Il doppio gioco di Erdogan

Michele Paris
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I bombardamenti della coalizione assemblata senza molto senso dall’amministrazione Obama per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS) si stanno concentrando in questi giorni nel territorio siriano al confine con la Turchia per cercare di impedire ai fondamentalisti sunniti di conquistare la città curda di Kobane.

L’assedio ha già provocato la fuga di quasi 200 mila civili verso la Turchia, scatenando le proteste dei curdi non solo in questo paese – dove sono stati affrontati duramente dalla polizia – ma anche in varie città europee per chiedere ai governi occidentali un maggiore impegno contro la minaccia jihadista che incombe sugli appartenenti alla loro etnia in Siria.

Al di là dell’ironia delle richieste di aiuto a governi che hanno contribuito in maniera diretta alla nascita dell’ISIS, un intervento ancora più deciso dell’Occidente o dei paesi arabi in Siria non farebbe che peggiorare una situazione già catastrofica. Inoltre, le centinaia di incursioni aeree già portate a termine in Siria e in Iraq non hanno per ora ostacolato in maniera significativa l’avanzata dei guerriglieri estremisti.

Questa realtà è comunque servita a giustificare il coinvolgimento di altri paesi nella guerra lanciata dagli Stati Uniti. La Turchia, in particolare, dopo il voto del parlamento a favore di un intervento militare contro l’ISIS, ha dispiegato le proprie forze armate al confine con la Siria. Allo stesso tempo, Ankara sta impedendo ai membri della minoranza curda in Turchia di raggiungere il campo di battaglia in Siria per unirsi alla resistenza dei curdi che vivono oltre il confine meridionale.

Nonostante il presidente Erdogan e il primo ministro Davutoglu si siano recentemente convertiti alla necessità di combattere l’ISIS dopo averlo favorito in tutti i modi come arma contro Damasco, è difficile non osservare una nuova convergenza di obiettivi tra Ankara e la stessa organizzazione fondamentalista nel territorio siriano a maggioranza curda.

La Turchia, cioè, pur avendo ceduto alle pressioni USA per combattere l’ISIS in cambio della rimozione del regime di Assad, non intende in nessun modo aiutare intenzionalmente le milizie curde siriane (Unità di Protezione Popolare, YPG), dal momento che esse hanno legami molto stretti con il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) in territorio turco. Un intervento esterno contro l’ISIS potrebbe finire infatti per alimentare le tendenze indipendentiste curde da entrambi i lati del confine turco-siriano, aprendo un nuovo pericoloso fronte per il governo di Ankara, già sopraffatto dalle conseguenze disastrose della sua politica estera a dir poco contraddittoria.

A confermare i reali scopi turchi nel conflitto in Siria è stato qualche giorno fa il premier Davutoglu che ha chiarito nel corso di un’intervista alla CNN come Ankara sia pronta ad assistere gli Stati Uniti, purché ci sia “una chiara strategia”, grazie alla quale, “dopo l’ISIS, i nostri confini siano protetti”.

In altre parole, l’obiettivo finale del governo islamista di Erdogan e Davutoglu è appunto la destituzione con la forza di Assad. A tale fine, quest’ultimo viene dipinto dall’ex ministro degli Esteri turco come una minaccia per la Turchia, anche se appare evidente come sia la stessa condotta irresponsabile di Ankara a favore dell’opposizione armata siriana – incluso l’ISIS – ad essersi trasformata in un boomerang, creando una gravissima situazione di minaccia alla sicurezza nazionale del paese euro-asiatico.

Lo stesso Erdogan nella giornata di martedì ha poi lanciato l’allarme per l’imminente caduta della città di Kobane nelle mani dell’ISIS, tornando a chiedere, per fermare questi ultimi, una no-fly zone sulla Siria settentrionale, con una logica difficile da comprendere se non in funzione di una guerra aperta contro Assad.

Identica richiesta era già stata avanzata settimana scorsa dallo stesso ex premier turco e non era stata esclusa dal numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, e dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey.

Che la Turchia e le monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico siano le vere responsabili della destabilizzazione del Medio Oriente lo ha sostenuto apertamente anche il governo americano. L’ormai nota “gaffe” del vice-presidente Biden di giovedì scorso durante un intervento all’università di Harvard non è stata altro che l’ammissione involontaria, da parte di un politico notoriamente “sprovveduto” per gli standard di cinismo che caratterizzano la politica di Washington, del fatto che l’ISIS è innegabilmente una creazione degli alleati americani nella lotta contro Assad.

Biden, se mai, è stato fin troppo reticente, visto che ha taciuto le responsabilità del suo governo, protagonista principalmente attraverso la CIA quanto meno della supervisione delle attività di reclutamento, addestramento e finanziamento delle formazioni islamiste impegnate contro il regime siriano.

Il possibile intervento delle forze armate turche, in ogni caso, si accompagna alla continua escalation bellica statunitense in Iraq e in Siria dietro le spalle degli americani, con buona pace di quanti avevano creduto alle promesse di Obama circa un conflitto di portata limitata.

I vertici militari USA hanno ad esempio annunciato l’impiego per la prima volta di elicotteri da guerra Apache contro l’ISIS in Iraq, in pratica smentendo la pretesa della Casa Bianca di non avere intenzione di utilizzare truppe di terra. Questi velivoli, infatti, oltre a garantire una maggiore efficacia, espongono i piloti a notevoli rischi di abbattimento, annullando così quasi del tutto le differenze tra una guerra aerea e una condotta con forze di terra.

Inoltre, possibili eventuali abbattimenti di elicotteri USA o la cattura di soldati americani da parte dell’ISIS fornirebbero un’altra occasione per intensificare l’impegno di Washington nel conflitto in corso e avvicinare sempre più il momento della resa dei conti con il regime di Damasco.

Un impegno, quello che vede come al solito gli USA in prima linea, che potrebbe anche riguardare la NATO, come ha confermato il neo-segretario dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, rievocando sinistramente la guerra scatenata nel 2011 per “liberare” la Libia dal regime di Gheddafi.

L’ex primo ministro norvegese, nell’ennesimo paradosso della guerra all’ISIS, ha annunciato che le forze NATO sarebbero pronte a intervenire a “difesa” di Ankara nel caso le violenze in Siria dovessero sconfinare in Turchia, facendo appunto scattare l’obbligo di soccorrere un qualsiasi paese membro se attaccato.

I responsabili della devastazione dell’Iraq e della Siria, in definitiva, sembrano essersi trasformati ora in vittime di un regime, come quello di Assad, che non ha però mai minacciato in nessun modo i propri vicini. Anzi, è proprio Damasco la vittima da oltre tre anni delle manove di questi ultimi e dei governi occidentali, disperatamente alla ricerca di una vittoria strategica cruciale in Siria, tanto da appogiare il fondamentalismo sunnita per poi combatterlo – o dare l’impressione di volerlo combattere – una volta sfuggito di mano.