Oltre Tor Sapienza

Antonia Sani
www.italialaica.it

La sensazione che si prova di fronte all’inflazione di notiziari su Tor Sapienza, è che i media non aspettassero altro che questo ghiotto boccone in cui affondare le mani nella certezza di un’audience incontrastata. Dei bar, delle vie, dei comitati di Tor Sapienza, del comportamento del sindaco si parla, si scrive quotidianamente: sono saliti di colpo all’onore del gossip nazionale… Gli ingredienti ci sono tutti, razzismo/esasperazione, degrado delle periferie mentre i quartieri bene pontificano sui diritti dalle poltrone dei salotti, populismo fascista, buonismo delle sinistre…

C’è di che imbandire un lauto banchetto. (Intanto si allenta l’attenzione sulle mosse o non mosse del premier). Quanto si tratti in realtà del solito, trito, problema senza via d’uscita emerge puntualmente alla fine di ciascuno dei tanti talk show dedicati all’argomento.

La causa dell’intolleranza, determinata in queste ultime settimane a Tor Sapienza da episodi occasionali, sarebbe infatti ben lungi dall’essere sconfitta anche se le minoranze etniche di migranti, Rom, richiedenti asilo, fossero dislocate in zone più centrali… poiché non è l’esasperazione di chi vive in condizioni disagiate -come si sente ripetere in continuazione- a rendere insopportabile la presenza di rom, migranti etc. quanto l’intolleranza verso chi vive, si comporta, agisce secondo modelli di convivenza in gran parte ignoti alla nostra popolazione nutrendo diffidenza, quando non ostilità, nei confronti di chi osserva con malcelato disprezzo coloro da cui teme aggressioni, furti, insudiciamento di strade e locali.

Tutto questo avverrebbe in qualsiasi parte della città. Si chiama razzismo. È una pulsione istintiva in chi tutela il proprio modo di vivere, il chiuso delle proprie abitudini, e respinge -sempre istintivamente- il diverso. Era così nell’Italia degli anni ’50, tra italiani del nord e del sud.

L’accusa di razzismo brucia. È sinonimo di ignoranza; è quindi un piacere dispettoso lanciarla, perché significa sentirsi “intellettualmente superiori”. È questo uno dei motivi del successo appassionato di questo tipo di trasmissioni. Altra è la questione della sicurezza che investe centro e periferia, isole della malavita di cui sono spesso protagonisti cittadini italiani. La reazione ha in questi casi aspetti e toni diversi.

Nella trasmissione “Piazza Pulita” del 17 .11. l’intervento di Ernesto Galli della Loggia mi ha fatto ripensare a una proposta di delibera che avevamo fatto in Consiglio Circoscrizionale della II Circoscrizione di Roma verso la fine degli anni ’80. Si era insediato in quegli anni a Monte Antenne, nel quartiere Parioli-Salario, un campo Rom. Avevamo stretto con loro un buon rapporto. Ci invitavano a sontuosissime feste di matrimonio, in cui venivano cucinati cibi alla brace per la durata di due giorni tra canti e cerimonie della loro tradizione. Naturalmente le proteste delle residenze vicine che lamentavano furti, clamori, litigi, degrado del paesaggio non furono inascoltate, e per opera soprattutto di Verdi, di Legambiente fu sollecitato lo sgombero. Noi delle sinistre eravamo contrari, i bambini frequentavano le scuole del quartiere, accompagnati ogni mattina dagli scout di san Roberto Bellarmino, e le ragazze avevano cominciato a frequentare il Consultorio dove imparavano a non rimanere incinte. Ma non ci fu nulla da fare. Il campo fu brutalmente sgomberato e i nuclei familiari trasferiti lungo le strade di Tor di Quinto e la via Olimpica (dove non si riuscì nemmeno a fornire loro un numero sufficiente di servizi igienici).

A quel punto ricordo un acceso dibattito in Consiglio circoscrizionale, dove tutta la sinistra promosse una delibera in cui si proponeva esattamente ciò che diceva Ernesto Galli della Loggia nel corso della trasmissione citata; creare in ognuna delle allora 20 circoscrizioni un insediamento Rom, in modo da evitare la pressione soltanto in poche zone della città, solitamente le periferie. Secondo noi, questo avrebbe contribuito all’integrazione, sull’esempio di alcuni quartieri di Roma (Porta Furba), ma anche di Firenze, di Torino, dove i Rom vivevano già a quei tempi in casette in muratura, linde e ben curate pur mantenendo il proprio stile di vita nell’abbigliamento, nella gastronomia…

La proposta di delibera indirizzata al Comune non vide mai la luce. Fu accusata dai fascisti di voler mutare la natura di nomadi agli zingari, e di sottrarre le case agli italiani senza casa. In realtà, la delibera poteva essere piuttosto accusata di buonismo, di paternalismo, partendo dal presupposto (non esente – ahi ahi – da un certo razzismo) che i Rom (e oggi anche i migranti, i richiedenti asilo) essendo una “piaga” da subire, è giusto e caritatevole suddividere tra tutti i cittadini…

Una soluzione la trovarono Veltroni e Amato stabilendo la zona per i campi fuori dal raccordo anulare; il che avrebbe avuto un senso se i Rom fossero ancora una popolazione dedita al nomadismo, ma essendo essi ormai stanziali, la distanza dalla città crea spesso problemi di inserimento dei bambini nelle scuole e più in generale di un loro inserimento nel tessuto urbano.

Credo che una soluzione nell’immediato proprio non ci sia. La rimozione forzata eseguita per dare un sollievo alle proteste di nuclei di abitanti di Tor Sapienza è stata un ossequio e un credito a un rifiuto – peraltro non da tutti condiviso – certamente alimentato da una forma di razzismo, ben oltre il disagio.

Destinare a centri di accoglienza e di residenza edifici urbani (ce ne sono non pochi in disuso) situati in zone diverse della città, servirebbe certo ad allentare la tensione nelle periferie, a eliminare l’insicurezza igienica degli insediamenti, ma quello che più servirebbe sarebbero luoghi di accoglienza non degradati e non facilmente degradabili sorretti da una capacità di comunicazione e di scambio culturale, da un’educazione all’ascolto reciproco- a partire dalle scuole e dai centri associativi – un rafforzamento della grande opera di volontariato informato che già c’è in città e non da oggi, che tolga l’aria al proliferare di facili luoghi comuni alimentati a bella posta da Lega e destra allo scopo di aumentare consensi elettorali dettati da chiusura, ignoranza e diffidenza. Lo spettro di una società da scongiurare.

