La sofferenza inutile di A.Esposito

Alessandro Esposito, pastore valdese in Argentina

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Non mi era mai capitato di commentare due volte, nel breve volgere di pochi giorni, gli articoli del quotidiano Avvenire. A spingermi a farlo, quest’oggi, sono le riflessioni svolte dal giornalista Maurizio Patriciello, il quale, prendendo spunto da alcune vicende d’attualità riprese con una certa retorica dai media (vedi la vicenda di Brittany e le esternazioni dell’attrice Anna Marchesini nel corso dell’ultima puntata di Che tempo che fa), svolge alcune considerazioni sul tema – delicato ed alfine insolubile – della sofferenza umana.

Per ciò che concerne l’impostazione generale dell’articolo, incomincio col dire che non condivido la celebrazione cristica del dolore che esso sottende, quando il suo autore sostiene, ad esempio, che «nemmeno Gesù Cristo ha voluto gettare un po’ di luce su questo mistero che ci coinvolge e ci sconvolge. Sappiamo solo che Lui stesso ha assunto il peso del dolore». Si tratta di una lettura riduttiva ed edulcorata della vicenda occorsa al profeta di Nazaret, poiché elusiva di tutto lo sgomento che i resoconti evangelici lasciano trapelare nell’episodio del Getsemani e nel grido disperato e senza risposta che Gesù indirizza al Padre da una croce che significa sconfitta ed amarezza. Anche Gesù solleva la domanda sul senso e anche per lui essa rimane inevasa. Ma questo la lettura teologica tradizionale tralascia di rimarcarlo, affrettandosi a delineare una risposta che il dolore e la sua tragica insensatezza demoliscono ed irridono nella sua pretenziosa esaustività.

La domanda sul senso è destinata a rimanere tale: ogniqualvolta ci si accinga ad una sua illusoria risoluzione, la vita stessa provvede a riaprirla, riconducendoci alla nostra ineludibile provvisorietà, che è condizione esistenziale prima ancora che intellettiva.

A lasciarmi ancor più perplesso è però un’altra affermazione dell’autore, secondo cui, cito: «C’è nel soffrire qualcosa che nessuno saprà mai spiegare, ma che nessuno può affermare essere inutile o dannoso». Con buona pace dello stimato Patriciello, qualcuno che invece ha affermato, e a chiare lettere, l’esistenza di una sofferenza inutile c’è. Dostoevskij, ad esempio, avanza a più riprese questo sospetto nei suoi romanzi: esso prende forma e corpo nelle parole che Ivan rivolge al fratello Alëša nel dialogo che precede la celebre «Leggenda del Grande Inquisitore», nei Fratelli Karamazov; o nel rifiuto di continuare a stare al mondo accettandone l’iniquità che viene espresso da Kirillov nei Demoni.

Chiosa a tale proposito il filosofo Luigi Pareyson: «La sofferenza inutile non si può considerare necessaria, nemmeno rispetto a un fine (…) come la felicità universale; e i puri pazienti, per cedevoli o consentanei che siano, non possono essere strumentalizzati, nemmeno da Dio»[1].

Ancor più pregnanti, però, sono le parole di Primo Levi, che nel suo lucidissimo I sommersi e i salvati, annota in merito alla barbarie nazista dei campi di sterminio: «Abbiamo assistito allo svolgimento razionale di un piano disumano, o ad una manifestazione di follia collettiva? Logica intesa al male o assenza di logica? Come spesso nelle cose umane, le due alternative coesistevano»[2].

Talvolta reperire un senso sgomenta più della sua irreperibilità. Ma l’essenza tragica dell’umano e della sofferenza che lo innerva risulta svilita nella lettura che di questa vicenda insondabile fornisce la teologia cristiana tradizionale. Meglio, dunque, restare consapevolmente tra «color che son sospesi» e non azzardare risposte definitive a domande che in alcun modo possono prevederle e, men che meno, accettarle.

