Sacerdozio femminile? No, grazie di M.Furlani
Casimira Furlani (detta Mira)
Cdb Isolotto – Firenze
“Apriamo la Chiesa alle donne sacerdote”, così s’intitola l’intervista di Simonetta Fiori a Padre d’Ors, per conto del quotidiano Repubblica, pubblicata il 12 novembre scorso sul sito della Libreria delle donne di Milano e successivamente nelle news del sito cdbitalia. Chi è Padre d’Ors? E’ un prete spagnolo, chiamato da papa Francesco al Pontificio Consiglio della Cultura con l’incarico di presentare una relazione, insieme ad altri trenta consiglieri, sul ruolo della donna nella Chiesa. Alla domanda se è favorevole all’apertura del sacerdozio alle donne egli ha risposto: Assolutamente sì … Che la donna non possa essere prete per il fatto che Gesù era un uomo e che avesse scelto solo uomini è un argomento molto debole. E’ una ragione culturale, non metafisica”.
La sua posizione può sembrare avanzata, invece, a mio avviso, é ingannevole. Egli auspica che si conceda alle donne una investitura sacrale storicamente ideata e culturalmente imposta da una istituzione tutta al maschile. Che cosa significa aprire la Chiesa alle donne sacerdote? Significa poter entrarci alle condizioni date, quindi omologarsi in tutto e per tutto al maschile? Significa supplire alla carenza delle vocazioni sacerdotali maschili? Ci sono due problemi fondamentali che ancora poche donne e pochissimi uomini vedono, di cui però sempre più bisognerà tener conto quando parliamo di donne, soprattutto di donne sacerdote: la libertà femminile e la differenza uomo/donna.
Ma c’è altro ancora: il sacerdozio concesso alle donne dall’alto di una istituzione culturale tutta maschile come la Chiesa cattolica romana, sarebbe (dopo una prima fase di disagio), un bel regalo a chi intende impedire che la Chiesa cessi di essere istituzione per diventare comunità di comunità, popolo di Dio senza “funzionari” consacrati (uomini o donne che siano). Questa è la convinzione che sta alla base della nascita delle Comunità cristiane di base in Italia e in Europa, comunità che anch’ io ho contribuito a far nascere negli anni ‘60, a cui oggi aderisco come donna che ha fatto il salto della differenza sacerdotale, celebrando e predicando in libertà, una libertà che ormai molte donne di fede cristiana si sono presa senza attendere che si aprissero improbabili chiavistelli da parte della Chiesa cattolica ufficiale.
E’ dal 1987 (vedi: Le scomode figlie di Eva, edizioni com nuovi tempi) che gruppi di donne delle Comunità cristiane di base, ma non solo, celebrano insieme l’Eucarestia, mettendo in primo piano la differenza uomo/donna che emerge soprattutto nella lettura del Nuovo Testamento, ma anche nel Vecchio. Grazie all’interpretazione e lo studio della Parola da parte di donne teologhe e non teologhe, sempre più è cresciuto il desiderio femminile di offrire l’Eucarestia fatta di pane, vino e parola come servizio verso la Comunità, quella che si riunisce nel nome del Signore, perché Gesù disse: quando due o tre si riuniranno nel mio nome Io sarò in mezzo a loro.
Le porte erano già aperte e noi ci siamo prese la libertà di entrare.
Condivido, ed estendo il discorso al tema del matrimonio dei presbiteri. Si prevede un presbiterato femminile per sole donne nubili? Cioè l’ordinazione delle suore?
Peraltro, la soppressione del celibato obbligatorio è la sovrapposizione di un problema strettamente giuridico-canonico al ben più importante pèroblema della dimensione esistenziale della vita di coppia orientata al servizio ecclesiale. E se si parla di preti-sposati, che si dirà dei preti-divorziati?
Ho scritto queste cose al papa Francesco .
Al Vescovo di Roma.
Caro Fratello Francesco,
quando ho ricevuto dal mio vescovo l’ordinazione presbiterale (sette papi or sono) tu eri ancora studente: mi permetto dunque questo tono colloquiale, che però vuole anche essere espressione di vera fraternità evangelica.