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Perché Tor Sapienza

Adriana Goni Mazzitelli*
http://comune-info.net/

Storia di una periferia romana che grida la sua separazione. Dal quartiere operaio della prima metà del Novecento alle occupazioni abitative degli anni Duemila, Tor Sapienza ha attraversato l’era dei palazzoni e quella dei campi rom senza poter curare le profonde lacerazioni del suo tessuto sociale. Una periferia composta di insediamenti casuali e frammentari, di enclave vissute nella cultura dell’emergenza e mai messe in condizione di poter comunicare o interagire, di crescere insieme per diventare società. Quando la situazione s’è fatta esplosiva, istituzioni lontane anni luce dalla vita reale di buona parte della città, le stesse istituzioni che in passato hanno favorito la sovrapposizione “temporanea” di strati sociali abbandonati al degrado e all’isolamento, hanno improvvisato un frettoloso e indecente sgombero dei ragazzi fuggiti dalle devastazioni che investono i loro paesi e tanto commuovono finché restano sul piccolo schermo. Un tentativo goffo quanto illusorio di calmare rabbiosi sentimenti nazionalisti e identitari che ben altre risposte dovranno trovare. Quello che generalmente non si racconta, quando si dice che la cittá è il futuro dell’umanitá, è che la chiusura di zone intere (e la decisione di condannarne altre al degrado e all’abbandono) induce le persone a credere che nella guerra tra benestanti e poveri tutto sia ammesso. C’è tuttavia anche un’altra storia di Tor Sapienza, quella delle persone che hanno scritto sulla maglietta: scudo umano contro il razzismo. Che è poi la stessa delle famiglie che dopo aver occupato le case hanno pulito le terre abbandonate, creato degli orti didattici, offerto cene al quartiere e animato la sola speranza di futuro che ci resta

Sono lontana da Roma, in questo momento. Qui a Montevideo sto studiando le politiche che il governo uruguayano ha messo in campo per combattere la miseria attraverso progetti di autorecupero delle periferie e delle case abbandonate in città. Seguo con amarezza quello che sta accadendo a Tor Sapienza, periferia est di Roma, dove ho lavorato negli ultimi quattro anni. Leggo di notti di scontri e attacchi contro il centro di accoglienza che da anni riceve rifugiati in transito nel pezzo di quartiere chiamato Tor Sapienza II, ovvero nel complesso di edilizia sociale Giorgio Morandi.

Da tempo associazioni, comitati di quartiere, università e gruppi di cittadini italiani – ma anche peruviani, eritrei, marocchini, rumeni, sudanesi e rom – provano a bucare l´indifferenza di istituzioni di governo lontane dai territori. Chiedono azioni concrete contro l’abbandono e il sovraffollamento delle periferie. Non che non ci sia posto per tutta questa popolazione. Fino a qualche decennio fa, Tor Sapienza era una borgata in mezzo al verde, poi, con il passar degli anni, s’é trasformata in città. Chiudendo, molte fabbriche hanno lasciato ampi spazi per progetti di “densificazione” abitativa, lo stesso vale per molte altre aree verdi dove gli insediamenti informali marcano la tendenza a una crescita demografica che da qualche parte deve pur trovare posto.

La domanda di soluzioni abitative è dunque cresciuta in modo progressivo ma la risposta delle istituzioni non è mai arrivata. Non poteva che conseguirne un susseguirsi di figure definite, di volta in volta, informali, illegali e in altri modi simili. Non sono altro che risposte concrete all’emergenza di vivere per strada con la propria famiglia, italiana o straniera che sia.

L’urban divide

Nel loro programma internazionale sulle città UN Habitat, le Nazioni Unite avvertono che l’urban divide, il divario urbano che si sta creando tra la città ricca e quella povera è in aumento vertiginoso: 800 milioni di persone circa vivono negli slums (favelas, bidonville, baraccopoli).

Le città statunitensi hanno anticipato la forma della metropoli del futuro. Gli studiosi hanno capito che la crescita vertiginosa avrebbe portato intere porzioni di città ad essere ghetti di povertà, con centinaia di senza tetto e quartieri dediti alla malavita (Angotti 2009). Le cittá latinoamericane hanno mostrato una tendenza che poteva essere complementare o anche opposta: i ricchi si attrezzano sempre più per “rinchiudersi” nel benessere costruendo quartieri esclusivi e “gatted communities” (quartieri privati, blindati, chiusi con delle mura e sorvegliati 24 ore su 24) (Grimson: 2019) .

Nel resto delle cittá del mondo, si confermano entrambi i fenomeni ma non sono così evidenti o, meglio, non si vuole vederli e accettarli. Quello che generalmente non si racconta, quando si dice che la cittá è il futuro dell’umanitá, è che la chiusura di zone intere (e la decisione di condannarne altre al degrado e abbandono) induce le persone a sviluppare una forte convinzione che nella guerra tra benestanti e poveri tutto sia ammesso. In questo modo, si alzano notevolmente i livelli di violenza, mentre scende il rispetto per la vita di chi sta dall’altra parte della barricata. Nessun sofisticato sistema tecnologico sarà sufficiente a garantire la sicurezza, ovunque esisterà sempre un margine per superarlo. E quando questo accadrà, non ci sarà pietà, perché questi sistemi di segregazione urbana sono una dichiarazione di guerra fatta da chi “si vuole proteggere” a chi viene “escluso” (Rossal:2009).

La città europea moderna ha sempre vantato la sua sensibilità nell’evitare di emarginare le popolazioni e nel fare attenzione alla qualità della vita sociale pubblica, ambientale ed estetica dei territori urbani. Per questo ci si è tanto interrogati sul “diritto alla città” e le disuguaglianze sociali (Lefebre 1968). Negli ultimi decenni, però, la capacità di affrontare le disuguaglianze è diminuita e ora ci troviamo di fronte alla crescita di conflitti sociali dovuti in gran parte a un non riconoscimento della diversità culturale e alla marginalità urbana.

Di conseguenza, molti governi si affannano a mostrarsi fermi nel respingere l’immigrazione o nel chiudere le frontiere, piuttosto che nell’iniziare a studiare politiche e programmi per attenuare il disagio e la separazione sociale. In Europa, le città francesi e inglesi ne pagano i prezzi da tempo, come si è visto nelle banlieu parigine (Merklen:2009) e nei quartieri popolari londinesi (Dines&Cattell: 2006).

