandati c’è certamente quello della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta ed approvata nel Gennaio del 2009, che – come dichiarò alla sua approvazione -“rappresenta la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”.

E non è certo indifferente, per la riorganizzazione del tessuto produttivo del Paese, ciò che la Carta impone con l’articolo 398: il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce altresì che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.

La nuova Costituzione disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.

E proprio sotto il profilo dell’articolazione dello Stato (elemento non certo secondario nella riforma di un Paese) l’innovazione è stata straordinaria e di assoluto valore storico: la nuova Carta, infatti, prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indigene e municipali che già esistono.

Insomma, la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente è stata un’opera di alta ingegneria politica e una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aumentato notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica. In questi ed altri passaggi si evidenzia il senso politico che ha caratterizzato i suoi mandati presidenziali di Evo Morales: la costruzione del retroterra politico ed istituzionale di un paese plurale sancito costituzionalmente.

Ieri, parlando dal balcone del Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, Evo ha dedicato la sua vittoria a “tutti i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo” e, in particolare, a Fidel Castro e Hugo Chavez, suoi punti di riferimento umani, oltre che politici.

Fidel Castro, che 54 anni orsono ruppe la catena di comando statunitense sul continente, trasformando Cuba nel primo territorio libero delle Americhe ed edificando un sistema che per equità e sovranità nazionale, é esempio vivente per tutta la sinistra del continente e non solo, di Evo è stato in qualche modo “padre putativo”, consigliere e riferimento costante nel suo agire politico.

Hugo Chavez, che seguendo il cammino tracciato da Simon Bolivar restituì il Venezuela ai venezuelani e che diede vita al “Socialismo del terzo millennio”, è stato l’alleato più immediato e leale per il giovane presidente boliviano, che pure nel suo incedere vittorioso ha dovuto affrontare (come Chavez) un tentativo di colpo di stato e serrate da parte dei suoi avversari che cercavano d’isolare la Bolivia e riportarla nelle solite mani a stelle e strisce.

D’altra parte la lunghissima marcia dall’opposizione al governo non faceva presagire un mandato tenue, incerto sul da farsi o a tinte fosche. L’integrità morale e la fede politica di Evo non erano adatte a un governo qualunque. E così non è stato.

Evo non ha adeguato i suoi ideali al mercato ma ha ricondotto il mercato alle esigenze del suo paese; non ha mai smesso i panni di leader della sinistra latinoamericana né ha avuto esitazioni nello scontrarsi con gli interessi e l’arroganza degli Stati Uniti. Dalla Cuba di Castro al Venezuela di Maduro, dal Nicaragua di Ortega all’Ecuador di Correa, dall’Argentina di Cristina Kirchner al Brasile di Djilma, Morales ha continuato a tessere la tela ormai robusta dell’unità latinoamericana.

Una consapevolezza continentale che ha nella sua unità la leva principale delle sue politiche commerciali e che ha seppellito da un decennio ormai, il Washington consensus, cioè quel sistema di dipendenza dagli Stati Uniti che, con rare e circoscritte eccezioni, caratterizzava le scelte e i destini dell’America Latina fino alla fine degli anni ’90.

La vittoria di Evo Morales è la vittoria di chi non svende per una poltrona i suoi ideali. Di chi non s’inginocchia, abbagliato dalla fama e dalle ricchezze e obnubilato dall’ambizione personale, di fronte al volere delle multinazionali ed al pensiero unico che ne costituisce l’humus ideologico.

Dimostra che si può pensare e realizzare una diversa politica economica e trarre i frutti per una diversa politica sociale. Che il mercato è un animale onnivoro che va controllato e regolamentato e che la ricchezza è solo arrogante privilegio se non viene distribuita equamente.

E dimostra anche che la sovranità nazionale, motore indiscutibile delle politiche economiche e sociali, si nutre dell’identità nazionale e del senso dell’indipendenza. La ricetta della vittoria della sinistra latinoamericana è soprattutto questa. Indipendenza, sovranità, integrazione, solidarietà: una manna indigesta per lo stomaco dello Zio Sam.

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Morales, le ragioni di un trionfo

Marina Zenobio

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La schiacciante vittoria di Evo Morales alle elezioni presidenziali di domenica in Bolivia ha un suo perché: ha vinto perché il suo governo è stato, senza ombra di dubbio, il migliore nella convulsa storia della Bolivia. “Migliore” significa che ha mantenuto la grande promessa di ogni democrazia, sbandierata da tanti e il più delle volte incompiuta, cioè garantire il benessere materiale e spirituale di una intera popolazione eterogenea, una massa di persone che per secoli è stata oppressa, sfruttata e umiliata. Per i boliviani Evo rappresenta uno spartiacque, c’è una Bolivia prima del suo governo ed un’altra, diversa e migliore, che è cominciata a crescere con il suo arrivo a Palacio Quemado. In questa nuova Bolivia ha preso vita lo Stato Plurinazionale che riconosce i diritti delle tante etnie indigene presenti sul territorio, sotterrando definitivamente l’altra Bolivia, quella coloniale, razzista, elitaria.