Avevo ritenuto che il servizio presbiterale meritasse il mio impegno al celibato, ma dieci anni dopo, e con dieci anni di esperienze pastorali molto coinvolgenti, mi ero convinto che il mio modo di svolgere il servizio presbiterale nella grande casa della Chiesa cattolica era uno dei mille modi di vivere il presbiterato e che, nel mio caso, il celibato non solo fosse inutile, ma decisamente dannoso.
Lo dissi a tutti miei amici (compresi i “superiori”), chiesi e ottenni la dispensa e mi sposai nella sacrestia del duomo stesso in cui avevo ricevuto l’ordinazione, fra molti amici. Poche ore prima avevamo già celebrato il rito civile in municipio, proprio per escludere l’effetto-Concordato.
Il rescritto con cui mi fu comunicata la dispensa era offensivo per me e per mia moglie, che veniva definita cortesemente “complice”, ma eravamo abbastanza contenti da non farci troppo caso.
Tutti ci conoscevano e per tutti continuavamo a essere quello per cui ci avevano conosciuti. Da allora ho sempre lavorato come avevo sempre fatto, convinto di proseguire sostanzialmente nell’impegno presbiterale, pur attenendomi alle regole della “dispensa”. La situazione laicale non è affatto incompatibile con i compiti presbiterali (salvo qualche dettaglio canonico del tutto marginale) e la gente lo capisce al volo. I “carismi” connessi ai compiti di “magisterii, ministerii, regiminis” permangono. Si insegna, si serve, si governa con modalità diverse, qualunque sia la “terra di missione” in cui ci si trova a operare “ad maiorem Dei gloriam”.
Ti affido dunque queste mie riflessioni, come un regalo, allo scadere del mio cinquantacinquesimo anniversario di ordinazione presbiterale. Potrebbero esserti utili, mentre stai ripensando alla questione dei “preti sposati”.
In primo luogo, direi che il presbiterato post-tridentino è progettato per un prete celibe. Non si può ignorarlo e non si può conservare questo impianto con la concessione della “dispensa” perché tutto resti come prima. Chi vuole sposarsi deve reinventarsi un modo molto diverso di essere prete.
Secondo, tutti gli organismi sociali (per esempio i sindacat e i partiti) hanno dei “permanenti” (o “funzionari” nel senso migliore) e non impongono loro il celibato, benché i compiti loro affidati interferiscano non poco con la vita di coppia e di famiglia. Tutti conosciamo i pericoli connessi: burocratismo, corruzione, infedeltà coniugale, disgregazione delle famiglie, ecc. E’ un problema per tutti.
Terzo: l’istituzione dei diaconi permanenti avrebbe potuto fornire un’esperienza utile al ripensamento dei modelli pastorali, ma ha mancato l’obiettivo. Per la maggior parte dei casi è stato un modo per procurarsi gratis dei sacrestani d’alto profilo. E’ inspiegabile (o forse no) che il diconato conferito a suo tempo ai preti dispensati e sposati, come ultimo ordine prima del presbiterato, sia stato del tutto ignorato dai canonisti e dai teologi vaticani quando hanno “inventato” i diaconi permanenti.
Se si ufficializza la figura ecclesiastica del prete “uxorato”, bisogna immediatamente porsi il problema dei preti separati o divorziati e non aspettare trent’anni per poi stracciarsi le vesti. In Italia c’è, in più, la complicazione concordataria.
Quarto: attenzione a non continuare a commettere l’errore di introdurre una regola canonica che permetta il matrimonio dei presbiteri senza considerarli a tutti gli effetti come cristiani in coppia, che si devono preparare al matrimonio: quindi va ripensata e integrata anche la pastorale degli sposi. Ti raccomando questo punto, soprattutto da parte di Isa, mia moglie, con cui ne abbiamo parlato molto in questi anni.
Quinto, ma importantissimo: non si deve pensare al matrimonio dei preti come un provvedimento per prevenire la pedofilia ecclesiastica. Il matrimonio cristiano è ancora profondamente condizionato dall’ottica di Agostino (che qualche problema l’aveva!) sul “remedium concupiscentiae”.
Grazie per il paziente ascolto e buon lavoro (che certo non ti manca).
Ti benedico, e ti chiedo di fare altrettanto,
Asti, nella domenica del Seminatore.
Gianfranco Monaca
presbitero della Diocesi di Asti
(Chiedo fraternamente al Vescovo di Asti di inoltrare questo scritto al Destinatario)