In Italia alcune città sono più virtuose che altre. A Roma gli ultimi veri interventi per ripensare le periferie in forma integrale risalgono agli anni ’90, con i progetti URBAN (Allegretti: 2004), e al 2002 con i Contratti di Quartiere. Nonostante questa immobilità nello sviluppo di politiche urbane, le periferie romane sono in permanente cambiamento e per l’urbanistica, per i governi e per la societá tutta è fondamentale osservarle con attenzione. Come segnalano Ilardi e Scandurra, guardare Roma è come osservare un’anticipazione dei mutamenti a livello nazionale. “Dalle borgate dei “ragazzi di vita” di Pasolini ai centri sociali occupati, dai territori abbandonati dei rave illegali al movimento ultras, fino, in questi anni 2000, alle tristi e sempre uguali aggregazioni abitative sorte intorno ai centri commerciali, le periferie romane hanno sempre lavorato come grandi laboratori di sperimentazioni culturali, come cantieri di nuove alchimie sociali, come formidabili macchinari che producono metropoli e i suoi potenti immaginari dove sono precipitati molto spesso i simboli dell’intera comunità nazionale” (Ilardi e Scandurra: 2009).

Se questo è vero, si può dire che le periferie di Roma, più di altri quartieri della città, stanno anticipando l’Italia che verrà. Per esempio con un’enorme ricchezza e pluralità culturale, con pezzi di città informale che rivendicano i diritti negati attraverso strategie di controllo e sospensione esplicita delle libertà – come avviene nei campi o nei centri di permanenza temporanea – ma anche con le popolazioni “storiche” ostaggio di un’immobilità politica e della perdita di capacità d’innescare processi locali di dialogo e costruzione di una nuova città. Purtroppo, le periferie romane sono anche i luoghi dove prende il sopravvento un nuovo sentimento nazionalista identitario. Si tratta di un sentimento che sta incubando molta violenza e una netta chiusura verso le migrazioni, è alimentato da movimenti xenophobi e razzisti come Forza Nuova.

Tor Sapienza e dintorni. La periferia est di Roma

Nella nostra presenza-ricerca-azione-vissuto, abbiamo visto come – nonostante questo sia stato all’inizio un quartiere operaio e una borgata con una scala spaziale e sociale a misura umana – Tor Sapienza sia poi diventata una “periferia d’enclave”, una periferia di frammenti che non riescono a interagire. Da qualche anno poi, i frammenti sono in permanente tensione e accendono conflitti che vanno verso la violenza vista in questi giorni, una violenza che purtroppo si respira anche nei gesti quotidiani degli uni verso gli altri.

Non è una storia recente. Quando la situazione si fa esplosiva, la politica prova a calmare gli animi con qualche sgombero fatto a caso, con una pulizia AMA di qualche giornata, oppure promettendo presidi militari. Non si guarda mai alle cause profonde, perché per farlo bisogna studiare la storia di queste periferie, capire quali sono stati i fattori che hanno portato le cose fino a far esplodere la rabbia e la voglia di farsi giustizia da soli. All’esasperazione, la parola che scelgono tanti di quelli che vivono lì, si somma l’ira di chi ne ha viste di tutti i colori. Tutti i partiti hanno attraversato questi territori, tutti hanno fatto promesse che servivano a spegnere incendi, nessuno ha cercato davvero di cambiare il volto di questi luoghi in modo progressivo e con una tempistica sensibile ai tempi di vita delle persone e ai cambiamenti sociali locali.

Nella storia di Tor Sapienza, abbiamo identificato almeno quattro tipologie d’insediamenti che illustrano la crescente separazione fisica e sociale delle popolazioni con difficoltá economiche e quella della popolazione migrata qui da altri continenti.

La prima è il quartiere originario, case basse e una fisonomia da piccola città, la seconda è quella dei “palazzoni” per gli ex- baraccati del centro di Roma costruiti negli anni ’70 e ´80, come il Complesso ATER Giorgio Morandi; la terza è quella delle strutture per le migrazioni o le popolazioni “temporanee” e “tollerate”, come i campi rom (per i profughi della guerra dei Balcani) costruiti negli anni ’90 o i Centri di Prima Accoglienza (CPA) per rifugiati e richiedenti di asilo, ricavati da edifici già esistenti negli anni 2000 e gestiti dalla Croce Rossa e da cooperative sociali; e infine la quarta, quella delle occupazioni per il diritto all’abitare, che costituiscono uno dei fenomeni più importanti e interessanti degli ultimi dieci anni a Roma.

Se la situazione attuale delle periferie italiane, e romane in particolare, rappresenta una sfida per la costruzione di una città equa, bisogna analizzare le conseguenze di questa stratigrafia di “enclave” (frammenti), costruite per le popolazioni disagiate e considerate in eccesso o di passaggio. Quasi tutti questi spazi si sono rivelati fallimentari (tranne le occupazioni spontanee, vedi ricerca Pidgin City Careri, Goni Mazzitelli :2012), sia dal punto di vista spaziale che sociale.

La raccolta di testimonianze di prima mano sul divenire urbano e socio-culturale di questa zona ci fa comprendere perché queste popolazioni non sono riuscite ad amalgamarsi e a continuare una tradizione di accoglienza di migranti, italiani e non, in questo territorio.

Nasce Tor Sapienza

La denominazione del quartiere Tor Sapienza trae origine dalla presenza di una torre, detta “la sapienza nuova”, sorta nel XII secolo e affidata agli studenti di Perugia, grazie alla disponibilità dell’arcivescovo di Fermo. Attualmente, ne rimane il basamento quasi irriconoscibile. Questa torre era un punto di passaggio noto per chi arrivava a Roma e faceva parte di una “cintura storica” di casali e torri medievali. Michele Testa, ferroviere molisano antifascista, viene considerato il fondatore di Tor Sapienza come nucleo urbano. In seguito ai contrasti con il regime, nei primi anni Venti del secolo scorso, creò la Cooperativa Tor Sapienza dell’Agro Romano, che realizzò 25 abitazioni, seguite subito dopo da un altro centinaio.
 Il quartiere nasce così: un piccolo agglomerato di case che si consolida nel 1923, quando la ferrovia costruisce una stazione per i treni, dandole la forma di borgata, ancora semiurbana. Negli anni ’60, anche a Tor Sapienza arriva il boom economico, con il trasferimento delle aree industriali dalla zona Ostiense verso la periferia est. Alcune delle fabbriche più importanti di Roma erano poste in quest’area della città. C’erano la Voxon, la Peroni, la Litograf e la Fiorucci. E con le fabbriche arriva l’immigrazione interna, soprattutto dal Sud ma anche dall’Umbria, dalle marche e da altre regioni.

