“Sbagliata la diagnosi, disastrosa la cura”. Le proposte di “Sbilanciamoci!” per uscire dalla crisi

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 44 del 13/12/2014

La scelta è tra due visioni economiche e sociali incompatibili: la prima fondata sull’austerità, le privatizzazioni e la flessibilità – cioè precarietà e perdita di diritti – nel mondo del lavoro; la seconda centrata su «un piano di investimenti di lungo periodo per la creazione di posti di lavoro in settori chiave per il futuro: la riconversione ecologica dell’economia, la mobilità sostenibile, l’efficienza energetica, la ricerca e la formazione». Se è la prima visione, oggi, a essere chiaramente egemone, e non solo nelle forze apertamente liberiste, «ma ancor prima in buona parte dei governi e dei partiti che si definiscono progressisti o di centro-sinistra», è tuttavia solo la seconda a offrire indicazioni per uscire dalla crisi, nel nostro Paese e non solo. È quanto dimostra, in modo rigoroso e concreto, il Rapporto 2015 della campagna Sbilanciamoci! su «come usare la spesa pubblica per i diritti, l’ambiente, la pace», indicando le alternative possibili alle politiche di austerità e di competitività, allo smantellamento dei diritti del lavoro, alla resa dello Stato ai poteri economici e finanziari globali. E mostrando come, per ribaltare il rapporto di forze tra le due opposte visioni, sia necessario «ricostruire l’immaginario della crisi e il linguaggio costruiti in questi anni e oggi dominanti», cambiando direzione «non solo a livello economico ma prima ancora culturale»: «un lavoro difficile, ma l’unico possibile per salvare l’Unione Europea dal vicolo cieco in cui essa stessa si è infilata».

Che l’austerità produca una carneficina sociale è una realtà inoppugnabile: la disoccupazione è giunta, in Italia, al 12,6% (circa 3 milioni di persone), il tasso più alto dal 1977 (ma viaggia a livelli record anche nell’eurozona, con l’11,5% e nell’Europa a 28, con il 10,1%) e ancora più drammatica è quella giovanile, salita al 44,4% (superando il 60% al Sud, il tasso più alto d’Europa). Un italiano su quattro, in base agli ultimi dati Istat, è in pratica a “rischio povertà o esclusione sociale”, mentre a livello di giustizia sociale, calcolato sulla base di 35 criteri, il nostro Paese, tra i 28 membri dell’Unione, si piazza addirittura 23°. E neppure si può sostenere che questo sia il prezzo da pagare per “risanare” le economie europee, perché gli ultimi dati di Eurostat confermano quello che si sapeva già: che la “ripresa” europea «era una pia illusione». E ancor di più quella dell’Italia, in recessione da sei anni, con una produzione industriale al -25%, più di un milione e 700mila aziende che hanno chiuso e il Pil al -10% rispetto ai livelli del 2008: «Un’apocalisse economica e sociale – che si prefigura come la peggiore crisi dall’Unità d’Italia, ben peggiore di quella del ‘29 in termini macroeconomici – da cui il nostro Paese impiegherà decenni a riprendersi (e comunque solo a patto di un radicale cambio di rotta)».

In questo sconfortante quadro, è ancora una volta di grande rilevanza il lavoro svolto con l’abituale chiarezza dalla campagna Sbilanciamoci!, il cui Rapporto, presentato a Roma il 27 novembre scorso, mostra, con una contromanovra da 27 miliardi di euro, la possibilità di «cambiare le priorità delle scelte economico-finanziarie», dando spazio alle tante «esperienze economiche alternative che praticano dal basso un diverso modello di sviluppo sociale, economico e sostenibile, rispettoso dei bisogni delle persone e delle comunità locali». Bocciando senza appello la Legge di Stabilità 2015, che, rispettando i parametri dettati dai Trattati europei, «continua a proporre una diagnosi sbagliata della crisi e, di conseguenza, una strategia sbagliata per uscirne», il Rapporto di Sbilanciamoci denuncia le politiche di spending review, che colpiscono proprio i servizi pubblici tradizionalmente utilizzati da lavoratori e pensionati, come il trasporto pubblico locale e la sanità pubblica; pone l’accento sui sistematici attacchi diretti ad «impedire, utilizzando lo shock del debito pubblico, ogni spinta alla gestione pubblica, partecipativa, territoriale e senza profitti dell’acqua e dei beni comuni»; contesta l’idea, portata avanti dal Jobs Act, che con maggiore flessibilità contrattuale si consegua un aumento dell’occupazione, mentre le analisi dimostrano che, con la riduzione delle tutele, «sembra emergere una sostituzione tra (minore) occupazione stabile e (maggiore) occupazione instabile»; sottolinea la minaccia, tanto sul fronte economico quanto su quello sociale e democratico, rappresentata dagli attuali negoziati sul Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip).

