Le ingiustizie degli 80 euro

Chiara-Saraceno
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Il governo ha ribadito che gli ottanta euro di sconto fiscale non saranno estesi ai pensionati a basso reddito. Non si tratta della maggiore delle ingiustizie prodotte da questa misura. Anche accettando la logica del provvedimento che mira a sostenere il reddito dei lavoratori a basso salario – quindi non di tutti coloro che sono a reddito modesto, né dei poveri in generale – ce ne sono altre.

La prima riguarda l’esclusione, a parità di reddito, di tutti i lavoratori non (formalmente) dipendenti: lavoratori autonomi, co.co.pro, partite iva e così via. Certo, il rischio è che tra questi si nascondano evasori fiscali (ma anche molti secondi lavori di lavoratori dipendenti evadono il fisco). Le difficoltà di accertamento fiscale, tuttavia, non possono essere sistematicamente utilizzate per considerare cittadini di serie b lavoratori spesso costretti a subire forme di rapporto di lavoro finto autonomo (si pensi alle partite IVA imposte persino in settori che le rendono altamente improbabili, come l’edilizia), o ai lavoratori autonomi “veri” che faticano a tirare avanti. Si tratta di una esclusione tanto più inaccettabile quanto più il lavoro autonomo, il diventare “imprenditori di se stessi”, è proposto – specie ai giovani, ma anche alle donne di ogni età – anche nelle politiche pubbliche, come un modo per aggirare le rigidità del mercato del lavoro.

La seconda ingiustizia rappresenta anche una contraddizione interna alla stessa restrizione dello sconto fiscale ai soli lavoratori dipendenti. Sono infatti esclusi, come sempre capita in Italia ogni volta che si utilizza lo strumento delle detrazioni fiscali, i lavoratori dipendenti fiscalmente incapienti, che hanno cioè un reddito è così basso che non solo non è fiscalmente imponibile, ma, proprio per questo, non può assorbire, o può farlo solo parzialmente, la detrazione fiscale. Vale per le detrazioni per i famigliari a carico, per gli oneri deducibili e così via, ed ora anche per gli ottanta euro. Rimanendo nella logica della misura, si tratta dei lavoratori dipendenti teoricamente “più meritevoli” di beneficiarne, il target principale. Invece ne sono esclusi perché, così le dichiarazioni del governo, non ci sono fondi sufficienti per introdurre una imposta negativa, ovvero per dare loro l’equivalente di ciò che si sconta sull’imposta che altrimenti i loro colleghi, a basso reddito, ma sufficiente per essere capiente, dovrebbero pagare.

L’imposta negativa è stata inventata da molto tempo ed è utilizzata in diversi paesi (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, per indicare alcuni) proprio per sostenere il reddito vuoi dei lavoratori a basso salario, vuoi dei lavoratori poveri su base famigliare. In Italia è una questione che viene periodicamente sollevata ogni volta che si introduce una qualche forma di detrazione o deduzione fiscale, specie se basata sul reddito, ma solo per decidere che non si può fare, che è troppo complicato, o che non ci sono i soldi, con il risultato che si risparmia sempre a carico dei più poveri.

A proposito, ormai alla fine del semestre italiano e alla vigilia della mid-term review della strategia Europa 2020 ci ricordiamo che uno degli obiettivi di questa strategia è la riduzione del 25% dei poveri? A seguito della crisi e delle politiche dell’austerità la povertà, non solo in Italia, è aumentata invece di diminuire. Sarebbe opportuno che almeno le poche, frammentate e un po’ casuali politiche redistributive (si pensi da ultimo alla confusione e ai cambi di rotta attorno al bonus bebé, ed all’ennesima limitata sperimentazione della nuova carta acquisti per alcune categorie di poveri) evitassero di discriminare negativamente i poveri.