Sono anni di un benessere diffuso, dove le differenze culturali tra Italiani provenienti da diverse regioni sono sanate dalla situazione economica favorevole e dalla crescita di un quartiere a misura umana. Tor Sapienza viene considerato un quartiere operaio e il Partito comunista sostiene battaglie per la creazione di luoghi da dedicare allo “svago” dopo le molte ore di pesante lavoro. Nelle foto d’epoca, si vedono i campi di bocce ma anche l’occupazione del casale dove ha sede il Centro culturale, ora municipale, Michele Testa.

Il valore fondamentale è il lavoro. Gli uomini mostrano orgogliosi le mani con i calli dopo il carico e lo scarico dei sampietrini che venivano prodotti in uno degli stabilimenti vicini. Ci sono poi i laboratori artigianali, che davano servizi a tutto il quartiere, si fa una vita “casa e bottega”: nell’organizzazione sociale della famiglia, gli uomini sono impegnati nei mestieri manuali e le donne restano a custodire le cucine e la casa. Questo periodo, o epoca “fondante” (Gravano :2003) è rimasto nella memoria e nella costruzione collettiva della cultura locale come quello dei momenti più felici di questa comunità. All’epoca, la diversa provenienza degli italiani che popolavano le campagne romane trasformandole poco a poco in città non era importante, tant’è che, a differenza che in altre regioni italiane, gli immigranti dal Sud venivano detti “meridionali” e non “terroni” come in altre grandi città del nord. Tutt’ora alcuni anziani, quando chiediamo loro da dove provengono, si presentano come “meridionali”.

Dopo l’epoca “d’oro” fondante, anche a Tor Sapienza arrivano le crisi. C’è quella del petrolio, poi la graduale chiusura delle fabbriche, che alla fine degli anni ’70 cominciano a ridurre il personale, fino a trasferirsi lentamente in altri luoghi oppure direttamente chiudere. Questa lenta agonia è stata piuttosto sofferta dalla popolazione che, in molti casi, ha dovuto trasferirsi inseguendo la ricerca di nuovi lavori. Così ci racconta un cittadino di 63 anni: “Le famiglie storiche del quartiere saranno rimaste una quindicina. Le coppie con figli, per la mancanza di case, sono andate verso la zona di Colle Prenestino. Il quartiere è stato sempre di classe media operaia con un po’ di media borghesia. C’era anche qualche ingegnere e qualcun altro con titoli di studio ma erano quasi tutti operai quelli che prendevano casa qui vicino al lavoro”. Con la chiusura delle fabbriche, e il primo abbandono della popolazione locale diretta verso altri luoghi della città, chiudono anche tanti negozi e il quartiere entra in una fase di depressione. “ Per la gente di Tor Sapienza, questi cambiamenti avevano creato un forte senso di delusione. C’è stato anche un calo nel senso della collaborazione alla polis, alla costruzione della città e alla vita politica”. (Intervista a Carlo Gori, di Tor Sapienza in Arte)

Si arriva così alla costruzione dei “palazzoni”, ovvero al complesso edilizio di case popolari Morandi, che verrà costruito di fronte al quartiere originale collegando quello che fino ad allora era un quasi-paese, isolato dalla città, a una crescente espansione urbana della Roma “moderna”. Anche come tipologia edilizia, l’impatto è notevole. Rispecchia gli interventi modernisti della tendenza dell’epoca a costruire alti palazzi per risparmiare cementificazione al territorio. Gli alloggi costruiti saranno dati agli ultimi baraccati della città (Pallotini&Modigliani 1997). Come ci racconta un operatore della associazione Antropos, che lavora nella mediazione sociale con giovani e bambini del comprensorio: “Queste sono case date a persone che vivevano negli ultimi residui di baracche degli anni ’70, venivano dalla stazione Prenestina e dagli scantinati del Porticciolo. Questa era una collinetta, e qui è stato realizzato il comprensorio: 504 appartamenti su questa collinetta. Se calcoli 4 persone a famiglia, hai più di un comune qua dentro”.

L’urbanista Bernardo Secchi segnalava così il grande fallimento di questa strategia volta ad affrontare la povertà: “Si era stati troppo superficiali a pensare di dare casa, senza fermarsi a capire che si stava raggruppando tutto il disagio sociale nelle periferie” . Chiaramente, questo significava anche la riattivazione dell’industria delle costruzioni con fondi pubblici. Non si tratta di un fenomeno isolato ma di una modalità ben nota per riattivare l’economia in tutto il mondo attraverso la costruzione di città, secondo le analisi di David Harvey (Harvey:2012). In questo modo, la città ha però aumentato le sue disuguaglianze sociali creando i primi ghetti “pianificati”, dove il “capitale sociale” a disposizione era sempre quello di famiglie che avevano difficoltà ad arrivare alla fine del mese.

Molti paesi europei hanno riconosciuto negli anni il grande errore commesso. Queste opere sono state duramente condannate, visti i pessimi risultati conseguiti nelle generazioni successive in tutta Europa. In alcuni casi, in Germania e Francia, sono state addirittura demolite. È sembrata quella la sola possibilità di disgregare le bande e la criminalità organizzata che si erano formate al loro interno.

Per l’area storica di Tor Sapienza, negli anni ‘70 e ‘80 il Morandi è stato un corpo estraneo intorno al quale creare una cultura di resistenza, o meglio di difesa. Un quartiere tradizionale dove il lavoro era stato il principale valore di coesione della comunità, vedeva emergere un comprensorio di case popolari con famiglie che vivevano di sostegni sociali dello stato, segnato da tassi di delinquenza crescente: un mondo con il quale sembrava impossibile poter dialogare. Anche all’interno del comprensorio, però, non mancavano certo le difficoltà: “In questa architettura, dici una parola e rimbomba ovunque, tutto è in comunicazione. Da ogni punto, puoi vedere tutto, sembra un carcere. Qui intorno non c’era niente, solo prati, quindi la sera i ragazzi si riunivano qua sotto, sulle panchine di cemento. Le persone che non volevano essere disturbate dal rumore hanno iniziato a metterci la colla e l’olio bruciato, il livello di conflittualità interno è diventato altissimo”. (operatore associazione Antropos).

Sotto i palazzoni erano stati creati dei negozi, come in tante altre banlieu europee. L’idea era di ricostruire la dimensione di un intero quartiere in un comprensorio di edilizia popolare. Intorno al complesso c’è la chiesa e ci sono le scuole, cosi come un parco pubblico. All’inizio in quell’area c’era anche una biblioteca comunale ma all’intervento urbanistico non sono state accompagnate politiche permanenti di sostegno economico. Le diverse attività pubbliche, cosi come i commercianti, sono state abbandonate subito al loro destino. Non appena chi gestiva quegli spazi ha capito che doveva fare i conti con la microcriminalità che si stava creando e con l’apertura di centri commerciali della grande distribuzione che schiacciava la possibilità di creare un’economia locale, tutti hanno chiuso lasciando la spina centrale abbandonata.