E, a fronte di tutto questo, il Rapporto indica la concreta possibilità, anche con gli attuali vincoli finanziari, di un piano di investimenti per l’occupazione e il benessere dei cittadini: la riqualificazione del trasporto pubblico locale su rotaia; una revisione della politica sanitaria attraverso la stabilizzazione rapida del personale paramedico precario; l’introduzione di figure professionali per combattere gli abbandoni scolastici; la realizzazione degli interventi necessari per rimettere in sicurezza vaste aree del nostro territorio e per contrastare lo stato di rovina di molti siti archeologici e storici. Ma anche la scommessa su un’economia di qualità, sociale e ambientale, in controtendenza rispetto alle scelte dell’esecutivo, indifferente rispetto al miglioramento ecologico o sociale del ciclo produttivo o dell’indotto: se di certo non mancano sperimentazioni di filiera corta come i Gas, i Gruppi di Acquisto Solidale attraverso cui fanno la spesa quasi 2,7 milioni di italiani, o esperienze di concreta riconversione produttiva a partire dalla libera iniziativa dei lavoratori, come la fabbrica recuperata RiMaflow, o iniziative di autorganizzazione e riappropriazione, anche al di fuori della sfera istituzionale e legale, di spazi e luoghi della città, dagli orti urbani ai giardini condivisi fino alle occupazioni di cinema e teatri abbandonati o in via di dismissione, queste finiscono inevitabilmente per scontrarsi «con l’asfissia di visione di molte istituzioni sul territorio».

Di seguito alcuni stralci del Rapporto, rimandando al sito di Sbilanciamoci! (www.sbilanciamoci.org) per le proposte nel dettaglio, relative sia alle entrate che alle uscite, per il 2015.

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Contro l’austerità, per una buona spesa pubblica

Campagna Sbilanciamoci!

INTRODUZIONE

La Legge di Stabilità 2015 continua a proporre una diagnosi sbagliata della crisi e, di conseguenza, una strategia sbagliata per uscirne. Presentata come una legge espansiva, non si discosta nemmeno quest’anno dai parametri dettati dai Trattati europei (…). E a nulla vale che i principali indicatori economici segnalino in modo evidente il fallimento delle risposte neoliberiste offerte alla crisi: il Pil stimato allo -0,4% nel 2014, il debito al 136,4%, la disoccupazione al 12,6% a settembre 2014, quella giovanile al 42,9%.

Innanzitutto manca una visione strategica pubblica del modello economico e industriale italiano. La parola d’ordine del governo è quella di intervenire il meno possibile in campo economico, proseguendo nel programma disastroso di privatizzazioni (…), favorendo l’abbassamento del costo e dei diritti sul lavoro e continuando a fare regali fiscali alle imprese. (…).

Uno dei dogmi proposti come indiscutibili è (ancora) “Tagliare le tasse”: uno slogan indubbiamente popolare. Salvo dimenticare di spiegare che esso comporta anche la decurtazione di servizi collettivi fondamentali per i cittadini e che il taglio da 4,2 miliardi di trasferimenti agli enti locali provocherà inevitabilmente l’aumento delle tasse locali. (…).

Nella Legge di Stabilità non c’è traccia di interventi seri per ridurre la forbice delle diseguaglianze. Gli 80 euro in busta paga continuano a escludere pensionati e disoccupati, mentre gli stanziamenti per i fondi sociali sono del tutto inadeguati. Si prosegue con la politica della beneficienza (bonus bebè, carta acquisti ordinaria e sperimentale) rinunciando anche quest’anno all’introduzione di uno strumento universalistico di sostegno al reddito e all’ampliamento del sistema di servizi sociali pubblici, peraltro fortemente sperequato tra il Nord e il Sud del Paese.

La copertura delle 150mila assunzioni di docenti precari annunciate nelle Linee guida de “La Buona Scuola” è tutt’altro che sicura (ad oggi previsti 3,5 miliardi in tre anni), mancano risorse per il funzionamento ordinario delle scuole pubbliche, ma 471,9 milioni di euro sono previsti per finanziare quelle private.

