Con parole sbagliate non possiamo lottare per un mondo giusto e nuovo

Gilberto Squizzato
(CdB di Busto Arsizio)

Papa Francesco è stato chiaro: “Lo Stato di diritto sociale non va smantellato e in particolare il diritto fondamentale al lavoro. Questo non può essere considerato una variabile dipendente dai mercati finanziari e monetari. Esso è un bene fondamentale rispetto alla dignità, alla formazione di una famiglia, alla realizzazione del bene comune e della pace (…) L’istruzione e il lavoro, l’accesso al welfare per tutti sono elementi chiave sia per lo sviluppo e la giusta distribuzione dei beni, sia per il raggiungimento della giustizia sociale, sia per appartenere alla società e partecipare liberamente e responsabilmente alla vita politica, intesa come gestione della res publica (…) Visioni che pretendono di aumentare la redditività, a costo della restrizione del mercato del lavoro che crea nuovi esclusi, non sono conformi a un’economia a servizio dell’uomo e del bene comune, a una democrazia inclusiva e partecipativa”.

E ancora precisa il papa: “Lo sfruttamento dello squilibrio internazionale nei costi del lavoro fa leva su miliardi di persone che vivono con meno di due dollari al giorno. Un tale squilibrio non solo non rispetta la dignità di coloro che alimentano la manodopera a basso prezzo, ma distrugge fonti di lavoro in quelle regioni in cui esso è maggiormente tutelato. Si pone qui il problema di creare meccanismi di tutela dei diritti del lavoro, nonché dell’ambiente, in presenza di un’ideologia consumistica, che non mostra responsabilità nei confronti delle città e del creato (…) La crescita delle diseguaglianze e delle povertà mettono a rischio la democrazia inclusiva e partecipativa, la quale presuppone sempre un’economia e un mercato che non escludono e che siano equi. Si tratta, allora, di vincere le cause strutturali delle diseguaglianze e della povertà”.

Siamo ben al di là della tradizionale dottrina sociale cristiana che per oltre un secolo, a cominciare dalla Rerum Novarum di Leone XIII, ha rivendicato il diritto del lavoro (e dei lavoratori) alla dignità e alla giustizia sociale ma spesso, per timore di essere accusata di fiancheggiare il socialismo, è stata troppo timida e reticente, e si è anche illusa troppo a lungo di dover tenere aperta la possibilità di quella “terza via” che abbiamo visto invece che esiti disastrosi ha prodotto con le politiche neoliberiste cosiddette “temperate” di Clinton e Blair.

Ad ogni modo, i tempi sono cambiati, una nuova coscienza si è affermata fin dentro la Chiesa e non c’è chi non veda, nelle parole di Francesco, gli echi potenti della Teologia delle Liberazione disprezzata e condannata da Giovanni Paolo II. Sì, aria nuova spira dentro le parole del nuovo papa che ha restituito ai poveri il loro ruolo di destinatari privilegiati e prioritari dell’annuncio evangelico, a costo di dover mettere in discussione il primato del mercato e la prepotenza di un pensiero che pone il profitto come norma regolatrice e come motore dell’economia globale.

Però. Però… Però forse oggi abbiamo bisogno anche di una bonifica del vocabolario politico ed economico, necessitiamo di un atto di coraggio che restituisca alle parole il loro autentico significato perché parole e discorsi ambigui non possono produrre buoni frutti, al contrario pongono le premesse per ratificare concetti equivoci ed azioni politiche contradditorie e inefficaci rispetto all’obiettivo della giustizia sociale e del riscatto del lavoratore.

Proviamo a riflettere: una delle espressioni più pericolose che siamo abituati ad usare, che perfino i sindacati hanno assunto nel proprio vocabolario e che paradossalmente leggiamo anche nei vigorosi appelli e nelle denunce di Bergoglio non è forse è l’espressione corrente, e mai messa in discussione, “mercato del lavoro”. Non sarebbe tempo che chi crede nella dignità dell’uomo e della donna l’archiviasse definitivamente per sgombrare il campo da un fraintendimento pericolosissimo che vizia alla radice ogni discorso sul lavoro?

La politica, e soprattutto il linguaggio, considerano infatti il mercato del lavoro un “assioma” dato per ovvio: un assunto acriticamente e ingenuamente assunto anche da tutti noi nel momento stesso in cui cominciamo a discutere di crisi, di economia, recessione, di Europa, di riforme (vere o presunte, quando magari si tratta perfino di controriforme). Questa consuetudine linguistica veicola una perversa descrizione concettuale del lavoro che ne fa appunto “una merce”, riducendo dunque, inevitabilmente, a merce anche le persone dei lavoratori che sono costretta a vendere la propria prestazione fisica e intellettuale.

Ecco perché è tempo di bonificare il nostro linguaggio pubblico mediante un radicale rifiuto di questa espressione, per aiutare anzitutto i lavoratori, i precari, i disoccupati a sottrarsi ad una catalogazione linguistica che li equipara alle cose, cioè ai beni e agli oggetti di mercato che, questi sì, possono essere e che, alla fine, omologa alla prostituzione l’erogazione di qualunque prestazione lavorativa: “io ti vendo il mio corpo” non è, nella sostanza, qualitativamente diverso da “io ti vendo il mio tempo, la mia intelligenza, la mia abilità, il mio sapere”.

