Le donne: un servizio sociale multitasking gratuito di R.Pesenti

Rosangela Pesenti (*)
www.rosangelapesenti.it

(Intervento al SINODO delle DONNE, Roma, 14 ottobre 2014)

Voglio cominciare con l’elogio del tradimento. So che suona un po’ forte ma, proprio le donne che da secoli, e ancora oggi, sono le garanti della trasmissione attraverso la gestazione e la cura della vita, nei processi di crescita e trasformazione dentro il tempo quotidiano, hanno mutato in modo, spero, irreversibile, le relazioni umane tra generi e generazioni attraverso il tradimento delle consuetudini, delle leggi, delle religioni, delle aspettative famigliari, degli obblighi sociali, della forma costrittiva dei propri stessi sentimenti.

Non saremmo qui ora, donne colte, laureate, autonome, capaci di prendere parola su tutto, se altre donne prima di noi non avessero guardato oltre i tanti limiti che la società opponeva a talenti e desideri femminili, mortificando i corpi e i pensieri attraverso leggi, istituzioni, religioni, letterature, che sancivano il diritto alla violenza maschile sulle donne e la legittimità della coercizione educativa fino al plagio, in funzione di una generalizzata sottomissione.

Sono state chiamate traditrici: della patria, di dio, della rivoluzione, della fede, della famiglia e sono state condannate al rogo, alla ghigliottina, all’impiccagione, al manicomio, al matrimonio, al bordello, al convento, al carcere, alla solitudine, alla miseria, espropriate della vita, dell’integrità del proprio corpo, della libertà, derubate del lavoro, delle scoperte, dei pensieri, delle opere.

Pesco a caso nella storia: Olympe De Gouges derubata della vita, Camille Claudel derubata delle opere, Lise Meitner e Rosalind Franklin del Nobel, le donne italiane che hanno operato il più grande salvataggio della storia italiana, dopo l’8 settembre 1943, derubate della memoria, milioni di serve derubate del lavoro, dell’infanzia, della vecchiaia.

E ancora oggi donne impiccate, lapidate, decapitate, stuprate, vendute, schiavizzate, perché in molte parti del mondo il primo tradimento di una donna è quello di essere viva.

Per milioni di bambine non esiste il diritto a nascere, il diritto a crescere, a sorridere, scegliere, avere pensieri, danzare, guardare, il diritto ad avere tempo per sé, tempo per studiare, tempo per amare, tempo per progettare.

Denunciamo i governi, gli eserciti, le religioni, le istituzioni che trovano in queste attività criminali il loro potere.

Ogni volta che prendiamo parola per affermare noi stesse, la nostra vita, le nostre convinzioni, ricordiamo che esercitiamo un diritto ancora così raro per le donne sul pianeta da configurarsi come privilegio.

Non misuriamo perciò le nostre vite col metro meschino delle istituzioni alle quali abbiamo accesso solo piegandoci a una storia che non ci ha comprese, tacendo su compromissioni necessarie che non ci onorano, operando mediazioni che ci sfiancano, infilandoci in abiti che ci mortificano, non è ancora tempo di godere di qualche successo, non lasciamo che le subdole strategie di cooptazione del patriarcato ci corrompano facendoci smemorate della condizione comune che condanna ancora la maggior parte di noi allo sfruttamento e al silenzio.

La nostra politica, le vite che ci siamo conquistate, i tanti traguardi raggiunti, i successi personali, il protagonismo culturale, sono continuamente insidiati, assediati, deformati e la verità delle nostre storie non viene trasmessa attraverso le istituzioni culturali che ancora mentono ai giovani uomini e impediscono alle giovani donne di confrontarsi con la storia del proprio genere.

Quando una donna raggiunge una meta importante è giusto che festeggiamo, balliamo, ridiamo, ma subito dopo chiediamoci dove e come vivono le altre, quelle nate con lei ma in un altrove oscuro in cui sono affogate prima di poter dire “io sono”.

Molte di noi hanno dimostrato di saper fare tutto quello che fanno gli uomini, quello di cui gli uomini si vantano come sapere e condizione comune: studiare, anche con risultati brillanti, raggiungere posizioni apicali nella gerarchia sociale, nella direzione produttiva, nelle istituzioni accademiche, nei consessi politici, svolgere lavori duri, in miniera, nei cantieri, alle catene di montaggio, andare nello spazio, mettere una divisa, imbracciare un fucile, uccidere, torturare, mentire, opprimere.