Per le imprese che investono in ricerca e sviluppo il governo ripropone crediti di imposta senza optare invece per investimenti nella ricerca pubblica e nell’università. Per gli interventi contro il dissesto idrogeologico, nonostante gli annunci che seguono come sempre i disastri come quelli di Genova, sono previsti 190 milioni di euro aggiuntivi sul 2015: il 9,7% di quei due miliardi l’anno che servirebbero se davvero si volesse affrontare il problema. Restano invece gli investimenti nelle grandi opere (più di 3,2 miliardi previsti ad oggi nella Legge di Stabilità) i cui costi e tempi sono incerti e insostenibili dal punto di vista economico-finanziario, sociale e ambientale. (…).

Politiche diverse sarebbero possibili: Sbilanciamoci! lo dimostra anche quest’anno con la sua contromanovra di 27 miliardi che, come sempre, chiude in pareggio. (…). Basterebbe cambiare le priorità delle scelte economico-finanziarie, ricordando che la qualità dello sviluppo non si misura solo a suon di punti di Pil e che sono ormai molte le esperienze economiche alternative che praticano dal basso un diverso modello di sviluppo sociale, economico e sostenibile, rispettoso dei bisogni delle persone e delle comunità locali: lo “Sviluppo Locale Economico Sostenibile”.

La contromanovra 2015 di Sbilanciamoci! propone di porre fine (davvero) alle politiche di austerità abolendo innanzitutto l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione e chiedendo al Governo di promuovere in Europa l’abbandono delle politiche adottate sino ad oggi.

Sul piano delle entrate gli assi portanti sono due.

Un fisco più equo. Si sceglie di redistribuire il prelievo fiscale dai poveri ai ricchi e dai redditi da lavoro e di impresa ai patrimoni e alle rendite. Il fisco non è un male, il vero problema è garantirne l’equità e la progressività attuando la nostra Costituzione. Le proposte di rimodulazione delle aliquote e degli scaglioni Irpef e di tassazione dei patrimoni mobiliari e immobiliari consentirebbero di aumentare di 100 euro le detrazioni sui redditi da lavoro dipendente e da pensioni e di ridurre di 1 punto l’aliquota massima Iva dal 22% al 21%. Un’adeguata tassazione sulle transazioni finanziarie permetterebbe invece un più efficace contrasto di quelle speculazioni finanziarie che sono all’origine della crisi.

Tagli alla spesa pubblica inutile e dannosa. Si opta per un riorientamento e una riqualificazione della spesa pubblica tagliando quella tossica: spese militari, sostegno all’istruzione e alla sanità private, grandi opere, palliativi sociali come il bonus bebè.

Sul piano delle uscite gli assi portanti sono tre.

Intervento pubblico in economia. Si auspica innanzitutto un forte intervento dello Stato in ambito economico proponendo un Piano pubblico per lavorare e produrre per il benessere sociale. La riqualificazione del trasporto pubblico locale, la stabilizzazione del personale paramedico precario, l’assunzione di figure professionali stabili per combattere gli abbandoni scolastici e la realizzazione degli interventi necessari per rimettere in sicurezza vaste aree del nostro territorio potrebbero creare moltissimi posti di lavoro e contribuire a rilanciare la nostra economia agonizzante. Investimenti pubblici nella ricerca, nell’istruzione, nella tutela del patrimonio culturale sono proposti allungando lo sguardo verso un’economia e una società capaci di futuro.

La lotta alle diseguaglianze sociali. Scegliendo come orizzonte un sistema di welfare non gattopardesco e schizofrenico come quello attuale, si propone di aumentare in misura consistente i fondi sociali, di rinunciare al bonus bebè a favore di un rafforzamento del sistema per l’infanzia pubblico e di fare un salto di qualità sperimentando una forma di reddito minimo garantito. Una scelta indispensabile per ridurre le diseguaglianze sociali, condivisa ormai non solo dai movimenti e dalle organizzazioni della società civile, ma anche da molti economisti meno vicini a Sbilanciamoci!.

La buona spesa pubblica. È quella che investe nell’edilizia popolare pubblica (anziché svenderla), negli interventi di inclusione sociale dei migranti e delle minoranze, nella tutela dei beni comuni (e non nella loro privatizzazione), nel Servizio Civile Universale e nell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (con risorse adeguate), nella preservazione del nostro patrimonio naturale, in un Piano energetico lungimirante che abbandoni l’insostenibile strategia fossile e nelle esperienze preziose di economia solidale, a partire dalla destinazione di spazi o aree dismesse di proprietà pubblica, o abbandonate dal privato, alle realtà e alle reti che la promuovono a livello locale. (…).

I DATI DELLA CRISI IN ITALIA E IN EUROPA

Un recente rapporto del Parlamento europeo, insolitamente esplicito, accusa le politiche di austerità di aver provocato uno “tsunami sociale” nel continente. (…).

