Credere e non credere. Per un’etica del finito di A.Esposito

Alessandro Esposito
www.micromega.net

In data 3 ottobre, sulla pagina dei blog di questa stessa Rivista, è stato pubblicato un interessante articolo a firma di Raffaele Carcano, segretario dell’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti): rimando alla lettura del medesimo per evitare di restituire i contenuti del testo in maniera inappropriata o riduttiva.

Intendo concentrarmi in questa breve riflessione su un solo aspetto dei molti toccati nell’articolo menzionato, anche perché si tratta dell’unica tematica circa la quale ritenga di potermi esprimere in qualità di «addetto ai lavori» (il che, detto en passant, non significa in alcun modo esperto in materia, bensì eterno ed appassionato studente): la religione.

In prima istanza è bene che con il mio stimato interlocutore sussista un accordo di massima circa le accezioni conferite ad un medesimo termine, per poter poi disquisire (ed eventualmente dissentire) nel merito. Ho motivo di ritenere che il gentile Raffaele Carcano possa convenire con me circa il fatto che l’elemento religioso, nella sua costituzione e complessità, sia annoverabile tra i fenomeni culturali e, pertanto, debba essere analizzato e criticato a partire dagli strumenti fornitici, in particolare, dalle scienze umane, prime fra tutte la storia, la psicologia e la sociologia.

Considerata alla stregua di ogni altro prodotto culturale, la religione può essere declinata nelle sue forme plurime ed analizzata in rapporto ai contesti che l’hanno generata, modificata e, purtroppo, codificata: in tal modo soltanto è possibile discuterne criticamente i presupposti e respingerne recisamente le derive fanatiche, come assai opportunamente fa il mio interlocutore.

Gli innegabili intrecci che sussistono tra la violenza e il sacro sono stati scandagliati in profondità dall’antropologo René Girard[1] e rappresentano un nodo problematico ineludibile. Ma in questo mio invito alla riflessione comune ed al confronto, vorrei provare a procedere oltre questa pur convincente proposta ermeneutica.

L’ostacolo più serio al dialogo e, pertanto, alla pace quale suo auspicabile frutto, non è rappresentato dalle religioni in quanto tali, bensì dalle loro (infondate) pretese assolutistiche: lo aveva già intuito Ernst Troeltsch, che alla tematica in oggetto dedicò, più di un secolo fa, uno studio di eccezionale profondità recentemente ripubblicato ma ancora inascoltato ed accolto con una certa reticenza, specie negli ambienti accademici anti-liberali.[2]

La religione diviene ostacolo al dialogo e generatrice di violenza quando si condensa in un rigido sistema di dottrine cui gli adepti sono chiamati ad obbedire acriticamente. Diviene, al contrario, luogo (tra gli altri) di una possibile e progressiva umanizzazione nella misura in cui essa viene considerata come via, come percorso creativo e costantemente aperto alla ridefinizione attraverso il confronto con approcci distinti ed egualmente provvisori.

Un autore, suppongo, caro ad entrambi, Immanuel Kant, nella Dialettica Trascendentale (la seconda parte della sua Critica della Ragion Pura), afferma che circa le idee trascendentali la nostra ragione non può che procedere asintoticamente, ovverosia, sfiorando la (presunta) realtà cui esse si riferiscono, senza mai poterla raggiungere e, tantomeno, definire.

In questo orizzonte di provvisorietà, che mai, come esseri umani, ci è dato di poter varcare se non nella tracotanza pseudo raziocinante della metafisica dogmatica, ci muoviamo ineluttabilmente, assai al di là di riduttive e paralizzanti contrapposizioni tra credenti e non credenti. Tutto quanto ci è dato è di incontrarci nel più ristretto e reale orizzonte del penultimo[3], là dove è possibile costruire insieme, ridefinendola in itinere, un’etica del finito fondata sulla dignità e sul diritto. Etsi deus non daretur.

——————–
NOTE

[1] La violence et le sacré (1972), trad. it. La violenza e il sacro, a cura di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Adelphi, Milano 1980.
[2] Ernst Troeltsch, Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (1902/1912), trad. it. L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, Queriniana, Brescia, 2006.
[3] Prendo a prestito, in proposito, la felice espressione utilizzata dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer nel suo Etica, Queriniana, Brescia, 1995.