Senza dubbio i primi due governi di Morales hanno sviluppato una nuova politica economica che ha dato risultati straordinari per la vita del paese, ma c’è anche da aggiungere che la sua altrettanto straordinaria leadership trova ragione nel fatto che Evo ha scatenato una reale rivoluzione politica e sociale, il cui segno più evidente è l’instaurazione, per la prima volta nella storia boliviana, di un governo dei movimenti sociali.

Il MAS, Movimiento Al Socialismo di cui Evo è il primo dirigente, non è un partito politico in senso stretto ma una grande coalizione di organizzazioni popolari che, nel corso di questi ultimi anni, si è sempre più estesa, arrivando ad incorporare anche settori della “classe media” che in passato erano stati ardenti oppositori del leader cocalero.

Ovviamente nessun processo rivoluzionario è privo di contraddizioni (perché la rivoluzione è sempre un processo, mai un singolo atto), e vale anche per la Bolivia. Ma ciò che distingue la gestione di Morales è il fatto che, queste contraddizioni, le sta risolvendo via via nella forma più corretta, rafforzando il blocco popolare e riaffermando il suo predominio in ambito statale. Stiamo parlando di un presidente che quando capisce di aver sbagliato – come per esempio durante il gasolinazo(*) del 2010 – ammette il suo errore, ascolta la voce delle organizzazioni popolari e torna sui suoi passi.

Tale infrequente sensibilità ad ascoltare la voce del popolo e agire di conseguenza spiega lo straordinario consenso popolare conseguito da Evo, che invece Lula e soprattutto Dilma Rousseff non sono riusciti a conquistare in Brasile. Morales ha permesso la trasformazione di una maggioranza elettorale in egemonia politica, cioè in grado di forgiare un nuovo blocco storico e costruire alleanze sempre più ampie, ma sempre sotto la direzione del popolo organizzato in movimenti sociali.

E’ chiaro che tutto questo non può essere solo frutto dell’abilità politica di Evo Morales o del fascino di una storia che esalta l’epopea dei popoli indigeni. Senza un adeguato ancoraggio alla vita materiale tutto sarebbe svanito senza lasciare traccia. Ma quel tutto è stato combinato con significativi risultati economici che hanno fornito le condizioni necessarie per la costruzione di quell’egemonia politica che, domenica scorsa, ha permesso a Evo di restare presidente della Bolivia con una vittoria schiacciante.

Il Pil boliviano è passato dai 9525 milioni di dollari del 2005 ai 30.308 nel 2013, e il Pil procapite è saltato da 1010 a 2757 dollari nel corso di quegli stessi anni. La chiave di questa crescita, e pure di questa distribuzione senza precedenti nella storia del paese, si trova nella nazionalizzazione degli risorse naturali, come gli idrocarburi.

La Bolivia è il secondo paese latinoamericano, dopo il Venezuela, per riserve di gas, e produce 40.000 barili di petrolio al giorno. Se nel passato l’ 82% delle rendite provenienti dello sfruttamento di gas e petrolio restava nelle mani delle multinazionali e allo Stato solo il restante 18%, con Morales questa proporzione si è invertita. E dal maggio del 2006, da quando i giacimenti sono passati di proprietà, per decreto governativo, alla compagnia statale YPFB (Giacimenti petroliferi fiscali boliviani), la parte del leone la fa il fisco boliviano.

Non sorprende quindi che un paese con deficit cronici nei resoconti fiscali abbia terminato l’anno 2013 con 14.430 milioni di dollari in riserve internazionali (contro i 1714 milioni di cui disponeva nel 2005).

Per calibrare il significato di queste cifre possiamo dire che le stesse equivalgono al 47% del Pil, di gran lunga la percentuale più alta di tutta l’America Latina. In linea con questi dati, la povertà estrema è scesa dal 39% del 2005 al 18% nel 2013, con l’obiettivo di sconfiggerla definitivamente entro il 2025.

Con il risultato di domenica Evo Morale continuerà ad abitare il Palacio Quemado fino al 2020, momento in cui il suo progetto di rifondazione della Bolivia dovrebbe aver passato il punto di non ritorno. A meno che non si verifichino “interventi esterni”.

*Con “gasolinazo” si intendono le proteste scatenate a dicembre del 2010 dopo che Morales aveva dichiarato un aumento dell’80% dei prezzi dei combustibili. Centinaia di migliaia di boliviani provenienti da El Alto, Cochabamba ed altre zone del paese raggiunsero La Paz protestando energicamente contro una decisione impopolare, che avrebbe provocato di conseguenza i rincari di tutti i generi di prima necessità. Evo Morale prese atto della protesta, ritirò la misura e si scusò con il suo popolo.