Secondo gli ultimi dati Eurostat (settembre 2014), il tasso di disoccupazione nell’eurozona e nell’Unione Europea continua a viaggiare a livelli record: 11,5% (19 milioni di persone) nell’eurozona e 10,1% (26 milioni di persone) nell’Europa a 28. (…). Parlare di media europea è fuorviante, però, poiché sappiamo che una delle caratteristiche della crisi in corso è proprio la sua natura profondamente asimmetrica. Da un lato, infatti, abbiamo Paesi come Spagna e Grecia che presentano un tasso di disoccupazione – rispettivamente del 24,4% e del 27% – che è il più alto da cinquant’anni a questa parte (…), e nettamente superiore alla media europea; dall’altro, invece, abbiamo Paesi come la Germania che presentano un tasso di disoccupazione (4,9%) ai minimi storici. Superiore rispetto alla media, seppure di poco, il dato dell’Italia: 12,6% (circa 3 milioni di persone), il tasso più alto dal 1977.

(…). Particolarmente drammatica – e ancor più asimmetrica – la situazione dell’occupazione giovanile: per quanto il tasso medio di disoccupazione giovanile dell’eurozona e dell’Ue-28 sia già di per sé molto alto (23,3% e 21,6% rispettivamente), in alcuni Paesi si toccano punte che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra mondiale: 53,7% in Spagna, 51,5% in Grecia, 44,4% in Italia (che però al Sud supera il 60%, il tasso più alto d’Europa), a fronte di un “mero” 7,6% in Germania.

Anche chi ha un lavoro, però, non se la passa molto bene: a causa della decisione dell’establishment europeo di perseguire anche nel settore privato la stessa politica di compressione dei salari già sperimentata nel settore pubblico (in particolar modo in quei Paesi sottoposti a un programma di “aggiustamento strutturale” della Troika) – secondo la logica della cosiddetta “svalutazione interna” –, tra il 2008 e oggi i salari reali sono diminuiti o sono rimasti stagnanti in tutti i Paesi della periferia (con picchi del -20% in Grecia). E questo a fronte di una caduta della quota salari sul Pil che, com’è noto, prosegue ininterrottamente da trent’anni.

Consequenziale in parte all’aumento della disoccupazione e alla stagnazione/diminuzione dei salari – nonché ai tagli alla spesa sociale e sanitaria – è l’increscioso aumento del tasso di povertà e/o di esclusione sociale nel continente: un dramma che secondo la Commissione Europea riguarda ormai il 24% della popolazione dell’Unione Europea (tra cui il 27% dei bambini e il 20,5% degli over-65), pari a più di 120 milioni di persone. (…). Quasi il 10% degli europei oggi vive in condizione di grave deprivazione materiale. Ma la situazione cambia molto da Paese a Paese: al primo posto nell’eurozona non sorprende trovare la Grecia, seguita però a stretto giro dall’Italia. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2013 il 28,4% dei residenti e il 31,9% dei bambini risultava a “rischio povertà o esclusione sociale”. In pratica un italiano su quattro (…).

Ma ovviamente non se la passano tutti male nel Belpaese, anzi. Quello che spesso si verifica nelle crisi, infatti, non è tanto una distruzione di ricchezza quanto un trasferimento della stessa, da alcuni strati della società ad altri (così come dal lavoro al capitale). E infatti, come segnala uno studio della Fisac Cgil, le disuguaglianze sociali – da sempre molto acute in Italia – sono aumentate drasticamente dall’inizio della crisi: oggi il 10% delle famiglie italiane detiene poco meno della metà (47%) della ricchezza totale (nel 2010 era il 45,7%). Il restante 53% è suddiviso tra il 90% delle famiglie. (…).

Secondo uno studio della Bertelsmann Stiftung, negli ultimi anni il livello di giustizia sociale – calcolato sulla base di 35 criteri, tra cui povertà, istruzione, occupazione, salute, giustizia generazionale nonché coesione sociale e non-discriminazione – è diminuito nella maggior parte degli Stati dell’Unione Europea. Ma, mentre il sistema ha retto nei Paesi del Nord come Svezia, Finlandia, Danimarca e Paesi Bassi, in quelli del Sud come Grecia, Spagna e Italia c’è stato il calo più marcato, con il nostro Paese che tra i 28 membri dell’Unione arriva addirittura a piazzarsi ventitreesimo. Particolarmente preoccupante, secondo lo studio, è la percentuale dei giovani italiani di età compresa tra i 20 e i 24 anni che non lavorano né studiano; qui l’Italia si piazza addirittura in ultima posizione in Europa, con una percentuale del 32%. (…).

