Il Brasile di Dilma

Fabrizio Casari
www.atrenotizie.org

Smentendo cassandre ed improvvisati analisti, Dilma Roussef è ancora Presidente del Brasile. La sua vittoria è di grande significato, decisamente più ampio del margine numerico con la quale è stata ottenuta al ballottaggio. E va comunque detto che anche sotto l’aspetto numerico la vittoria della Roussef non è stata affatto trascurabile, dal momento che il convergere dei voti della ex di tutto Marina Silva su Neves aveva ovviamente portato il candidato del latifondo e dell’imprenditoria brasiliana in una posizione di vantaggio teorico più che evidente. E invece la Presidente uscente ha vinto con più di tre milioni di voti di scarto.

E’ vero che il margine con il quale Dilma s’è imposta è minore rispetto agli ultimi anni, ma se si considera una naturale flessione del PT dopo 12 anni di governo e che Lula non può comunque essere un paragone per nessuno, data la sua strabordante popolarità, si capisce come la partita fosse più complicata del passato.

Del resto, le proteste che avevano scosso il paese prima e durante i Mondiali di calcio, il malessere ormai diffuso contro la corruzione e una riduzione dell’impatto riformatrice, insieme ad una campagna mediatica sapientemente orchestrata da Washington, avevano messo fortemente in discussione il governo della Presidente. Molti commenatori, da mesi, si esercitavano nel vaticinare la sicura sconfitta di Dilma, dapprima ad opera della voltagabbana di professione Silva, poi dall’ex governatore di Minais Gerais noto per i livelli di corruzione ed incapacità tra i più alti del Paese.

E invece la Presidenta ce l’ha fatta e il PT è riuscito ad imporre di nuovo un progetto Brasile che prevede sovranità nazionale, indipendenza e relazione privilegiata con il Sud del continente. Il proseguimento del cammino di Dilma significa infatti lo stop ai programmi della destra, che prevedevano per l’estero l’abbandono del blocco democratico latinoamericano e il ritorno sotto l’ala protettrice di Washington; per l’interno, di conseguenza, l’applicazione delle ricette del Fondo Monetario Internazionale. Le chiamano operazioni di “aggiustamento strutturale”, ma si legge devastazione sociale e progressivo trasferimento di sovranità dallo Stato al sistema bancario internazionale. Pericolo scampato.

Il Brasile può riprendere la corsa che aveva dimostrato come fosse capace di aggredire la povertà più di chiunque altro. La riduzione enorme della miseria, i milioni di posti di lavoro, l’ampliamento degli investimenti in istruzione e salute, l’inclusione di decine di milioni di brasiliani, hanno ridotto sensibilmente – pur se tanta è ancora la strada da fare – la forbice sociale che faceva del Brasile il paese simbolo delle diseguaglianze.

E, seppure in una fase di compressione della spinta espansiva del ciclo economico, dovrà comunque mettere mano alle riforme che gli consentiranno di approfondire il percorso di redistribuzione della ricchezza del Paese, trasformando così in riforme strutturali quelle che, fino ad ora, sono state politiche coraggiose ed includenti ma che, pur necessarie, non sono ancora sufficienti a colmare il gap socioeconomico interno.

E oltre ad estendere ed incrementare le riforme economiche e il rafforzamento del welfare attuato nei tre mandati precedenti del PT, Dilma proverà a cercare il dialogo con i ceti medi che chiedono significativi passi avanti in termini di maggiore benessere.

Tenere insieme le istanze del Movimento Senza Terra e della piccola e media borghesia brasiliana può sembrare un obiettivo impossibile sulla carta, ma la coesione sociale determinata dalle politiche espansive e di sostegno al welfare sono benzina nel motore della trasformazione del Brasile; trasformazione della quale, a cascata, tutti i segmenti non parassitari della società trarranno beneficio.

Un grande peso avranno però le riforme politiche, cioè l’altra grande sfida da vincere per Dilma che ha affermato di voler riformare l’immunità parlamentare, da lei definita “la protettrice della corruzione”.

Dilma governerà con una opposizione più forte che in passato. Una opposizione che tiene insieme il latifondo, la finanza e buona parte (non tutta) dell’imprenditoria, spalleggiate dalle associazioni degli ex militari spaventati da quanto la Presidente ha promesso in ordine alla riscoperta della memoria storica del paese.

Così come già realizzato in Argentina e, in parte minore in Uruguay, anche il Brasile potrà riscrivere gli anni della dittatura militare e degli abusi continui perpetrati in nome della “lotta al comunismo” e la riapertura dei casi di omicidi, violenze e torture sui prigionieri politici agitano i sogni degli ex gorilla della dittatura.