Negli anni ’90, malgrado le sperimentazioni di animazione sociale e culturale e gli sforzi di riqualificazione fisica del comprensorio avessero stimolato l’interesse dell’amministrazione comunale, gli interventi rimanevano settoriali, senza riuscire a disinnescare logiche di malavita e criminalità organizzata. Sono gli anni delle teorie del “broken windows”, ovvero il degrado chiama il degrado e la criminalità, visto che a quest’ultima conviene che tutto sia abbandonato e “minaccioso” per mantenere lontani i “curiosi” e poter portare avanti il proprio business. Come segnala Daniela De Leo nei suoi studi sulla criminalità organizzata a Napoli: “A ben guardare le forme più evidenti si coagulano in aree ben circoscritte sebbene l’estensione delle aree d’influenza cambi considerevolmente da zona a zona, per un gran numero di variabili nelle quali il potere criminale è esplicito e visibile, cosi come lo sono le forme consentite di “microdevianza”. (De Leo: 2008)

A Roma, per dare risposta alla consapevolezza di avere sacche di povertà dove si stava creando una criminalità organizzata, negli anni ’90 si mettono in atto costosi programmi europei di rigenerazione urbana come gli URBAN. Il tentativo è di combattere la violenza mediante la lotta al degrado fisico e il coinvolgimento della comunità. In particolare, si sviluppano a Tor Bella Monaca ma, a parte pochi isolati miglioramenti, la mancanza di diversità sociale e culturale e la discontinuità degli interventi, ripropone oggi una situazione complessa di degrado generalizzato. La spina centrale del Morandi, abbandonata dai negozianti, è stata occupata a metà degli anni 2000 da famiglie in emergenza abitativa del Movimento di lotta per la casa.

Sono trascorsi quarant’anni e i quartieri, Tor Sapienza I e Tor Sapienza II (così viene chiamato il Complesso Morandi), non si sono ancora accettati. “In questi anni si è provato a riannodare questa catena di relazione tra i due pezzi di quartiere che prima si annusavano e si sopportavano con estrema diffidenza, ma la crisi ci ha riportato alla situazione di desolazione iniziale”. (operatore associazione Antropos).

A questi fenomeni prodotti nei complessi di edilizia popolare delle periferie, che rappresentano lo sviluppo urbano scelto negli anni ’70 dalle grande città europee per fare fronte alla povertá, si aggiunge nuova complessità con l’arrivo dell’immigrazione globale. Nel caso di Tor Sapienza, vengono identificati come prime migrazioni importanti quelle provenienti dall’est europeo, con gli Albanesi e i Romeni. Dalle testimonianze si evince che all’inizio questi lavoratori riescono a inserirsi nel tessuto urbano tradizionale. Poi però, crescendone il numero e con la comparsa delle prime “emergenze umanitarie” dovute alla guerra dei Balcani, si decide di creare strutture ad hoc; sono i campi rom, che verranno regolarizzati in tutta Italia dalle leggi regionali.

“All’inizio sono arrivati i Rumeni che si sono istallati negli appartamenti, durante gli anni ’80 e ‘90. Gli uomini lavorano come muratori, le donne come colf e badanti, ma anche nelle imprese di pulizia. Verso di loro c’è sempre stata una tolleranza, ancora oggi vivono in piccole case nei vicoli interni del quartiere storico. La chiesa ha aiutato la loro integrazione offrendo anche, in alcuni momenti di particolare necessità, viveri e denaro per le bollette della luce e del gas” (cittadino di Tor Sapienza). Grazie alle ricerche del professor Marco Brazzoduro, possiamo ricostruire la storia del graduale arrivo dei Rom in quest’area.

Campo della Martora

I primi segnali dell’arrivo dei Rom sono gli insediamenti informali, avvenuti prima dagli anni ’90, che dopo si trasformano in un campo tollerato detto “della Martora”. “Vi si sono insediati da almeno 30 anni dei Rom appartenenti alla comunità dei Rudara, di cittadinanza jugoslava. Negli anni ’90 fu devastato da un furioso incendio, tanto che parte dei suoi abitanti furono generosamente accolti in una scuola del municipio (era luglio). Il campo venne poi ristrutturato e ai suoi abitanti furono assegnate delle roulotte. Negli ultimi anni, il campo si era notevolmente espanso con l’arrivo di molti Rom romeni che vi avevano insediato poverissime baracche. Il 5 luglio 2007 è stato oggetto di un’operazione di polizia che ha espulso tutti i residenti non inclusi nel censimento. Nel novembre dello stesso anno, in seguito allo sgombero degli insediamenti di Ponte Mammolo sulle rive dell’Aniene, cinque famiglie con 70 persone vi sono state trasferite. I residenti erano diventati 350”(Brazzoduro:2011). Il campo è stato sgomberato definitivamente nel 2010, come previsto dal Piano Nomadi, molti dei residenti sono stati trasferiti a Castel Romano.

A metà degli anni ’90 si crea il campo Salviati I. Nel quartiere raccontano che all’inizio l’integrazione è stata pacifica, i bambini frequentavano le scuole del quartiere e gli adulti lavoravano e interagivano con il territorio. Con la creazione di Salviati II, alla fine degli anni ’90, iniziano a verificarsi seri problemi di convivenza. Negli anni 2000, nella stessa area, si arrivano a registrare circa 800 Rom, tra Martora, Salviati I, II e gli altri insediamenti informali vicini.

“Il Salviati è stato installato nel 1995 ed è il primo campo dotato di servizi comuni e centralizzati. Accoglie una piccola comunità di Rom Rudara che prima abitava sulle sponde dell’Aniene. I Rudara presenti a Roma provengono quasi tutti dalla città serba di Kraguievac, dove c’era un impianto Fiat per la produzione di automobili. Molti Rom del campo erano stati assunti proprio come operai Fiat. Gran parte dei Rom è in Italia da circa quarant’anni e quindi parla l’italiano correntemente. In Italia sono nate anche le seconde e le terze generazioni. Praticano commerci vari, vendono fiori la sera nel centro di Roma, qualche donna fa la badante, diversi suonano e cantano in matrimoni e ricorrenze varie ma anche sulle metropolitane e gli autobus.