Alla luce di questi dati, pochi avrebbero il coraggio di negare che le politiche di austerità abbiano avuto un costo enorme in termini umani e sociali. Se però dobbiamo credere a quello che ci è stato ripetuto ad nauseam negli ultimi anni, questo era il prezzo da pagare per “risanare” le economie europee; una “medicina dolorosa ma necessaria”. E allora lasciamo per un attimo da parte le considerazioni etiche, e vediamo come se la passa l’economia europea dopo quattro anni di austerity.

Partiamo dal parametro principale con cui oggi, nel bene o nel male, viene valutato lo stato di salute di un’economia: il Pil. Gli ultimi dati di Eurostat (agosto 2014), confermano quello che ormai vanno dicendo da tempo schiere di economisti, anche di estrazione mainstream: la tanto sbandierata “ripresa” europea (…) era una pia illusione. (…). Anche perché ormai anche la cosiddetta “locomotiva d’Europa” comincia ad arrancare: a metà 2014 la Germania ha registrato un tasso di crescita negativo (-0,2%) per la prima volta dal 2010. (…).

Dopo la Grecia, l’Italia è senz’altro il caso più esemplare (…): di fatto l’Italia è in recessione da sei anni, come si può facilmente evincere dall’andamento del Pil. E gli effetti si vedono: produzione industriale al -25% e Pil al -10% rispetto ai livelli del 2008, (…) disoccupazione e debito pubblico a livelli record. Un’apocalisse economica e sociale – che si prefigura come la peggiore crisi dall’Unità d’Italia, ben peggiore di quella del ‘29 in termini macroeconomici – da cui il nostro Paese impiegherà decenni a riprendersi (e comunque solo a patto di un radicale cambio di rotta), soprattutto considerando i pesanti effetti strutturali che la crisi ha avuto sul tessuto produttivo italiano. L’esempio più evidente di ciò è l’incredibile numero di aziende che hanno chiuso per sempre dall’inizio della crisi: alla fine del 2013 erano più di un milione e 700mila (un’azienda manifatturiera su cinque), di cui 111.000 solo nel 2013, secondo uno studio del Centro Studi Cna. Il 94% di queste erano piccole e medie imprese.

Le ragioni di questa ecatombe sono principalmente due. La prima è la restrizione del credito da parte delle banche. (…). I dati per l’Italia sono da bollettino di guerra: a fine 2014, i prestiti alle imprese hanno registrato un’ulteriore flessione annua del 3,8%, mentre i prestiti alle famiglie sono calati al ritmo dello 0,8%, per una flessione complessiva annua del 2,5%. (…). Sintomo e allo stesso tempo concausa del calo dei prestiti, e più in generale della crisi in corso, è la crescita vertiginosa delle sofferenze bancarie, ossia dei crediti bancari la cui riscossione non è certa. (…).

In ogni caso, la restrizione del credito è (…) a sua volta la conseguenza di un male più profondo: la forte riduzione dei consumi da parte delle famiglie. Questa dinamica non è imputabile unicamente al fatto che l’economia non cresce. A rendere particolarmente esplosiva la situazione dell’Europa – e soprattutto di Paesi periferici come l’Italia – è il fatto che l’eurozona si affaccia ormai sul baratro della deflazione; mentre alcuni Stati – Italia, Spagna, Grecia e Portogallo – vi sono già finiti dentro. Per deflazione s’intende una caduta generalizzata dei prezzi, causata da una diminuzione della domanda (o dall’aspettativa che essa diminuirà), a cui le imprese reagiscono riducendo il personale e tagliando i salari nonché, appunto, i prezzi. Il che, ovviamente, non fa che deprimere ulteriormente la domanda. E così via, in una spirale potenzialmente senza fine. (…).Che la dinamica in corso sia questa lo dicono chiaramente i numeri. Dal 2011 a oggi – in sostanza da quando hanno cominciato a essere implementate nel continente le politiche di austerità –, la domanda interna è crollata in tutta l’eurozona. La situazione dell’Italia è paradigmatica: secondo dati diffusi di recente dal Codacons, gli acquisti delle famiglie sono tornati ai livelli di trent’anni fa, registrando un maxi-calo da 80 miliardi di euro negli ultimi sette anni. (…).