Sul piano internazionale la vittoria non è meno importante e i riflessi sull’intero continente sono decisivi, soprattutto perché la vittoria di Dijlma impedirà la virata a 360 gradi che Naves aveva annunciato, consistente nel ritorno del Brasile nella sfera d’influenza degli Stati Uniti con il conseguente abbandono delle politiche d’integrazione regionale e alleanza politica con il blocco democratico latinoamericano.

La vittoria del PT fa esultare Caracas e Buenos Aires, tranquillizza La Habana e Managua, conforta La Paz e Quito e rasserena Montevideo, in attesa del ballottaggio tra Tabarè Vasquez e Luis Lacalle Pou (che dovrebbe comunque vedere vincente Tabarè e il Frente Amplio); cioè tutti quei paesi che sulla nuova dimensione democratica ed integrazionista latinoamericana hanno scommesso per la loro politica interna ed internazionale.

Per le dimensioni economiche e militari e per il peso politico e diplomatico che gli appartengono, un eventuale marcia indietro del Brasile avrebbe comportato un problema enorme alle democrazie latinoamericane. Sul piano internazionale più ampio, il ruolo di Brasilia nei BRICS, come nei NOAL è strategico; insieme al Sudafrica rappresenta l’interlocutore politico più considerato sia a Washington che a Bruxelles, a Tokio come a Pechino.

Le aperture a Mosca e Teheran sul piano dei rapporti commerciali bilaterali che hanno compreso persino la sfera delle dotazioni militari e degli investimenti per lo sviluppo, esprimono sufficientemente l’autorevolezza di un paese che, grande come un continente, è destinato ad avere un ruolo ogni giorno maggiore. E con lui, l’intera America Latina.

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E lo sonfitto in Brasile e’ – il neoliberalismo

Pepe Escobar
www.atimes.com

Sole, sesso, samba, carnevale e almeno fino alla mazzata della Coppa del Mondo da parte della Germania “la terra del calcio”. Non dimentichiamo la “vibrante democrazia”. Anche se beneficia di uno dei più alti quozienti di soft power al mondo, il Brasile resta sommerso dai cliché.

“Vibrante democrazia” che è stata alle aspettative, dato che la Presidente Dilma Rousseff del Partito dei Lavoratori (PT) è stata rieletta la scorsa domenica dopo un testa a testa con il candidato dell’opposizione Aecio Neves del Partito Socialdemocratico Brasiliano (PSDB).

Un altro cliché direbbe che questa è una vittoria delle politiche “stato-centriche” contro le “riforme strutturali”. O la vittoria della “grande spesa sociale” contro un approccio “a favore del business” – che implica il business essere nemico principe dell’uguaglianza sociale.

Usciamo dai cliché. Addentriamoci in un caro motto nazionale: “il Brasile non è per i principianti”.

Assolutamente. La complessità del Brasile manda al manicomio. Comincia probabilmente con il messaggio chiave e proveniente da ogni strato sociale che un paese diviso ha mandato alla rieletta Dilma Rousseff. Siamo parte di una classe media crescente. Siamo fieri di far parte di una nazione in cui la disuguaglianza è sempre minore. Ma vogliamo che i servizi continuino a migliorare. Vogliamo più investimenti nell’educazione. Vogliamo che l’inflazione sia sotto controllo (al momento non lo è). Supportiamo una pesante svolta anti-corruzione (qui è il punto d’incontro tra il Brasile della Rousseff e la Cina di Xi Jinping). Vogliamo portare avanti il crescente successo economico dell’ultimo decennio.

La Rousseff sembra recepire il messaggio. La domanda è come sarà in grado di portarlo a compimento – in una nazione delle dimensioni di un continente, sfiancata da orribili standard educativi, con il settore manifatturiero in gran parte non competitivo rispetto ai mercati globali e con una corruzione folle.

Elite ignoranti ed arroganti

Il Brasile oggi è impantanato in una scarsa crescita del PIL (0,3%). Limitarsi a prendersela con la crisi globale non basta, i vicini sudamericani Peru (3.6%) e Colombia (4.8%) hanno sfondato nel 2014.

In effetti i numeri non sono così penosi. L’impiego cresce. La disoccupazione cala (solo il 5.4%). Gli investimenti in infrastrutture sociali continuano. Dal 2002 al 2014 il salario minimo è più che triplicato. Il PIL pro capite cresce, raggiungendo quasi i 9.000$ mentre il coefficiente gini di disuguaglianza sociale (dati del 2012) scende.