Facciamo tutto questo continuando a tenere insieme la vita quotidiana fatta di cura per le relazioni e le abitazioni, gestione dei tempi e degli spazi, trovando posto per i sentimenti e le necessità, ma non possiamo ignorare che a ogni scalino salito, a ogni vetta raggiunta noi, ancora oggi, misuriamo la nostra contrattazione con il maschile nella sua forma patriarcale, cedendo o acquisendo quote di potere, anche a scapito di altre donne.

Il mondo ci propone una verticalità faticosa e noi ci assoggettiamo vincendone l’impervia, dimostrando di farcela, anche se le mete più alte comportano l’accettazione della piramide così com’è, perfino quando usiamo le nostre parole per criticarla e il nostro agire per smantellarla.

Se il lavoro che fai te lo consente scarichi una parte del lavoro domestico su un’altra donna, con una capacità contrattuale inferiore sul mercato salariale, perché i lavori di pulizia e manutenzione dei luoghi abitati, sono considerati al più basso livello della scala sociale. Non è diverso per i lavori della riproduzione biologica, crescere bambini e bambine, assistere persone non autosufficienti di qualsiasi età, intrattenere adolescenti, accompagnare, curare, accudire.

Ogni donna finisce col tenere in equilibrio la propria esistenza sociale nel mondo lavorativo gestendola attraverso vari luoghi di contrattazione, a vari livelli di visibilità quella sul lavoro, invisibile quella dentro le case, dove la parità è ancora lontana e quando è felicemente raggiunta con un uomo ha molto spesso il prezzo della subalternità lavorativa e sociale di un’altra donna.

Forse non c’è altra strada per noi, soprattutto se scegliamo di essere madri senza rinunciare al lavoro e ad altre passioni della nostra vita. Forse non c’è altra strada per noi occidentali, bianche, figlie mogli madri sorelle compagne di colonizzatori padroni e padroncini (o solo asserviti e subalterni al sogno di esserlo), spesso complici, talvolta ignare o inconsapevoli, noi che da poco più di due secoli abbiamo sollevato la testa e abbiamo rivendicato le stesse eredità riservate ai maschi: patrimoni, aziende, case, terre, professioni, ruoli, diritti, soprattutto diritti. Forse non c’è altra strada e questa sembra la più pacifica: accedere, conquistare posti e trasformare poi dall’interno, istituzioni accademie uffici fabbriche scuole ospedali, a favore di tutte e tutti, allargando le maglie strette delle possibilità.

Ma senza consapevolezza di sé, della strada su cui siamo, della storia di cui siamo figlie, la palude dell’omologazione ci aspetta ad ogni passo e sappiamo che non può avere nome Pace quella stabilita per imitazione, per connivenza, garantendo silenzio, omertà, dimenticanza di tutte le altre, alle quali anche noi stiamo rubando il futuro.

Qual è il prezzo della nostra libertà? Chi lo paga? Per ogni donna che contribuiamo a rendere invisibile, la posizione che ci siamo conquistate viene erosa, diventa più precaria, ci viene chiesta più complicità per avere qualcosa che non assomiglia mai alla libertà.

La donna libera e quella assoggettata vivono ancora dentro ognuna di noi, lottano sulla soglia tra la coscienza e la vita, ne portiamo i segni dentro pelle postura mobilità dei corpi.

L’intero mondo, compreso quello occidentale, ricco, capitalista, si regge sull’economia invisibile di chi ogni giorno cucina, pulisce, fa la spesa, stende i panni, governa le relazioni e rigoverna gli oggetti d’uso, ripara, riprende, rassetta, accompagna, custodisce, ascolta, dialoga, racconta, svolgendo cicli ripetuti di manutenzione della vita senza avere remunerazione, riconoscimento e nemmeno gratitudine.

Non a caso l’altro lavoro in cui persiste lo sfruttamento e la schiavitù, di chi ne svolge le mansioni fondamentali, è l’agricoltura, nella quale si gioca la partita del potere sul pianeta attraverso l’espropriazione dei terreni, il controllo dell’acqua e delle sementi, la cementificazione dei percorsi, la manipolazione delle legislazioni democratiche, la guerra.

Gli indicatori economici che registrano l’espansione o la crisi del sistema non comprendono questa economia sommersa che esprime invece la vera differenza tra subalternità e autonomia, sfruttamento e benessere, sudditanza e cittadinanza.