AUSTERITÀ, PAREGGIO DI BILANCIO E RIFORME STRUTTURALI

L’Europa in crisi. (…) Se l’insieme del vecchio continente appare in grande difficoltà, i problemi maggiori sono nei Paesi del Sud. Secondo le istituzioni europee, il motivo è semplice: nel passato tali Paesi avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità, in particolare per quanto riguarda la spesa pubblica: troppo welfare, pensioni elevate, inefficienza e corruzione, con conseguenti deficit ed eccesso di debito. Oggi non c’è alternativa ai piani di austerità: tagliare la spesa pubblica per rimettere a posto i bilanci e diminuire debito e deficit. Nella stessa direzione, le imprese devono diventare più competitive, in modo da esportare di più e contribuire così a un miglioramento dei conti pubblici. Ancora, sia per diminuire la spesa e il debito, sia per espandere l’economia, occorre accelerare con le privatizzazioni: mettere sul mercato sia gli immobili sia le imprese sotto controllo o a partecipazione statale per fare cassa e per sfruttare la maggiore efficienza economica del privato.

Tagli alle spese pubbliche, piani di austerità, competitività per rilanciare l’export, privatizzazioni. È questa la ricetta proposta, o meglio imposta dalla Troika – Commissione Europea, Banca Centrale Europea (Bce) e Fondo Monetario Internazionale (Fmi) – che guida le decisioni di politica economica in Europa, soprattutto nei Paesi del Sud del continente, accusati di rallentare l’economia rispetto a un Nord guidato dalla Germania, esempio di alta produttività, surplus commerciale trainato dall’export, conti pubblici sotto controllo. L’obiettivo è quindi quello di seguire il modello tedesco, e ancora prima di evitare che ci sia un’Europa a doppia velocità, in cui i Paesi della periferia si trovano con economie sempre più deboli e squilibri sempre più forti, ponendo a rischio la moneta unica se non l’intero progetto dell’Unione Europea.

In questa direzione si possono inquadrare le richieste, o per lo meno le pressioni europee, per quelle riforme strutturali che portino l’Italia a una maggiore produttività e competitività, partendo quindi da una riforma del lavoro. (…).

È colpa delle finanze pubbliche? Cerchiamo di capire quanto tale visione sia fondata e quanto la soluzione possa essere efficace, a partire dal fatto che alcuni Paesi avrebbero i conti fuori controllo a causa di un eccesso di welfare e spesa pubblica. L’Italia è il caso più lampante, con un rapporto tra debito e Pil che ha superato il 130%, a fronte dell’impegno sottoscritto da tutti gli Stati europei di mantenerlo entro il 60% (cosiddetti parametri di Maastricht). È vero che l’Italia ha sempre avuto un debito alto, ma è altrettanto vero che, da un valore ben superiore al 120% intorno alla metà degli anni ’90, il rapporto debito/Pil è costantemente sceso, fino ad arrivare al 105% nel 2008. Di colpo, la tendenza si inverte a cavallo del 2008, con un rapporto che ricomincia a salire.

Non solo in Italia, ma in tutti i Paesi occidentali, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, l’andamento è analogo: debito/Pil quasi costante per oltre un decennio, poi improvviso aumento dopo il 2008. Un tale andamento non ha nulla a che vedere con un presunto “eccesso di welfare”, o con Paesi che “vivono al di sopra delle proprie possibilità”.

Il motivo è la crisi della finanza privata, non certo di quella pubblica: lo scoppio della bolla dei subprime e la conseguente recessione, mentre gli Stati devono indebitarsi per salvare le stesse banche responsabili della crisi.

I piani di austerità. Ma dimentichiamoci per un momento che la crisi è stata causata da una gigantesca finanza privata fuori controllo, e non certo dalla finanza pubblica, e ammettiamo che siano gli Stati a dover rimettere a posto i conti pubblici. I piani di austerità funzionano per diminuire il rapporto debito/Pil? Analizziamo questo rapporto. Se si taglia la spesa pubblica, a parità di entrate diminuisce il deficit e quindi tende a migliorare – o per lo meno a peggiorare di meno – il debito pubblico. C’è però una difficoltà: tagliare la spesa pubblica vuole dire meno investimenti, meno denaro per i dipendenti pubblici, meno servizi, ovvero una diminuzione del Pil. Nel rapporto debito/Pil, quindi, da un lato i piani di austerità fanno calare il numeratore, dall’altro però cala anche il denominatore.

Bene, secondo gli studi più recenti dello stesso Fmi, membro autorevole della Troika, nella gran parte dei casi tagliando la spesa pubblica il Pil diminuisce più rapidamente del debito. Il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico.

Il mantra della competitività. Riassumendo, la diagnosi è completamente sbagliata: il problema non è nella finanza pubblica ma in quella privata. Se anche la diagnosi fosse giusta, la cura sarebbe comunque sbagliata: l’austerità non funziona. Ma allora come è possibile che i decisori europei siano tanto miopi? Il problema non è nell’analisi, ma nella visione economica. (…). È la visione liberista e mercantilista che domina il pensiero economico europeo: tagliamo la spesa pubblica, le tasse, i salari e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, in modo da rendere le imprese europee più competitive. Questo porterà da un lato ad attrarre più investimenti, dall’altro a esportare di più, il che successivamente porterà alla crescita del Pil e infine dell’occupazione. Competitività significa vincere la concorrenza internazionale e uscire così dall’attuale stagnazione.