La produzione industriale è tornata ai livelli di prima della crisi finanziaria del 2008. Il Brasile ha ripagato tutti i debiti al FMI. Il rapporto deficit/PIL scende velocemente – ha raggiunto il 33.8% nel 2013. I lavoratori hanno più potere d’acquisto – anche con un’inflazione crescente, che rispecchia una miglior distribuzione degli introiti.

14 milioni di famiglie hanno beneficiato dei programmi sociali – circa 50 milioni di Brasiliani. Queste politiche potrebbero essere accusate di essere troppo limitate, troppo post Keynesiane, ma almeno è un inizio – in una nazione sfruttata per secoli da elite immensamente ignoranti, arroganti e rapaci.

Nel suo primo mandato come Presidente la Rousseff potrebbe anche essere accusata di aver fatto troppe concessioni alle grandi banche (molto redditizie in Brasile), agli interessi del business agricolo e al Grande Capitale. Ciò che è accaduto, per semplicità, è che il Partito dei Lavoratori di centro-sinistra si è spostato al centro – ed è stato costretto a stringere alleanze sgradevoli con gli oligarchi. Il risultato è che una parte significativa della base sociale – la classe lavoratrice metropolitana, altamente indebitatasi nell’inseguire il sogno consumista – è finita con il flirtare con la destra come alternativa politica.

Aggiungiamo che il PT non ha capacità di controllo esattamente brillanti. Vero, la lotta alla povertà è un ideale nobile, ma in una nazione con tali disuguaglianze, servirebbe tempo almeno fino al 2030 per avere dei risultati sensibili. Nel frattempo, si sta pianificando seriamente – come ad esempio costruire una ferrovia superveloce tra le due megalopoli Rio e Sao Paulo (I Cinesi la costruirebbero in qualche mese) e mettendo seriamente i bastoni tra le ruote agli oligopoli Brasiliani: banche, corporate media, conglomerate del ramo edile e la lobby dell’industria dell’automobile.

Il perdente è: il neoliberalismo

A differenza di USA e Europa, il neoliberalismo in Brasile è stato ripetutamente sconfitto ai ballottaggi dal 2002, quando Lula fu eletto per la prima volta Presidente. Per quanto riguarda l’opposizione “socialdemocratica”, non c’è nulla di sociale, tantomeno di democratico. Il progetto del PSDB è il turbo-neoliberalismo, puro e semplice.
La squadra di Neves aveva tutto dalla propria parte. Il loro zoccolo duro era infatti costituito da 60 milioni di contribuenti brasiliani principalmente arrabbiati – più dell’80% risiedono e lavorano nelle zone costiere più ricche del sudest. La vita è dura se sei un professionista stipendiato brasiliano o il proprietario di una piccola-media impresa. Il peso fiscale è pari a quello del mondo industrializzato, ma non ottieni quasi niente in cambio.

Non c’è da stupirsi che questi contribuenti arrabbiati esigano strade ben asfaltate, sicurezza urbana, migliori ospedali pubblici, un sistema scolastico pubblico dove poter mandare i loro figli e meno burocrazia – che bisogna aggiungere al nefasto, universalmente conosciuto “Costo brasiliano” (ovvero il non dar valore al denaro). Questi non sono elettori del Partito dei Lavoratori – anche se parte di essi in passato lo era. Ciò che vogliono è galassie oltre le normali tribolazioni della nuova, grande, classe medio-bassa creata dai programmi sociali iniziati da Lula.

Però con un candidato mediocre come Neves – ha perso addirittura nel suo stato natale, di cui era governatore – il neoliberalismo non ha bisogno di nemici.

Neves prevedibilmente si è presentato come il dragone che avrebbe fatto a pezzi quello che Wall Street deride come “statismo” – tagliando la spesa statale e “liberalizzando” il commercio, termine in codice per definire il privilegiare gli interessi delle corporate statunitensi. Al contempo Neves non è mai stato in grado di accalappiare il voto di un’oppressa donna nera delle favelas.

Con Neves, il Ministro delle Finanze del Brasile sarebbe stato Arminio Fraga, un viscido operatore finanziario che, tra altre cose, ha gestito fondi ad alto rischio in paesi emergenti per George Soros ed è stato Presidente della Banca Centrale Brasiliana. Alcune delle sue marachelle sono spiegate in dettaglio in More Money than God: Hedge Funds and the Making of a New Elite [Più soldi che Dio: gli hedge funds e la creazione di una nuova elite, NdT], di Sebastian Mallaby. Fraga sarebbe stato l’uomo chiave di un governo ispirato da Soros.

