Le parole che uccidono. Ma mica tutte di C.M.Calamani

Cecilia M. Calamani
www.cronachelaiche.it

È meritevole la campagna “Anche le parole possono uccidere” lanciata da 190 testate della Federazione italiana settimanali cattolici, con in testa Avvenire e Famiglia cristiana, e patrocinata da Camera e Senato. Il fine è stigmatizzare l’uso discriminatorio del linguaggio: «Uomini e donne in fuga dalle guerre bollati come “clandestini” – scrive nel suo lancio Avvenire – Onesti lavoratori guardati di traverso perché musulmani quindi “terroristi”. O più semplicemente “negri”. Etnìe emarginate da secoli come i rom, condannati in blocco come “ladri”. Adolescenti che non corrispondono ai cliché estetici televisivi sbeffeggiati come “ciccioni”. L’imbarbarimento della lingua comincia con la politica, rimbalza sui giornali, si diffonde come un virus tra la gente comune. E col sospetto crescono la paura, il disprezzo, la xenofobia».

La campagna ricorda una analoga iniziativa del 2010 della Chiesa valdese, ma con qualche differenza di merito e di metodo. Il progetto valdese mirava a condannare ogni tipo di discriminazione. Nei cartelloni pubblicitari, confezionati e affissi utilizzando i fondi dell’otto per mille, campeggiavano diversi tipi di slogan: «Ci chiamate negri, zingari, clandestini. Siamo della stessa razza. Umana», «Siamo precari, poveri, disoccupati. Siamo tuoi fratelli. In Italia», «Ci chiamate schiave, prostitute, trans. Siamo come voi. Persone». Le differenze saltano agli occhi. Nella iniziativa cattolica i discriminati sono solo alcuni dei “diversi”, e precisamente quelli che per origine etnica, appartenenza religiosa, caratteristiche fisiche o posizione sociale non rispondono a presunti standard identitari. Silenzio invece su altri tipi di vittime ossia quelle, citate viceversa dalla Chiesa valdese, il cui orientamento sessuale non è compatibile con la dottrina. Eppure, nello slogan pubblicitario si legge «Anche le parole possono uccidere. L’altro è come me». Forse dipende da quale «altro»? Non sono «altro» gli omoaffettivi, non sono «altro» le donne. Eppure subiscono lo stesso tipo di violenza.

Nessuno stupore per chi ancora considera l’omoaffettività una malattia e le donne indegne di accedere all’istituto sacerdotale. Stupisce invece che questa iniziativa sia sbarcata in parlamento come «campagna di civiltà», per usare le parole della presidente della Camera Boldrini. La civiltà non si misura scegliendo quali discriminazioni stigmatizzare e quali dimenticare. Qualcuno insegni ai cattolici, e ai plaudenti parlamentari, che gli «altri», tutti gli «altri», meritano lo stesso rispetto e la stessa tutela. E che tra le «parole che uccidono» non possono sceglierne solo alcune: “frocio”, “culattone” e “mignotta” hanno la stessa violenta matrice di “sporco negro”. Le cronache insegnano.