Alla fine degli anni ’90, viene inaugurato il campo di Salviati II, il primo di una nuova generazione. Infatti, è stato il primo ad essere attrezzato con container dotati di bagno interno, angolo cottura, stufa a legna, corrente elettrica, acqua corrente calda e fredda. Il campo occupa un’area contigua alla linea ferroviaria dell’alta velocità Roma-Napoli, prima adibita a deposito giudiziario, ed era composto di 45 container di 33 mq ciascuno. Salvo i primi tre, assegnati a Rudara, parenti della comunità contigua di Salviati I, gli altri accolgono una comunità di Xoraxanè trasferiti dal campo di Casilino 700 quando ne è stato deciso lo smantellamento. In origine, il Salviati II accoglieva 273 persone con una media di sei individui per container equivalenti a 5 mq procapite.

Dato l’elevato tasso di natalità – ogni anno nascono da dieci a venti bambini – l’affollamento è altissimo, tanto che quasi ogni famiglia ha costruito un’estensione del container per migliorare una difficile condizione. I Xoraxanè del campo provengono tutti dalla Bosnia e dal Montenegro, da dove sono fuggiti all’inizio degli anni ’90 quando le loro terre sono state devastate dalla guerra civile. I Rom, non riconoscendosi in alcuna delle due fazioni in lotta, hanno preferito abbandonare tutto e fuggire precipitosamente anche senza documenti. Vista la tragica situazione, i Paesi dell’UE hanno deciso di rilasciare a questi profughi un permesso di soggiorno umanitario, poi, a guerra finita e a pacificazione conseguita, i titolari sono stati invitati a trasformare in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. L’attività economica prevalente di questa comunità è quella della compravendita di rottami metallici; altre attività praticate sono quella della pulizia delle cantine, dei piccoli trasporti e del commercio di oggettistica di cui si muniscono frugando nei cassonetti della spazzatura. Alcuni fanno i meccanici, attività nella quale eccellono, anche perché usando per lavoro furgoni molto malridotti sono costretti a continue riparazioni”. (Brazzoduro:2011)

Insediamenti informali

Abbiamo rilevato infine molti insediamenti informali sparsi in tutta la zona. È un fenomeno diffuso tra i Rom ma non solo, anche tra chi non trova soluzioni abitative e spesso scappa dalle strutture inadeguate dei campi e dai centri di raccolta e accoglienza. Uno dei piú segnati da conflitti si trova di fronte al Moranti, nel cosiddetto canalone all’interno del prato. Si sgombera e si ricrea con una velocitá incredibile. Come spiega l’Associazione 21 Luglio, queste forme dell’abitare sono diffuse in tutta Europa: “Consistono in piccoli o piccolissimi insediamenti, sono per lo più abitati da famiglie di Rom comunitari provenienti dalla Romania, che hanno subìto diversi sgomberi forzati nel corso degli ultimi anni”.

Negli ultimi due anni, un grande centro di prima accoglienza per i rifugiati politici, gestito dalla Croce Rossa italiana, viene insediato nel complesso Morandi a Tor Sapienza. Una nuova sfida per la complessità di una già molto difficile convivenza nel territorio.
 Il centro di prima accoglienza A.M.I.C.I. (accogliere, mediare, informare, curare, integrare) è gestito dall’Università cattolica del Sacro Cuore e dalla Croce rossa italiana. Tra i suoi obiettivi dichiara di offrire “assistenza ai soggetti vulnerabili che hanno richiesto asilo in altri paesi europei, o che sono già titolari di protezione internazionale, ma che vengono trasferiti in Italia in applicazione del Regolamento di Dublino. È a queste persone che il Centro A.M.I.C.I. vuole garantire un inserimento socio-economico veloce ed effettivo assicurando loro la tutela dei diritti fondamentali (sanitari e giuridici) e la mediazione con le istituzioni competenti. L’intervento dell’Università Cattolica ha anche scopi di ricerca: mira a evidenziare le criticità del sistema di accoglienza internazionale, e a studiare la vulnerabilità per ridurre i fattori che la cronicizzano facendola trasformare in effettivo disturbo psichico. Il Centro è pronto ad assistere almeno 200 richiedenti/titolari di protezione internazionale vulnerabili, in particolare donne e minori, che rispondono alla categoria di “Dublino di rientro”, attraverso un’azione che si snoda lungo tre macro aree: la tutela della salute e della vulnerabilità; le procedure legali; la mediazione sociale e l’integrazione”.

Il principale problema derivante dal centro di prima accoglienza oggetto delle proteste e degli attacchi di questi giorni è stato quello di riversare un’elevata quantità di persone nello stesso momento, quasi tutti giovani maschi, nel quartiere di Tor Sapienza. Sebbene il programma miri ad occupare i giovani con lavori e formazione, le testimonianze degli abitanti del quartiere parlano di una vera e propria “invasione” degli spazi pubblici: il parco Barone Rampante, le strade, i bar, ecc. La città, in questo caso, come segnala Giorgio Agamben, viene usata come uno spazio di “sospensione”, senza capire bene “verso” dove si sta andando. Inoltre, come raccontano le nostre interviste, la diversità religiosa, linguistica e delle abitudini spaventa le persone del quartiere, che si sentono ulteriormente minacciate da “ondate” massicce di facce nuove.

Dal 2000 ad oggi, alla realtà che abbiamo visto si sono aggiunte le occupazioni abitative, una risposta ormai piuttosto diffusa a quella “emergenza casa” causata dai prezzi raggiunti dal mercato privato e dalla mancanza di risposte istituzionali: le liste e le graduatorie delle case popolari sono bloccate da anni. Le occupazioni assorbono un doppio fenomeno sociale, da una parte la povertà urbana e dall’altra la mancanza di programmi abitativi per le migrazioni. Le popolazioni immigrate affrontano questa mancanza di soluzioni abitative da molti anni, ma le grandi ondate migratorie degli anni 2000 trovano completamente impreparati governi e servizi locali. Questo significa che gli immigrati non trovano alcun riconoscimento né giuridico ne sul piano dei diritti, devono quindi arrangiarsi per sopravvivere e dare un tetto alle proprie famiglie. I governi locali lo sanno e per questo fanno “accordi” con le occupazioni che riducono il danno consentendo di dare una residenza ad abitanti che possono in questo modo mandare i figli a scuola e usufruire della sanità e dei sostegni pubblici.
 A tutto ciò, si aggiunge l’impoverimento di intere fasce della popolazione italiana e straniera (ma radicata da anni in Italia), che perdono il lavoro e non riescono a pagare gli affitti “gonfiati” da un mercato immobiliare speculativo (Sebastianelli: 2009).