Una società che considera la crescita di bambine e bambini come fondamento di ogni ricchezza ne tutela i diritti e non li affida al destino, stabilito dall’occasionalità di nascere in una certa famiglia o in un dato territorio.

Quando mai bambine e bambini sono cresciuti nelle cosiddette famiglie naturali? Nell’Occidente già capitalista milioni di schiave e schiavi non avevano il diritto di riconoscere e crescere la prole. Condizione ancora esistente sul pianeta. La famiglia naturale era forse quella delle madri sfiancate dalle gravidanze e dal lavoro nei campi e nelle fabbriche? O quella dei padri sottoposti a orari e lavori disumani che affondavano il tempo libero nell’alcool, morti in guerra o tornati incapaci?

Possiamo considerare naturale la famiglia di serve e badanti che costringiamo ad abbandonare casa e figli? O quella di madri e padri ricattati da carriere precarie, dipendenti da nonni e nonne, se ci sono? La coppia biologica non può mai essere identificata con la famiglia naturale per la specie umana, per la quale natura è cultura, e chiunque viva con bambini e bambine sa che hanno bisogno di una congrua schiera di adulte e adulti per crescere, comunque vengano definiti, purché responsabili e affettuosi.

Senza i legami d’affetto (e non biologici) con zie e zii, vicine e vicini di casa, maestre e maestri e tutte le possibili figure adulte che possano accompagnare e custodire la crescita, si diventa reclusi della famiglia nucleare, uno dei luoghi che genera maggiore infelicità, dolore violenza, se guardiamo ai dati.

La casa di cui ognuna e ognuno ha bisogno per vivere non può essere chiusa, statica, immobile perché l’essere umano/a ha bisogno di cambiamento, anche della e nella propria cuccia calda.

L’enfasi con cui si parla di famiglia in Italia è una forma di manipolazione con cui si cercano di eludere (ed elidere) i diritti individuali di cui dovremmo godere solo per il fatto di essere nate e nati.

Per questo i lavori della riproduzione sociale: scuola e produzione culturale, sanità, assistenza, pubblica amministrazione, manutenzione di abitazioni, abitati e habitat, rappresentano gli indicatori del benessere e misurano il livello della cittadinanza.

Sono i lavori che non producono profitto, che hanno scarso riconoscimento sul mercato, ma senza i quali non potremmo vivere.

Sono i lavori che quando sono espulsi dalla contrattazione sociale, cancellati dall’economia, taglieggiati, ridotti, mortificati, continuano a essere comunque svolti, gratuitamente e prevalentemente, dalle donne che hanno storicamente acquisito competenze multitasking, sono capaci cioè di gestire il sistema operativo della vita fondato sulla multiprocessualità: se vuoi tenere in piedi la vita, infatti, devi saper usare molti programmi contemporaneamente ed essere in grado di introdurre innovazione e flessibilità attivando la previsione intuitiva e le competenze empatiche.

Non si tratta di welfare, tradotto troppo spesso come Stato assistenziale, ma di una rivoluzione nella forma del Contratto sociale tra donne e uomini, che metta al centro la vita umana, la sua riproduzione e conservazione, denunciando le tante forme ancora esistenti di selezione della specie umana che operano attraverso le guerre, i genocidi, le violenze, la denutrizione, la malattia, lo sfruttamento, la censura, l’impoverimento, il furto di risorse, il maltrattamento, l’oppressione, la manipolazione della realtà, la mortificazione, soprattutto contro le donne.

Quella che Lidia Menapace ha definito Economia della riproduzione, è ancora per molta parte sommersa, non tematizzata, vissuta nello scorrere della quotidianità che vive di gesti necessari e quindi anche necessariamente inconsapevoli. Se un bambino piange non c’è tempo di scrivere o leggere un libro sull’argomento, la risposta va trovata dentro i propri gesti e subito.

Proprio per questo le donne hanno rivendicato poi il tempo per scrivere e leggere.

I lavori della riproduzione (biologica, domestica, sociale) non possono essere organizzati e valutati secondo i parametri della produzione e non determinano profitto perché le persone non sono merci, anche se l’attuale versione del capitalismo in crisi spinge alla mercificazione umana non più solo attraverso lo sfruttamento e la schiavitù (che comunque ancora esistono) ma attraverso la conquista dell’immaginario individuale, piegato e asservito dalla pubblicità mediatica.