Non è certo necessario essere cristiani per affermare l’irriducibilità dell’uomo a strumento (e dunque a merce che si compra per conseguire un certo fine di produttività), basta essere kantiani: l’uomo può essere soltanto fine, mai mezzo. Tanto più dunque dovrebbero i cristiani rifiutarsi all’uso –nel discorso pubblico – di quest’espressione in sé degradante e avvilente che adotta e legittima (implicitamente, aprioristicamente) il concetto classico e antiquato di servitù-schiavitù (“non c’è più né schiavo né libero”!)

Ma allora di che cosa dovremmo parlare, se decidessimo di espungere dalle nostre abituali consuetudini linguistiche l’espressione “mercato del lavoro”? Potremmo correttamente utilizzare l’espressione “politica dei contratti”, perché “contratto” è il participio passato del latino “contrahere”: la visione dell’attività economica che ne è il presupposto è dunque di due soggetti di uguale dignità, perché con-traenti sono letteralmente coloro “che tirano insieme” e che sono dunque sullo stesso piano, anche se non hanno necessariamente la stessa forza).

Vogliamo riferirci allo scottante attualità di queste settimane? Non è forse sotteso all’abolizione dell’articolo 18 l’abbattimento dell’ultima garanzia -anzitutto linguistica e concettuale- della dignità umana del lavoratore sancita dalla nostra Costituzione? Se la perdita ingiusta del lavoro può essere compensata da un indennizzo economico non presupponiamo che il lavoro sia una merce come le altre? Renzi non vuole che si usi la parola “padrone” ma piuttosto di “imprenditore” (etimologicamente e concettualmente colui che promuove e fa partire il progetto)? Bene. Ma allora perché non ricorda che “lavoratore” è colui che mette la propria fatica (fisica, intellettuale, creativa) in quello stesso progetto e ne rende possibile la nascita?

“Ovvietà”, dirà qualcuno, “non c’è bisogno di riesumare Marx e il concetto di alienazione, superato dai tempi e ormai sepolto!” E se invece fosse proprio questa dimenticanza (questa intenzionale cancellazione, o meglio censura, della parola alienazione operata dal “pensiero unico”) a costituire la madre di tutte le sconfitte dei lavoratori, totalmente “mercizzati”, cioè ridotti a cose, oggetti, e dunque “reificati”? E non saranno necessariamente condannati aprioristicamente alla sconfitta una sinistra e i sindacati che da tempo hanno accettato questa censura accettando la reificazione del lavoro e del lavoratore? Come si può resistere allo scontro con il neocapitalismo finanziario e planetario se si usano parola sbagliate anzitutto per designare se stessi?

Sì, sono risolutamente convinto che è preventivamente indispensabile bonificare il linguaggio economico se si vuole evitare la fatale sconfitta dei più deboli, la loro derubricazione a strumenti della produzione comprabili e vendibili a dispetto della nostra Costituzione che non è fondata sulle merci ma sul lavoro. Mi chiedo perciò: il primo sogno (irrinunciabile) non deve essere quello di abolire la schiavitù che genera divisione e ingiustizia abrogandola anzitutto nel nostro linguaggio? Non dobbiamo ripulire la nostra mente da parole e concetti infettati dalla prepotenza anche culturale dei padroni del mondo che si permettono (riuscendovi!) di pretendere dai lavoratori di considerarsi merci?

E poiché non voglio fare un discorso accademico, astratto, disincarnato, vi pongo subito quattro domande che mi paiono del tutto concrete, attuali e decisive.

1- Quando Renzi (lo stesso che ha parlato dal balcone della basilica di Assisi!) afferma, a pieni polmoni, che l’imprenditore deve essere libero di licenziare e che deve essere lo stato ad aiutare il lavoratore privo di sostentamento vitale il suo discorso non ci riporta indietro di secoli, quando il lavoro si otteneva per degnazione del padrone? Non è un pensiero, quello del cattolico Renzi che è andato a riscuotere applausi alla Route degli Scout e ovazioni dai Focolarini, che stride violentemente con le parole di papa Francesco con cui abbiamo aperto questa riflessione? Affidando allo Stato il ruolo di benefattore del senza lavoro non gli affida il ruolo che storicamente, per secoli e secoli, si assunse la Chiesa quando ancora non si parlava di diritti dell’uomo ma la violenza era connaturata allo statuto dell’economia? Non rilegittima il nostro presidente del Consiglio la condizione servile del lavoratore (occupato o disoccupato è la stessa cosa)?