Fraga è l’icona del predatore di Wall Street. Con lui al Ministero delle Finanze, pensate a JP Morgan che controlla le politiche macroeconomiche del Brasile. La strada infatti era già stata battuta dall’eminenza del PSDB, l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, che si era incontrato con investitori stranieri – via JP Morgan – il mese scorso.

Fraga era intenzionato a distruggere l’ ”Iper-Keynesianascommessa sulla domanda” delle amministrazioni Lula e Rousseff e sostituirla con offerta, per mezzo di un nuovo “shock capitalistico”. Prevedibilmente, la sua ricetta era amplificata dall’enorme cassa di risonanza dei media brasiliani conservatori, che tenevano nascosto tutto il resto.

Dato che la percezione è realtà, la contaminazione si è diffusa – contraendo la spesa pubblica, instillando confusione negli investitori privati e facendo sì che le società di rating occidentali confermassero la supposta scarsa affidabilità dell’economia brasiliana.

Sono gli USA contro i BRICS

Il Brasile si sta lentamente ma inesorabilmente muovendo dalla semi-periferia al centro delle relazioni internazionali, per la sua rilevanza geopolitica regionale, ma soprattutto per il suo ruolo di leader all’interno dei BRICS. Ciò avviene anche se a Washington non importa nulla del Brasile – o di tutta l’America Latina. La fomra di pensare degli USA aborre i BRICS.

Politicamente una vittoria dei neoliberali di Cardoso/Neves – un fantasma della democrazia sociale a cui si ispiravano – avrebbe messo sottosopra la politica estera brasiliana, non solo contro la direzione storica del Brasile, ma contro i suoi stessi interessi nazionali.

Come ha detto la Rousseff alle Nazioni Unite la settimana scorsa, il Brasile sta cercando di combattere una crisi globale segnata da una sempre più grande disuguaglianza senza causare disoccupazione e senza sacrificare i salari e l’occupazione. Il geniale economista Theotonio dos Santos ha messo in luce la decadenza dell’occidente che ancora esercita influenza sul Sud del Mondo attraverso una rete estesa di collaboratori ed è andato oltre: la vera guerra è per il controllo del petrolio brasiliano.

Dos Santos si riferisce alla maggior impresa brasiliana, Petrobras, attualmente coinvolta in uno scandalo di tangenti – che dovrà essere indagato a fondo – che oscura il Santo Graal: i futuri introiti del petrolio “pre-sale” – così chiamato per i miliardi di barili di greggio coperti da uno spesso strato di sale sotto la faglia sud-atlantica. Petrobras pianifica di investire 221 miliardi di dollari entro il 2018 per sbloccare questo tesoro – e si aspetta di guadagnare anche con il greggio a 40-50$ al barile.

Politicamente, per farla semplice, la ristretta vittoria della Rousseff è fondamentale per il futuro di un Sud America in crescita ed integrato. Rinvigorirà MErcosur – il mercato comune del Sud – così come Unasur – l’unione degli stati sudamericani. Ciò va ben oltre il libero scambio, si parla di integrazione regionale, in parallelo con quella eurasiatica.
A cominciare dal 2015, il Brasile potrebbe essere sulla rotta di una nuova espansione economica – largamente spinta dai frutti del “pre-sale” e corroborata con la costruzione di strade, ferrovie, porti e aeroporti. Ciò dovrebbe creare una reazione a catena sugli stati vicini.

Così come per Washington/Wall Street, l’Impero del Caos non è contento – e ciò è un grosso eufemismo, specialmente dopo aver scommesso sul cavallo perdente, Marina Silva, una sorta di nativa della foresta Amazzonica controparte del “cambiamento in cui possiamo credere” di Obama. Il fatto è che così come il modello di distribuzione della richezza brasiliano è contro gli interessi del grande business, anche la politica estera del Brasile e quella di Washington ora sono diametralmente opposte.

Su un piano più leggero, almeno alcune cose restano le stesse. Come “Il diario di Dilma” – uno scritto fantasma apocrifo e satirico sulla fitta agenda del presidente pubblicato dal famosissimo mensile brasiliano Piaui, una versione locale del New Yorker. C’è un’annotazione tipica: “ho guardato un’intera serie in copia pirata di Homeland. Fantastico! Siamo stati su fino a tardi, io e Patriota [l’ex Ministro degli Affari Esteri]. Lui ha trovato tutto estremamente credibile!”.
Chi dice che una “vibrante democrazia” non può essere anche divertente?