Un primo problema è che se tutti adottano la stessa teoria per cui chi esporta di più vince, essendo la Terra di dimensioni finite, o qualcuno trova il modo di esportare su Marte o evidentemente se qualcuno “vince” altri devono “perdere”. Secondo, la stessa questione si ripete su scala europea: gran parte del commercio nell’Unione Europea è tra Paesi europei, il che vuol dire che se qualcuno esporta di più, altri devono importare di più o lanciarsi nella stessa gara. Viene meno la stessa idea di “Unione” Europea, sostituita da una “Competizione” Europea in cui ogni Paese cerca di superare il vicino.

Terzo, ma è l’elemento più preoccupante, questa competizione è di fatto una corsa verso il fondo: chi è più bravo a smantellare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori vince, almeno finché un altro Paese non abbassa le leggi a tutela dell’ambiente per produrre a un costo inferiore, finché un altro non si trasforma in un paradiso fiscale pur di attrarre capitali, e via discorrendo. Una corsa verso il fondo in materia sociale, ambientale, fiscale, monetaria. (…).

L’EUROPA DEL FUTURO: LE POSSIBILI ALTERNATIVE

Di fronte ai disastri delle politiche di austerità, alla deflazione che colpisce buona parte dell’Europa, alle difficoltà che non riguardano più unicamente i Paesi della periferia ma persino quelli considerati più forti e al pesante deficit di democrazia che caratterizza le istituzioni europee, è necessario invertire la rotta, da diversi punti di vista. (…). Le politiche fiscali restrittive dell’Unione Europea – in particolare il fiscal compact e il patto di stabilità e crescita – devono essere abbandonate. (…). Senza un forte stimolo della domanda non ci può essere via d’uscita dall’attuale stagnazione. A tal fine è essenziale un programma di investimenti pubblici per la transizione ecologica, finanziati a livello europeo attraverso la Banca europea per gli investimenti (Bei). Un piano di investimenti pubblici europei è necessario per ricostruire attività economiche che siano sostenibili e capaci di offrire buoni posti di lavoro. (…).

Si rende necessaria un’alternativa capace di collegare l’obiettivo di performance industriale a lungo termine con l’interesse per una trasformazione socio-ecologica.

Tutto ciò dovrebbe toccare sei grandi dimensioni: 1) a livello europeo, un piano di investimenti pubblici per la ricostruzione socio-ecologica al fine di stimolare la domanda; 2) un’inversione di tendenza rispetto alla grave perdita di capacità industriale in Europa; 3) l’urgente riorientamento verso nuove attività ambientalmente sostenibili, a conoscenza intensiva, a elevata competenza e retribuzione; 4) il rovesciamento della politica di intense privatizzazioni degli ultimi decenni e un intervento pubblico a sostegno di nuove attività a livello comunitario, nazionale, regionale e locale; 5) l’impostazione di un diverso tipo di “sicurezza”, in termini di disarmo, maggiore coesione e minori squilibri all’interno dell’Unione e dei suoi singoli Paesi membri; 6) la creazione di un nuovo importante strumento di politica per la trasformazione ecologica dell’Europa. (…).

AMBIENTE E SVILUPPO SOSTENIBILE

Dal disegno di legge sulla Legge di Stabilità 2015 presentato alla Camera dei Deputati il 23 ottobre scorso – nonostante gli annunci di cesura con il passato del governo in carica rispetto alle strategie sin qui consolidate per lo sviluppo del Paese – non emergono elementi di novità o segnali rilevanti che consentano di registrare un’inversione di tendenza rispetto alle scelte di fondo sulle grandi opere, in materia energetica e per valorizzare e tutelare adeguatamente il capitale naturale del Paese. Si aggiunga che il governo non dedica alcuna attenzione al capitolo ambiente: la spesa per la difesa del mare e del suolo, la tutela della biodiversità, delle aree protette e delle specie a rischio, i controlli e le bonifiche ambientali si attestano a una quota inqualificabile dello 0,8% (poco più di 253 milioni di euro) dell’ammontare dell’intera manovra (per il 2015 di 30,928 miliardi di euro).