2- Si obietterà: ma la nostra Costituzione afferma che è la Repubblica a dover rimuove “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. La Repubblica, non l’imprenditore. Verissimo. L’imprenditore deve produrre, vendere, investire, lucrare. E la Repubblica intanto starà a guardare quando fabbriche solide ben affermate sul mercato vengono smantellate, delocalizzate, ristrutturate, a scapito dei posti di lavoro che vengono cancellati a migliaia, a decine di migliaia sotto la spinta irresistibile del capitale finanziario che ha come fine soltanto la speculazione? E’ accettabile questa idea di Europa che si è imposta negli ultimi vent’anni e che impedisce allo stato di diventare imprenditore nei casi di emergenza rilevando le aziende per difendere i posti di lavoro e anche il “capitale aziendale” (conoscenze, tecnologie, sperimentazione accumulati nella ditta proprio grazie al lavoro di operai, tecnici e manager)? Quale è il modello economico europeo che vogliamo?

3- E dunque? Possiamo accettare, come cristiani e come cittadini, un’idea (e una prassi!) di Europa che vieta allo stato di assistere (sì, l’assistenzialismo è un reato!) le aziende in difficoltà per non fermare la presa violenta e feroce del capitale sul lavoro che è sempre la parte più debole della società? Possiamo accettare come idolo supremo la logica perversa della più spietata concorrenza che si traduce nei fatti nella guerra dei poveri fra loro a favore dei profitti della speculazione planetaria? Posiamo abdicare alla sovranità del popolo che chiede anche allo Stato di riequilibrare lo scontro diseguale fra capitale e lavoro e, nei momenti di crisi e di bisogno, assumere lui stesso il ruolo di imprenditore per creare lavoro (la bonifica del territorio, il riassetto idrogeologico, l’investimento nell’edilizia popolare, nella ricerca, nella cultura, ecc.?) A che serve trastullarsi con battaglie ideologiche per inserire nella Costituzione europea il riconoscimento dei valori fondativi “ebraico-cristiani” – magari in opposizione a quelli illuministici, come vogliono CL e gran parte dei reazionari cattolici- se nella pratica economica Governo e Parlamento Europeo sanciscono il primato unico e indiscutibile della produttività, che è solo la maschera di quel Moloch famelico e mai sazio che è la competitività globale?

4- E in questo quadro non dovremmo scongiurare il pericolo più nefasto e mortale, cioè la perdita della memoria storica (e della coscienza!) di quanto è accaduto anche in Italia in questi ultimi vent’anni, e cioè il fatto che il pensiero anti-umanistico del neoliberismo è diventato anche non egemone ma “unico”? che è penetrato anche nel pensiero del popolo, nella mente e nel linguaggio della sinistra, nella prassi dei sindacati (non di tutti per fortuna!)? Non è forse vero che la legge della concorrenza è stata assunta e descritta come assoluta e inviolabile anche da eminenti politici cattolici, socialisti ed ex comunisti? Perché non abbiamo più il coraggio di credere, anche nel consesso mondiale, del primato della “cooperazione” economica contro la sfrenata concorrenza che sta uccidendo il mondo dando in mano a pochi potenti? Considerate il paradosso! Oggi ormai si parla solo di cooperazione militare dei volonterosi? Non è forse la competitività economica planetaria ad aver sprofondato miliardi di persone in abisso d’ingiustizia che collide con quel “regno di Dio” che Gesù annunciò e che il suo Vangelo continua a promettere all’umanità sofferente? Possiamo rinunciare al sogno, o meglio alla profezia, di una società una società planetaria “fraterna” e solidale?

E’ dunque di una profonda rivoluzione linguistica e concettuale che abbiamo prioritariamente bisogno se vogliamo evitare di fare dei lavoratori e delle lavoratrici dei puri strumenti del neoliberismo planetario. Fino a quando continueremo anche noi a parlare di “mercato del lavoro” e di “salario” riducendo gli uomini e le donne che producono lavoro, ricchezza sociale, beni e servizi, al rango di “merce” o di “soldati” degli eserciti dei sistemi (imperi) economici, come i militi romani retribuiti con il sale della loro paga? Usiamo la parola “stipendio” senza sapere che era una moneta di rame d’infima qualità (il contrario dunque della stock option dei manager che partecipano all’utile del capitale!).

Parliamo di “paga” senza tener conto del fatto che deriva da “pacare”, nel senso preciso di tener buono, di placare il lavoratore che rivendica il diritto a veder riconosciuto il valore del suo lavoro. Forse dovremmo cominciare a solo di “retribuzione” del lavoratore, per indicare quel compenso che gli viene riconosciuto per aver prodotto bene e servizi in regime di cooperazione-collaborazione e che gli viene perciò “tributato”, cioè riconosciuto e restituito, non in cambio della sua “prostituzione” fisica e mentale, ma per poter disporre di una parte di quei beni che ha prodotto con fatica a favore di sé e della propria famiglia.

Sottigliezze etimologiche e linguistiche, in tempi così atroci di crisi, di precariato, di disoccupazione, di disperazione? Forse no. Piuttosto un modo per contestare le aberranti premesse concettuali (date per indiscusse e indiscutibili dal pensiero unico) che ci hanno condotto a questi anni così oscuri, così disperati: soprattutto per i giovani.