La democrazia del linguaggio di D.Accolla

Dario Accolla
www.italialaica.it

Il linguaggio è un atto creatore. Nella Bibbia Dio crea il mondo parlando. E fa l’uomo a sua immagine e somiglianza. Come? Dandogli il dono di proferir parola. Lo stesso strumento con cui denominare il reale e quindi, dominarlo. Tale suggestione era presente migliaia di anni fa già nella sapienza ebraica. Una cultura che filtrava tutto il reale attraverso l’idea di Dio (uno solo) non poteva non ricondurre il potere della parola a un’entità superiore. Noi oggi abbiamo la fortuna di possedere la linguistica, che spiega molte cose e ci istruisce sul fatto che il verbale è poietico, crea realtà. Pensiamo quando qualcuno ci rivela che ci ama (o il suo esatto opposto) e quali scenari si aprono nella nostra mente, per capire il valore della sua portata.

Faccio tale premessa per parlare di democrazia. Si dice che essa sia quel sistema di organizzazione del potere che, tra l’altro, permetta la libertà di parola. Penso che sia vero il contrario: non appena cittadini e cittadine decidono di prendersi il potere su essa, di dire le cose come stanno e di combattere per ottenerlo, allora e solo allora si creano le condizioni della democrazia. La libertà di parola, secondo questa personale impostazione sta alla base della democrazia stessa.

La parola è libera quando non viene piegata alle esigenze della politica, di un credo, di un’ideologia. Quando non si appiattisce su un solo significato. In Italia, in questo periodo, si assiste da ormai troppo tempo a quella che definisco “corruzione semantica”. Parole specifiche vengono usate in modo univoco, contravvenendo tutte le regole del mutamento linguistico. E vengono usate contro alcune categorie, servendo un padrone e uno solo. Farò qualche esempio.

Pensiamo a “famiglia”. Deriva dall’italico famel, che significa casa. È divenuta una realtà che da sempre indicherebbe l’unione di un uomo e una donna finalizzata a procreare. Per cui vengono escluse immediatamente molte altre realtà: donne sole e padri vedovi con prole, coppie omosessuali, coppie senza figli/e, nuclei affettivi ulteriori. Chi dice a tutte queste persone che sono escluse dal valore simbolico che quella “casa”, ovvero luogo degli affetti, dovrebbe evocare?

Pensiamo a “matrimonio”. Ridotto a sacramento, anche nella narrazione politica contemporanea, diventa il discrimine tra ciò che è sacro (e intoccabile) e ciò che al sacro non deve, di conseguenza, avvicinarsi. La questione del matrimonio egualitario è il paradigma di quanto sto cercando di esprimere. La vulgata filo-ecclesiastica lega il termine alla presenza di mater, per cui due uomini non potrebbero convolare a giuste nozze (o per lo meno legalizzate). Sarebbe curioso capire come si relazionerebbero certi/e supporter dell’omofobia di stato di fronte al fatto che secondo tale interpretazione il “patri-monio” dovrebbe essere di esclusiva gestione maschile.

Queste parole sono diventate escludenti, nel nostro paese, perché si dà ad esse una connotazione esclusivamente religiosa. Ciò le impoverisce di significati ulteriori, nati non perché si vuole chiamare con stesse parole cose diverse, ma perché la realtà è più ricca e vasta delle gabbie semantiche in cui vorremmo racchiudere il lessico. La lingua, in tal senso, prevede l’allargamento e lo slittamento di significato, che sono processi che avvengono nella natura e nella realtà verbali. Non guardare a tutto ciò nell’illusione di servire un dio significa solo chiudere gli occhi di fronte alla verità sostanziale che ci circonda.

Questo stato di cose rischia di trasformare la nostra società in un insieme di individui che non usa più il linguaggio per comunicare e definire la realtà, ma per condizionarla. Sarebbe interessante capire quanto abbia inciso sulla nostra qualità democratica un certo uso linguistico. E poi vedere come siamo messi su altri temi importanti, come ad esempio la libertà di stampa (che porta la parola su carta, a ben vedere).

Concludo con una notizia di cronaca scolastica: Davide Zotti, responsabile scuola di Arcigay, triestino e docente di filosofia, ha rimosso il crocifisso dall’aula e ha detto, liberamente, che in nome di quel simbolo in Italia ancora oggi si opprimono le persone LGBT. Tale atto gli è costato un ammonimento. Essere liberi di usare le parole viene punito nell’Italia del 2014 anche se con scuse altre: rimozione di “arredo scolastico”. Ulteriore forma di falsificazione linguistica. Sarà un caso, chissà.