Guerre in Africa e “minerali clandestini”: l’Europa si assuma le proprie responsabilità

Giampaolo Petrucci
Adista Notizie n. 45 del 20/12/2014

«Il legame tra risorse naturali e conflitti è presente circa nel 20% dei quasi 400 conflitti in corso nel mondo e in Africa almeno 33 conflitti hanno origine nel commercio delle risorse minerarie. Si tratta, in particolare, di quattro minerali, oro, tungsteno, stagno e coltan, utilizzati in una vasta gamma di settori industriali e commerciali, tra cui quelli dell’elettronica e dell’aerospaziale». A denunciarlo, la Campagna internazionale per la tracciabilità delle materie prime provenienti da territori in conflitto – “Minerali clandestini” – lanciata su Change.org da Solidarietà e Cooperazione Cipsi, Chiama l’Africa e Rete pace per il Congo, il gruppo italiano di missionari, missionarie e laici che hanno vissuto in Repubblica Democratica del Congo (www.paceperilcongo.it) e che da anni indica nell’estrazione e commercio delle risorse del suo sottosuolo la principale causa d’instabilità nell’est del Congo.

Nella lettera che accompagna l’iniziativa, indirizzata ai parlamentari Ue e alla Commissione europea, i promotori dell’iniziativa ricordano che «l’esportazione dei minerali dai Paesi africani, così come è organizzata, provoca impoverimento sociale e del territorio, danni ambientali, e spesso insicurezza e guerre». L’Europa considera l’Africa come una «riserva di materie prime», necessarie all’industria, soprattutto informatica, e funzionali alle economie occidentali investite dalla crisi. Ma la comunità internazionale ha anche «grosse responsabilità perché, pur conoscendole, diffonde scarse notizie sui conflitti che hanno come causa l’estrazione ed il commercio dei minerali, in particolare quelli necessari per le produzioni tecnologiche». Notizie “scomode”, relative ad esempio agli scambi illegali di minerali, alla violazione dei diritti dei lavoratori, al commercio di armi che vanno a foraggiare gruppi e movimenti senza scrupoli. Il prezzo poi lo pagano gli africani, che vivono quotidianamente guerre e insicurezza esistenziale.

Lo scorso 5 marzo, l’allora alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue, Catherine Ashton, insieme all’allora commissario per il Commercio, Karel De Gucht, hanno elaborato una proposta di regolamentazione per il commercio di minerali provenienti da zone di conflitto fondata su due principi cardine: da un lato «agevolare le aziende che desiderano procurarsi i minerali in modo responsabile»; dall’altro, «incoraggiare il commercio lecito», attraverso un meccanismo d’autocertificazione con cui gli importatori europei di materie prime, «su base volontaria», potranno rendere conto di tutte le misure che hanno messo in campo «per individuare, prevenire ed evitare il rischio che il commercio dei minerali contribuisca a finanziare le attività di qualsiasi gruppo armato». Una mossa dettata dall’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica europea su questi temi e dalla pressione di numerose organizzazioni della società civile e religiosa, ma anche dal fatto che l’Africa si pone come un mercato in espansione molto appetibile per le economie europee che intendono tornare a crescere.

Ma questa proposta di regolamento appare «insufficiente» ai promotori della Campagna “Minerali clandestini” che agli europarlamentari e alla Commissione chiedono di «sostituire lo schema di autocertificazione volontaria con un regime obbligatorio per le imprese»; «di ampliare il campo d’applicazione delle imprese coperte dal progetto, finora limitato agli importatori, alle fonderie e alle raffinerie, per potervi includere le principali società che commercializzano in Europa i 3T (acronimo inglese per stagno, tungsteno e tantalio, ndr) e l’oro sotto forma di prodotti finiti (end-users)»; infine, «di approvare e rendere operativo il regolamento nei tempi più rapidi possibili».

Intanto, buone notizie dal Belpaese. Il 4 dicembre scorso, la Commissione Politiche dell’Unione Europea al Senato ha approvato il parere sulla proposta di regolamento Ue. «Il parere approvato riconosce la necessità di rendere obbligatoria la certificazione della catena di approvvigionamento dei minerali provenienti da zone di conflitto, di includere anche altre tipologie di risorse naturali e di estendere il campo di applicazione, coinvolgendo le imprese che commercializzano prodotti finiti», ha annunciato la senatrice Pd Silvana Amati, che ha accolto con favore le indicazioni della Campagna “Minerali clandestini” sollecitando i colleghi in Commissione.

Già nel mese di ottobre, 70 vescovi di tutto il mondo – tra cui Pedro Casaldáliga, Cláudio Hummes, Erwin Kräutler, Luigi Infanti De La Mora, Luís Flávio Cappio, André-Joseph Léonard, Alvaro Ramazzini, Stephen Brislin, Alexio Churu Muchabaiwa, Miguel Ángel Olaverri Arroniz, François-Xavier Maroy Rusengo – avevano firmato un documento diffuso dal Cidse (rete di 17 ong cattoliche europee e nordamericane) in cui chiedevano all’Europa una stretta sul regolamento, per arrestare la complicità delle imprese europee importatrici di materie prime nei conflitti nel Sud del mondo (v. Adista Notizie n. 42/14). In occasione del lancio del documento, mons. Maroy Rusengo, arcivescovo di Bukavu (capoluogo del Kivu meridionale, provincia dell’est della Repubblica Democratica del Congo) e promotore della Commissione episcopale per le risorse naturali (Cern) aveva dichiarato: «I consumatori dell’Unione europea chiedono garanzie che i materiali usati per i loro cellulari, pc e macchinari non siano legati alle violazioni dei diritti umani». Proprio dalle province del Kivu proviene circa l’80% del coltan necessario per la produzione dei microprocessori di smartphone, tablet e pc. E proprio quella materia prima ha foraggiato i più sanguinari movimenti ribelli della regione. L’Europa, ha chiesto il vescovo, «sia promotrice coerente di pace anche fuori dai suoi confini», e collabori affinché le risorse del sottosuolo «non siano più combustibile per i conflitti, ma piuttosto un contributo alla nostra prosperità».