A Tor Sapienza ci soffermeremo, a titolo esemplificativo, su una sola occupazione abitativa particolare. Va precisato, tuttavia, che, con il perdurare della crisi che colpisce in modo tanto pesante le famiglie italiane e straniere, negli ultimi tre anni le occupazioni abitative nella zona est di Roma sono triplicate.

Nel 2009 alcune famiglie senza residenza occupano una fabbrica abbandonata da anni, la ex Fiorucci. Hanno origini italiane, eritree, marocchine, peruviane e di altre nazionalità. Danno all’occupazione il nome di Metropoliz, “la città meticcia”, per la diversità di etnie e culture che si registra al suo interno. È un’occupazione piuttosto particolare, anche perché mette in luce molti dei temi chiave utili a comprendere il senso di queste forme di lotta: il riuso degli immobili abbandonati attraverso l’auto-recupero e l’auto-costruzione con finalità abitativa, il riuso del patrimonio industriale dismesso (in questo caso è un patrimonio privato ma invita a riflettere anche sulle potenzialità di quello pubblico), la concentrazione nelle aree con servizi e uno stop al consumo di suolo. Tutti temi che i movimenti di lotta per il diritto alla casa e all’abitare di Roma hanno sollevato negli ultimi anni, sia in forma teorica che pratica. Questa è inoltre la prima occupazione romana che, con il sostegno degli attivisti dei Blocchi precari metropolitani (Bpm) e dell’Associazione Popica Onlus, è disposta ad accogliere i Rom che rifiutano di andare nei campi. Così, queste famiglie rom iniziano un lungo percorso di convivenza e vita in comunità.

Le famiglie che entrano nella ex fabbrica sono novanta, in prevalenza sono composte di immigrati. Vengono da Perù, Sudan, Eritrea, Marocco, Romania e altri paesi. In un secondo momento, come detto, si aggiunge una comunità rom che, sgomberata dal Canalone di Centocelle, rifiuta le sistemazioni offerte dal Comune: andare nei campi o nei residence (Goni Mazzitelli & Broccia: 2011). A Metropoliz inizia un lungo percorso di auto-recupero della fabbrica per ricavare abitazioni dagli enormi spazi in disuso da anni. L’Università di Roma Tre, con vari corsi di architettura, sostiene queste sperimentazioni, si crea inoltre un movimento urbano di sostegno a questo spazio grazie alla visibilità che diversi artisti, riuniti nel MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, danno all’avventura delle famiglie occupanti.

Nonostante la visibilità acquisita a livello cittadino, nel quartiere si crea un malessere dovuto alla “disinformazione” e alla mancanza d’intermediazione da parte di figure di governo capaci di aprire canali di comunicazione tra le diverse realtà e le famiglie all’interno. Negli anni successivi, nella periferia est sono stati occupati altri palazzi dai movimenti per il diritto alla casa, il fenomeno ha continuato a crescere e sono nate polemiche sulla legittimità delle occupazioni e la loro “illegalità”. Nel frattempo, le famiglie hanno trovato un tetto e i bambini riescono a fare vite… quasi normali, lasciando per un momento da parte la minaccia ossessiva di potersi svegliare ogni giorno circondati da forze dell’ordine che impongono uno sgombero.

Un quartiere frammentato

In tutte le tipologie citate, dai palazzoni ai campi rom, dal centro di prima accoglienza alle occupazioni, le istituzioni hanno considerato queste popolazioni di passaggio, temporanee, tollerate, informali e, soprattutto, problematiche. Quasi tutte le situazioni descritte si sono invece dimostrate permanenti, perché non rispondevano veramente a realtà di passaggio (tranne il centro di prima accoglienza) ma a soluzioni abitative di fortuna che, in mancanza di politiche per la casa, sono diventate soluzioni finali.

La ricerca etnografica ha permesso di comprendere questa complessità derivante da una popolazione eterogenea e da barriere altissime tra popolazione immigrata e residenti originari. Le permanenti trasformazioni con famiglie immigrate che s’insediano nel tessuto locale – negozi cinesi, ristoranti di kebab, fruttivendoli indiani, banchi del mercato egiziani, ecc., presenze ormai frequenti in ogni metropoli del mondo – colgono di sorpresa una periferia che per decenni è stata invece omogenea e a prevalenza italiana. Sebbene l’insediamento di queste nuove popolazioni sia un fenomeno decennale, certo non ha avuto adeguata risposta da parte delle istituzioni. È evidente la mancanza di mediazione culturale e di strutture di prossimità con dispositivi adatti a favorire lo scambio culturale e la costruzione di convivenza.

Per questo la sfida dei programmi urbani e sociali oggi è doppia. Da una parte bisogna puntare ad ascoltare e a comprendere le nuove popolazioni non partendo più dal presupposto che siano transitorie ma fornendo loro gli strumenti utili a radicarsi nel tessuto urbano romano e a “liberare” le loro risorse a favore della comunità. Grazie alla collaborazione dei centri culturali municipali e al volontariato (i centri non ricevono fondi dai municipi), in questi ultimi tre anni le famiglie delle occupazioni hanno pulito terre abbandonate, creato orti didattici, offerto cene ispirate alla loro cucina tradizionale al quartiere, animato il carnevale e le feste con i loro abiti e le loro musiche. Quando uno spazio, seppur piccolissimo, viene aperto, questa gente lo occupa con piacere e intelligenza. Purtroppo i progetti che l’hanno consentito non sono permanenti, uno o due anni non sono certo sufficienti a fare il lavoro culturale in profondità che sarebbe necessario – soprattutto in questi anni di crisi – ad affrontare in modo efficace i problemi della convivenza e a prevenire i conflitti più sterili e pericolosi.

Dall’altra parte, è fondamentale comprendere il profondo cambiamento spaziale e socioculturale avvenuto in questi territori negli ultimi trent’anni. La mancata pianificazione territoriale ha creato barriere fisiche e simboliche tra una popolazione e l’altra, con il conseguente abbandono degli spazi di “confine”, cioè degli spazi pubblici, dove ora spesso si ha paura d’incontrare la diversità, l’altro.

Le barriere urbanistiche dell’area del Morandi, situato, come si diceva, su una collina, la mancanza di marciapiedi in tutta l’area intorno a Tor Sapienza, il cattivo funzionamento dell’illuminazione pubblica e l’abbandono di strutture come la stazione di Tor Sapienza, fanno crescere il senso d’insicurezza. Ci viene riferito dai vicini che le ragazze non escono la sera, se non con i fratelli o con altri familiari ma anche dei ragazzi giovani dicono che devono uscire in gruppo, altrimenti vengono derubati in continuazione. La segregazione fisica e la “marginalità” urbana si stanno sedimentando, ormai si possono contare generazioni intere con tanto di nonni, genitori e figli che nascono in queste strutture e in queste condizioni. Si comincia a interiorizzare la convinzione che quello è il posto che è stato “loro” assegnato nell’organizzazione sociale e tale deve restare.