Non si esercitano virtù eroiche nell’insegnare, assistere, curare, ascoltare, accompagnare, cucinare, pulire, soccorrere, si tratta di virtù quotidiane per le quali non abbiamo bisogno di monumenti, premi, bonus, ma di grandi cambiamenti.

Non è il merito, ultima grossolana rivisitazione dell’eterno mito eroico maschile, a garantire l’esistenza umana, ma il diritto di esercitare ed esprimere i propri talenti nella straordinaria varietà che fa di ognuna e ognuno un vissuto unico. Per questo la storia del diritto, che noi donne abbiamo appena cominciato a forzare, è ancora da scrivere.

L’ideologia familista trova facilmente a proprio sostegno religioni ed esperti di benessere psicofisico, del cui sapere mancano di alfabeti e pratiche, e va smascherata perché dietro le immagini di stucchevoli buoni sentimenti nasconde un’enorme operazione economica a danno delle donne.

Un’operazione economica che traveste quote di lavoro necessario, prevalentemente femminile, affidandolo ai ruoli domestici definiti (e camuffati) dalle relazioni affettive, al volontariato sociale, straordinario serbatoio di energia generosa e creativa spesso subalterno alle logiche manageriali ecclesiastiche o simili, alle istituzioni del privato cosiddetto sociale, spesso religioso, che gestiscono l’accesso ai diritti da parte di persone con debole o nulla attribuzione di cittadinanza, drenando risorse che spetterebbero all’erario delle istituzioni pubbliche, dallo Stato ai Comuni, sottratte così alle forme democratiche del vivere collettivo.

L’aziendalizzazione di sanità, scuola, pubblica amministrazione, insieme al trasferimento di mansioni e professioni proprio al cosiddetto privato sociale, fuori dal controllo pubblico (che non significa ovviamente solo statale) si caratterizza poi in Italia, e non solo, anche come grave deficit di laicità, contribuendo a intaccare le forme democratiche del vivere comune.

Senza le donne la democrazia non può vivere e la democrazia ha la sua forma nella laicità che fonda il diritto all’esistenza di ogni differenza individuale dentro l’uguaglianza sociale.

Questa è la storia che stiamo cominciando a scrivere e che molti vorrebbero fermare.

Anche molte, ma sono così asservite al patriarcato che certamente non vogliono essere menzionate al femminile e considerano un onore essere incluse nel neutro maschile fondato sul sessismo.

Basta guardare proprio alle forme per capire che la democrazia è ai suoi inizi: palazzi, rituali, gestualità sono ereditati direttamente dalla più lunga storia monarchica e la gerarchia, non il lavoro, resta il pilastro ancora solido a fondamento dello Stato.

Nella società tripartita tra coloro che pregano, che combattono, che lavorano, in cui si riconosce l’Europa che si forma intorno all’anno mille, secondo il testo di Adalberone de Laon, alle donne spetta il ruolo di riproduttrici della specie.

Un ruolo, non anche un lavoro, e tale resta ancora nelle teorie economiche del capitalismo nascente che indicando in astratto la forza-lavoro, tengono in concreto le donne come riserva fisica, carne umana assoggettata a un maggior sfruttamento e minori tutele rispetto agli uomini.

Di volta in volta poi la cooptazione e l’asservimento passano attraverso l’invenzione o la manipolazione delle definizioni e l’elargizione di qualche manciata di privilegi che dividono le donne impedendone l’alleanza: vestali, veline, casalinghe e chissà cos’altro per cancellare autonomia e autodeterminazione.

L’idea di cittadinanza, fin dal suo nascere, incrina profondamente uno schema politico diventato gabbia antropologica, ma è proprio l’imprevisto della soggettività femminile, che impone una diversa concezione dell’individuo, a irrompere con la sua carica totalmente eversiva negli schemi politici dati.

Ci troviamo ad agire nelle istituzioni e nella società costrette spesso a indossare abiti che ci sono estranei per origine e tessuto, ma i nostri corpi li stanno già modificando.

Abbiamo introdotto nella politica i corpi, il tempo umano delle diverse età, gli spazi del quotidiano e stiamo rendendo visibile quell’economia della riproduzione, efficacemente definita da Lidia Menapace, che necessita di una precisa attribuzione di valore nelle sue espressioni lavorative, ma non può rispondere alle logiche del profitto e del mercato, pena la barbarie.

Questo accade già nei fatti, ma non riusciamo a imporne la rappresentazione nella politica.