[1] Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 1993, cit. pag. 187.

[2] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986, cit. pag. 66.

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L’Avvenire non ci sta

Alessandro Esposito
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Confesso che quando ho redatto per MicroMega il mio articolo Nihil novi sub sole a commento del sinodo straordinario dei vescovi cattolici sulla famiglia, la mia massima aspirazione non era certo quella di vedere riprese (e dileggiate) le mie riflessioni sul quotidiano Avvenire. È risaputo, però, che la vita suole essere ironica ed ingenerosa con i nostri desiderata. Ragion per cui quella testé menzionata è stata l’amara sorte a cui il mio modesto pezzo è andato incontro.

A commentarlo (si fa per dire) è stato il giornalista dell’Avvenire Gianni Gennari che, com’è tradizione nel pensiero cattolico allineato, non fa menzione alcuna delle critiche da me espresse e degli argomenti mediante cui ho provato a suffragarle, ma si limita a denigrare le une e gli altri. Il motivo, manco a dirlo, è il dissenso che le mie riflessioni hanno inteso manifestare circa una (a mio giudizio infondata) lettura ottimistica degli esiti a cui il consesso sinodale è alfine approdato.

Ma si sa, oltretevere il dissenso non è di casa e, men che meno, è il benvenuto quando prende forma in ambienti notoriamente perversi poiché pervasi dal demone dell’illuminismo: qui, a quanto pare, non è pervenuta notizia alcuna in merito agli enorrmi passi in avanti che in verità questo Sinodo avrebbe compiuti, né ha trovato spazio la risonanza pressoché unanime della stampa (quella buona poiché consenziente) che con toni celebrativi ha tessuto le lodi di decisioni spacciate per moderatamente progressiste ed in verità palesemente reazionarie.

Pazienza: le opinioni, del resto, sogliono divergere, sebbene, nella laconica nota del dottor Gennari, non sia stata istituita nemmeno la parvenza di un confronto tra di esse: si è preferito fare della ragione una questione numerica, limitandosi a svilire, senza citarle, le tesi altrui, inaccettabili poiché minoritarie e dissonanti rispetto al coro di sperticati quanto discutibili elogi.

A margine, mi premono soltanto due chiarimenti. In primis, qualora il dottor Gennari si fosse dato la pena di documentarsi sul mio conto, avrebbe scoperto con irrisoria facilità che, a onor del vero, la redazione di MicroMega non mi ha affatto “pescato” (come egli inferisce) in Argentina, poiché, al contrario, ho il privilegio di scrivere su questa rivista da ormai due anni, quando ancora risiedevo in terra natia, per l’esattezza in quel di Trapani.

In Argentina, gentile Gennari, vi sono finito per scelta deliberata, per accompagnare i diseredati di questa terra nelle loro lotte e nelle loro (legittime e reiteratamente calpestate) rivendicazioni. In questo modo possiede il quadro completo per portare a compimento la sua diagnosi: illuminista e per giunta socialista. Roba da rabbrividire.

In seconda istanza, vorrei effettuare una precisazione in ordine al suo timore, rispetto al quale ritengo che lei abbia peccato di eccessiva indulgenza nei riguardi di se stesso giudicando probabilmente (evidentemente talvolta i dubbi sfiorano anche lei: peccato che ciò accadda quando non dovrebbe accadere) scortese, cito, la sua immagine conclusiva, mediante cui paragona MicroMega ad una casa di salute mentale. Giusto per chiarire, l’immagine non è affatto scortese: è offensiva, del tutto fuori luogo, animata da un livore ingiustificabile e dalla protervia tipica di chi, sproloquiando, non conosce (perché non ammette) il contraddittorio.

L’ironia, dottor Gennari, bisogna saperla misurare: è questione di stile, non tutti ne dispongono. Potrei sbagliarmi, ma tutto sembra indicare che essa non rientri tra i suoi pregi.