Lo sciopero? Un’arma spuntata

Civil Servant
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Alla fine la CGIL ha timidamente rispolverato la minaccia dello sciopero generale contro il Jobs Act. Ma, a differenza di qualche anno fa, l’annuncio non ha spaventato nessuno. Anzi c’è chi ha assimilato lo sciopero ad un volgare ricatto e perfino chi si è meravigliato che per i dipendenti pubblici fosse ancora legale astenersi dal lavoro. Tutto questo è potuto accadere perché in tempi di crisi lo sciopero è un’arma spuntata ed anzi rischia di avvantaggiare la controparte. Dopo tutto un bello sciopero è proprio quello che ci vuole quando la produzione non tira e una giornata di salario in meno da pagare fa solo risparmiare sui costi.

Nel settore pubblico, gli scioperi danno tradizionalmente una mano alle casse dello stato. Poco importa se un blocco dei servizi pubblici (dalle scuole agli ospedali, per finire alle questure e ai tribunali) danneggia i cittadini. Anzi è un pretesto in più per giustificare altre campagne contro i “fannulloni” degli enti pubblici (che non sanno quanto sono fortunati ad avere ancora un lavoro regolare!) e per invocare ulteriori tagli alla spesa.

In compenso, uno sciopero costa parecchio ai lavoratori e li espone anche a possibili ritorsioni. E queste considerazioni pesano molto quando i salari sono bassi e il lavoro bisogna tenerselo stretto, come accade durante una recessione. Per non parlare del fatto che per le prime vittime delle politiche economiche, ovvero i disoccupati e i pensionati, è piuttosto difficile smettere di lavorare. Insomma uno sciopero nel bel mezzo di una delle più gravi crisi della storia moderna sembra proprio una pessima idea.

Perché, di fronte a questo quadro, un sindacato decente non pensa a forme di protesta più efficaci del solito sciopero? Per una volta tanto, la colpa non è tutta dei burocrati sindacali, ma piuttosto delle nostre radici culturali. La parola sciopero, infatti, deriva dal latino “ex operare” ed allude alla interruzione del lavoro, piuttosto che ad una vera e propria protesta. Esattamente il contrario di ciò che avviene nei più pragmatici paesi anglofoni, dove scioperare si dice “to strike”, che significa sia “colpire” che “raggiungere l’obiettivo”.

Forse è solo un caso che le politiche economiche abbiano colpito soprattutto i lavoratori dei paesi dove si parlano lingue neo-latine, come l’America del Sud e la Spagna, dove il castigliano huelga fa riferimento direttamente allo starsene senza far nulla (holgar) e il catalano vaga deriva dal verbo vagare. La visione “latina” sembra condivisa anche dal termine greco aperghìa, che indica proprio l’allontanamento dal lavoro. In Francia sono anche più precisi su dove passare il tempo libero dal lavoro, perché la grève allude alla tradizione degli operai parigini di protestare riunendosi in Place de Grève, che era la zona dove si esercitava il caporalato. Questo luogo deve essere talmente suggestivo da aver convinto anche portoghesi, brasiliani, turchi, romeni e albanesi a chiamare lo sciopero con parole che suonano più meno come grève.

Il riferimento al colpo da infliggere alla controparte è molto più esplicito in tutti i paesi dove si parlano lingue del ceppo germanico e scandinavo, dove si usano numerose variazioni del tedesco streik. E in effetti, anche grazie a proteste più aggressive, i lavoratori di quei paesi non se la passano poi troppo male. L’idea del colpo, o almeno il suono della parola, deve essere piaciuta anche ad altri popoli, visto che in Giappone usano la parola sutoraikie, in tutta la penisola balcanica utilizzano delle varianti fonetiche di streik e perfino nei paesi arabi lo sciopero si indica con la parola idrab, che deriva dal verbo darab, che significa proprio colpire.

Assodato che la minaccia di starsene con le mani in mano, senza “operare”, in questo momento non produrrebbe risultati significativi, ci permetteremmo di suggerire ai nostri sindacati forme di protesta un po’ più efficaci, pur senza ricorrere a “colpi” proibiti. In caso contrario, in un futuro molto prossimo ci accontenteremo di descrivere lo sciopero come una semplice interruzione del lavoro, del tutto assimilabile a quelle dovute a incidenti o problemi tecnici, come in Islanda e Cina, dove si utilizzano rispettivamente i termini verkfall e bà gong. I primi segnali di questa deriva linguistica già si possono ritrovare nei mezzi di comunicazione, che sempre più spesso indicano gli scioperi come “astensioni dal lavoro”, assimilandole in modo subliminale alle assenze per malattia o qualche espediente da furbacchioni.

Eppure i lavoratori e i cittadini insoddisfatti possono assestare parecchi “colpi” alla controparte senza rimetterci un centesimo, a differenza degli scioperi tradizionali. Naturalmente non si può pensare di prendersela con obiettivi fisicamente individuabili, a differenza di quanto rimuginano ancora alcuni nostalgici, perché in una economia complessa e “liquida” non esistono più i “padroni” e il famoso 1% di individui che assorbe la maggior parte della ricchezza creata dal restante 99% della popolazione è sparso in mezzo mondo. Quello che si può fare è inserirsi chirurgicamente sulla rete di relazioni e comunicazioni che rende possibile questa immensa redistribuzione di risorse verso i più abbienti. I movimenti di protesta più moderni lo hanno capito perfettamente, mentre i sindacati sembrano in ritardo.

Ma prima di tutti lo avevano capito intellettuali come Gandhi che, anche senza social network, riuscirono a paralizzare un’economia coloniale ed a raggiungere obiettivi estremamente ambizioni con strumenti non violenti ma micidiali. Oggi basta semplicemente copiare ed aggiornare certi metodi. Per esempio, già durante il Risorgimento italiano c’è chi aveva compreso che il più grande potere dei cittadini sta nel fatto che sono anche consumatori e che quindi possono decretare il fallimento o il successo di qualsiasi impresa o amministrazione pubblica. Il famoso sciopero del tabacco in Lombardia fu molto più dannoso di mille manifestazioni per gli occupanti Austriaci. Come pure la marcia del sale o il boicottaggio dei tessuti inglesi promossi da Gandhi furono molto più convincenti di molti scontri di piazza. Più di recente, sembra che una delle forme di protesta degli insegnanti più temute sia stato il blocco delle gite scolastiche, che ha trasformato magicamente agenzie di viaggi, alberghi e ristoratori in supporter dei professori.

Pensate a cosa succederebbe se un sindacato invitasse i propri iscritti a bloccare tutti gli acquisti non essenziali per un paio di settimane (cosa molto facile, visti gli attuali salari!); oppure se lanciasse il boicottaggio dei brand che non sostengono apertamente le ragioni dei lavoratori; o se suggerisse il ritiro di contanti da tutti i bankomat in un giorno prestabilito; oppure se invitasse i lavoratori in agitazione a guidare a bassissima velocità o ad attraversare lentamente i passaggi pedonali per bloccare il traffico (come fanno abitualmente camionisti e taxisti in agitazione). A queste forme di protesta si potrebbero aggiungere anche consigli sempre salutari, come smettere di fumare (con un esplicito richiamo risorgimentale) e di giocare alle lotterie di stato per non rimpinguare le casse del Tesoro. Sarebbero tutti modi per convincere soggetti del tutto estranei alla protesta (e forse anche tendenzialmente ostili) a supportare le ragioni dei lavoratori, con effetti molto più incisivi dei soliti riti sindacali.