I fenomeni di auto-esclusione sono fortissimi. Eppure le testimonianze che abbiamo raccolto mostrano tutto il timore ma anche il fascino delle bambine e dei ragazzi rom nell’entrare in un luogo pubblico del quartiere e riappropriarsi del diritto a “vivere la città”. Sono la prova evidente della sfida da lanciare per ritessere spazi e relazioni spezzati da tanti anni tra queste comunità.

L’immaginario urbano del quartiere

Il ruolo della stampa nella comunicazione ha sostituito gradualmente il dialogo locale. È un fatto molto pericoloso, perché riporta una dimensione negativa della convivenza culturale con gli immigrati, rafforzata notevolmente dall’uso dei socialmedia (facebook e altri). Prima dell’esplosione del “caso” Tor Sapienza, abbiamo raccolto le notizie nei giornali su quest’area. Si tratta quasi solo di notizie di cronaca: prostituzione, spaccio di droga, omicidi, aggressioni e furti nelle case o di automobili. Se si prova ad analizzare i protagonisti di questi reati per comprenderne la composizione sociale e fare luce su uno dei problemi delle periferie si scopre, ad esempio, una sostanziale parità tra italiani e immigrati regolari. Lo conferma Franco Pittau nel dossier dell’UNAR, che sottolinea come non siano gli immigrati ma la povertà e la mancanza di politiche occupazionali che danno il via alla crescita di organizzazioni criminali: “A far lievitare il numero delle denunce è la criminalità organizzata, attiva ormai anche su base etnica e pronta ad assoldare la manovalanza tra gli immigrati irregolari e a stringere un rapporto di collaborazione con le organizzazioni malavitose italiane, collocate ai livelli più alti”. Pittau dice con chiarezza che in base agli studi antimafia “… non risulta statisticamente fondato etichettare gli immigrati come più delinquenti degli italiani”.

Un’analisi dei problemi e delle contraddizioni presenti condotta dalle istituzioni insieme ai cittadini avrebbe potuto probabilmente contrastare “la propensione a considerare gli immigrati più un pericolo dal quale difendersi che dei soggetti da tutelare. Spinge in tal senso anche il clima d’insicurezza, acuito dal contrasto tra la popolazione italiana soggetta ad invecchiamento e diminuzione e quella straniera più giovane e in forte crescita” (Pittau:2013).

Negli anni ’90 e all’inizio del 2000, Roma ha avuto per un periodo la consapevolezza del bisogno di capire le cause profonde dei problemi sociali. Ha scelto dunque di non delegare a una gestione repressiva, di polizia, il tema della convivenza e sono stati promossi progetti di mediazione sociale e di sicurezza urbana nel Forum europeo per la sicurezza. Si è prestata attenzione soprattutto alla qualità della convivenza e delle relazioni delle persone, in particolare nelle periferie. Come segnalano Leonardo Carocci e Antonio Antolini, dopo il loro lavoro decennale nelle periferie romane “di fronte all’acutizzarsi dei conflitti locali, delle tensioni relative ai problemi dell’immigrazione, all’aumento della povertà, alla distruzione e al degrado dell’ambiente locale e urbano (…) Nella dicitura politiche di sicurezza urbana, attualmente possono essere comprese una serie di prassi di integrazione sociale, di community care, di empowerment, di mediazione dei conflitti, di progettazione partecipata, di ricerca di strumenti atti a favorire l’integrazione, il confronto sociale e il dialogo tra cittadini e istituzioni per migliorare le condizioni ambientali” (Antolini & Carocci: 2007).

I loro ragionamenti sembrano molto attuali in quanto si richiamano al bisogno di confronto, di dialogo e di pianificazione strategica a livello locale. Dobbiamo accrescere le opportunità per le persone che vivono la marginalità urbana, piuttosto che reprimerle. Allora, dopo vent’anni di una periferia segnata dai grandi palazzi di edilizia sociale, si valutavano gli effetti nefasti per i residenti. Si metteva in prima linea la necessità di ridare un’identità positiva, e delle opportunità, a queste popolazioni. Purtroppo idee e interventi molto interessanti come questi hanno anche bisogno di poter sedimentare, hanno bisogno di continuità, mentre a Roma sono stati cancellati a causa dell’alternanza politica e della mancanza di visione strategica. La mancata continuità delle politiche pubbliche s’è trascinata nel tempo, tra scelte arbitrarie che spazzano decenni di sperimentazioni virtuose, comitati volenterosi o anche famiglie che timidamente si mettono in gioco per poi ritornare in silenzio nel proprio campo rom, o nel proprio insediamento abusivo, appena si capisce che non “tira più aria di tolleranza”.

Mentre a Roma muore la consapevolezza del bisogno di un salto di qualità nelle politiche sociali, a Torino, nasce una buona pratica che ci sembra meriti di essere segnalata. Si chiamano Case di quartiere e considerano soprattutto la dimensione culturale ed artistica, visto che è centrale nelle attuali dinamiche di superamento del degrado, delle discriminazioni e delle disparità.

Le Case di quartiere ospitano iniziative diverse e promuovono un livello di co-progettazione con il governo della città orientato alla convivenza pluriculturale e al rafforzamento delle capacità locali di analisi della realtà e delle reti di soggetti che promuovono azioni concrete. Segnano un passaggio rivoluzionario nel pensare i sistemi di welfare: l’investimento pubblico innesca una collaborazione e aiuta a “liberare” le energie delle persone per migliorare la vita quotidiana del proprio territorio. Queste nuove modalità di intendere gli investimenti sociali sono riconducibili a un nuovo paradigma: la costruzione di territori resilienti dove i luoghi di confronto sono centrali.

In alcune città, come a Torino, si è creata una consapevolezza diffusa del bisogno di portare avanti politiche di comunità rivolte alla creazione di reti territoriali di accoglienza, che riescano a mitigare il disagio e a “liberare” energie e risorse locali. Il segreto di Torino è accumulare in forma virtuosa gli investimenti ricevuti dalla città e dai programmi europei, accrescere le attrezzature dei territori più disagiati, sperimentare nuove azioni che daranno risultati visibili non in una legislatura ma quando diventeranno prassi e cultura diffusa, almeno dieci anni dopo.

*Antropologa Dipartimento di Architettura Università degli Studi Roma Tre Laboratorio arti civiche