I tagli alla spesa pubblica, ad esempio, significano per moltissime giovani donne la regressione a una minore contrattualità sociale in tutti i lavori di assistenza, educazione, cura di minori, disabili, anziani, dati in appalto alle cooperative, con contratti a termine, precari e con tutele continuamente erose. Per non parlare dei lavori legati alla conoscenza, dall’insegnamento alla ricerca, e a tutta la creatività aperta dagli elevati livelli d’istruzione e dalle nuove tecnologie: nuove strade che vengono sbarrate dall’assenza di investimenti.

Il pianeta stesso chiede un’altra economia e non ascoltiamo la durezza della sua voce.

Cos’è la complessità sociale se non un’inedita visibilità dei soggetti a cominciare proprio dalle donne? Non è un momento facile, certo, ma quando mai lo è stato per le donne?

Per questo usiamo tutti gli strumenti e le risorse che ognuna ha a disposizione, ma facciamo attenzione a non vendere la nostra complicità insieme ai nostri talenti, festeggiamo i successi senza abdicare al pensiero critico, cerchiamo le opportunità misurando continuamente le condizioni complessive del nostro genere.

Liberandoci dagli stereotipi della femminilità abbiamo indicato la strada perché gli uomini affrontino gli stereotipi della virilità, che ancora così potenti governano le istituzioni.

Ci hanno costrette ad usare la dissimulazione, la seduzione, il travestimento per sopravvivere, sono pratiche forse non nobili ma comunque non violente. Possiamo utilizzarle e trasformarle a favore di tutte e tutti.

Tra donne non chiediamo reciprocamente fedeltà, essendo laicamente libere di essere infedeli anche a noi stesse, perché la cittadinanza delle donne cresce tra responsabilità e solidarietà. Questa è per noi la lealtà.

Nel 1994, nel corso dei lavori del Woman’s Global Strategies Meeting, Robin Morgan insieme a 148 donne di cinquanta paesi e a nome di milioni di altre ha scritto: “per migliaia di anni le donne hanno avuto responsabilità senza potere, mentre gli uomini avevano potere senza responsabilità. Agli uomini che accettano il rischio di esserci fratelli offriamo un equilibrio, un futuro, una mano. Ma con loro o senza di loro, noi andiamo avanti”[1].

Attraverso il tradimento le donne hanno affermato il diritto ad essere se stesse, a inventare un’identità che è mutamento.

Mutamento come possibilità, aspirazione, desiderio ma anche senso del limite, finitudine che si sperimenta generando, mutamento di età contro ogni stereotipo fisico-identitario, mutamento dei pensieri e dei percorsi di vita tra consapevolezza, ricerca, intuito, scelta, esercitando di fatto uno dei fondamentali diritti individuali: il diritto a poter cambiare.

(*) Rosangela Pesenti, 1953.
Laureata in filosofia, Counsellor Professionista e Analista Transazionale (C.T.A.), PhD in Antropologia ed Epistemologia della complessità; Insegnante nella Scuola Media Superiore fino al 2013; dal 1987 formatrice sui temi del ciclo di vita, del disagio, della gestione nonviolenta dei conflitti, della differenza e identità di genere, della storia politica delle donne con particolare attenzione ai temi cruciali del Novecento.
Pubblicazioni: 1998, Trasloco, Supernova, Venezia; 2001, Velia Sacchi…e io crescevo, Supernova, Venezia; 2013, Racconti di case, il linguaggio dell’abitare nella relazione tra generi e generazioni, Junior.
Varie collaborazioni con riviste, tra cui Marea, stabilmente dal 2005, e saggi in volumi collettanei, tra i quali: 2002, Volevamo cambiare il mondo, Carocci; 2004, Donne manifeste, a cura di Marisa Ombra, Il Saggiatore; 2005, Donne Disarmanti, a cura di Monica Lanfranco e Maria Di Rienzo, Intra Moenia; 2009, La Rosa d’inverno, Edizioni Punto Rosso; 2010, Donne e politica. Gruppi e reti, a cura di Alberto Zatti, Rubbettino.
Entrata giovanissima nel movimento femminista, nell’Udi dal 1978, di cui è stata in vari ruoli una dirigente nazionale, fonda il Gruppo Sconfinate con la Scuola politica Giacche Lilla.

[1] Robin Morgan, Cassandra non abita più qui, La Tartaruga, Milano, 1996, p. 132