Le grandi opere (infrastrutture strategiche, autostrade e linee ad alta velocità) pesano ancora oggi per una quota del 10,5% (3,255.701 miliardi di euro) dell’ammontare complessivo della manovra, mentre alla rete tradizionale si destina poco più di un miliardo (ferrovie, 767 milioni, e strade, 241 milioni). Non si registra quindi alcun ripensamento rispetto all’impostazione fallimentare del Primo Programma delle infrastrutture strategiche. Programma che è ancora oggi del tutto fuori controllo e che costituisce di fatto non uno strumento per individuare gli interventi prioritari di rilevanza nazionale, ma la più imponente operazione mai tentata in Italia per soddisfare gli appetiti speculativi delle grandi imprese e le clientele politiche locali.

In questi 14 anni il numero delle opere e i costi relativi del Programma sono continuati a lievitare: dalle 115 opere del 2001 per un costo complessivo di 125,8 miliardi di euro, alle attuali 403 infrastrutture per un valore complessivo di oltre 375,3 miliardi di euro (…). Programma che, quindi, è una delle fonti principali dell’aumento ulteriore del già gravissimo indebitamento pubblico. E che non è nemmeno concepito per essere efficiente. Infatti, alla geometrica lievitazione dei costi non corrisponde un altrettanto vistoso successo nella realizzazione delle opere. Come viene documentato dall’VIII Rapporto del Servizio Studi della Camera, dal 2001 al gennaio 2014 sono state ultimate solo 43 opere per un costo complessivo di 9,4 miliardi di euro, equivalenti a un modestissimo 2,5% del valore complessivo attuale del Programma. Programma che si concentra sulla realizzazione di opere che non solo non hanno costi certi, ma nemmeno tempi definiti che possano produrre effetti virtuosi sull’economia nel breve e medio periodo in funzione anticiclica per uscire dalla grave recessione in cui versa ancora il Paese.

In questa situazione drammatica il governo sta ancora perseguendo un disegno sbagliato, come testimoniato dal fatto che anche nel decreto legge Sblocca Italia, che ha preceduto la Legge di Stabilità del 2015, vengono destinate nuove risorse per l’ammontare di 3,8 miliardi alle infrastrutture di trasporto (il 47% dei quali ad autostrade), mentre alle piccole e medie opere per il rilancio del Mezzogiorno la Legge di Stabilità 2015 destina la cifra risibile di 20,760 milioni di euro che equivalgono a una quota dello 0,06% dell’ammontare complessivo della manovra. (…).

Anche in materia energetica la linea governativa non si discosta dagli obiettivi fossili della Strategia Energetica Nazionale, voluta all’inizio del 2013, alla vigilia della sua caduta, dal governo Monti. Strategia che: non dà indicazioni chiare sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, sul risparmio e l’efficienza energetica e sull’abbandono delle centrali termoelettriche a carbone; punta a trasformare la penisola in un hub del gas; rilancia la ricerca e coltivazione di idrocarburi a terra e a mare, dando carta bianca alle industrie petrolifere nostrane e straniere nel colonizzare il territorio. Strategia ormai desueta, che è però puntualmente attuata con le disposizioni del decreto Sblocca Italia, con il quale si è stabilito che debbano essere considerati strategici e quindi beneficiare di corsie preferenziali – in deroga alle procedure autorizzative, alle valutazioni ambientali e ai controlli ordinari – gli interventi relativi alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi a terra e a mare, nonché lo stoccaggio degli idrocarburi nel sottosuolo, come anche i gasdotti, i rigassificatori e lo stoccaggio di gas. (…).

Anche per la difesa del suolo i segnali sono debolissimi, ben lontani da quel fabbisogno necessario di almeno 2 miliardi di euro l’anno per 20 anni, calcolato alla fine del 2012 dal Ministero dell’Ambiente. Nella Legge di Stabilità 2015 alla difesa del suolo vengono destinate nuove risorse per 190 milioni di euro, cioè il 9,5% di quanto si ritiene necessario ogni anno secondo le stime ministeriali. (…).

Se agli interventi preventivi per la messa in sicurezza del territorio si dedicano fondi totalmente insufficienti e che non ricomprendono nel calcolo tutti quegli interventi di adattamento diffusi che sarebbero necessari e urgenti per contrastare gli effetti estremi, ormai ordinari, del cambiamento climatico, alla Protezione civile la Legge di Stabilità 2015 assegna, anche in questo caso, per affrontare l’emergenza quotidiana poco più di 190 milioni di euro, pari allo 0,6% dell’ammontare complessivo della manovra per il prossimo anno.

Nessuna sensibilità, come documentato all’inizio di questa introduzione, il governo in carica riserva agli interventi utili in campo ambientale, a cui vengono dedicate risorse risibili (…).