L’ambiguità delle piazze francesi

Rossana Rossanda
www.sbilanciamoci.info

Non si possono portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista francese, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica

Le sole parole equilibrate nel diluvio di dichiarazioni di orrore e di angoscia anche della stampa italiana per l’assassinio dei disegnatori e del direttore di “Charlie Hebdo” le ha scritte Massimo Cacciari, riportando la questione alla sua dimensione temporale e politica. La grande emozione e protesta che ha subito riempito in modo spontaneo le piazze francesi non è mancata infatti di qualche ambiguità. Si è potuto manifestare legittimamente, e quasi accogliendo l’invito del presidente Holland, il rifiuto del fondamentalismo e la difesa della repubblica e il “no” ai problemi posti dalla grande immigrazione musulmana in Europa.

Facilitata in Francia dal troppo coltivato richiamo alla colonizzazione francese in Africa del Nord e nel Medio Oriente. Da molti decenni si è dimenticato che un accordo fra un alto funzionario inglese, Sykes, e uno francese, Picot, disegnò la spartizione dell’impero ottomano fra Francia e Gran Bretagna. La Gran Bretagna poi ha prevalso e ancora più recentemente hanno prevalso le politiche degli Stati Uniti. Ma le recenti scelte di Holland di intervento nel corno d’Africa e nell’Africa centrale hanno, senza volerlo, ripristinato l’immagine di una gloria coloniale che dà fiato a Marine Le Pen. Ugualmente le parole del presidente Holland subito dopo l’attentato, richiamando tutto il paese all’unità contro il terrorismo, sono parse legittimare la richiesta del Fronte nazionale di partecipare alla grande manifestazione ufficiale antifondamentalista di domenica prossima, che lo ha messo non poco in imbarazzo davanti allo slancio con il quale Marine Le Pen ha annunciato la sua partecipazione. Non si possono infatti portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica.

Lo slogan “Je suis Charlie” manifestava efficacemente un appoggio a un giornale niente affatto di grandissima diffusione, che in generale non fa complimenti al Fronte Nazionale. Si può del resto discutere di un tema già volgarizzato in Italia come l’immunità politica della satira, oggi difesa apparentemente da tutti. Le famose vignette danesi contro Maometto sono state amplificate da Charlie Hebdo in un’accentuazione dell’ateismo fin troppo augurabile ma da non identificare col disprezzo di tutti i credenti: “Nel cesso tutte le religioni”, aveva scritto e pubblicato in prima pagina quel giornale. Alla incapacità della sinistra di portare argomenti laici alla ribalta dell’opinione pubblica, e di rispondere al richiamo oggi esercitato specie da alcuni monoteismi e dal buddismo, sia pure assai diversi, ha corrisposto l’indulgenza a forme facili di caricatura, che sicuramente hanno offeso i milioni di musulmani in Europa. Basti pensare a quale accoglienza avrebbero avuto se quelle vignette si fossero nominativamente applicate a Gesù Cristo. Non penso che sia utile lasciare ai caricaturisti un compito che per loro natura, volendo irridere a tutte le fedi, non possono esercitare: è come se gettassero un fiammifero in un barile di benzina. È proprio la debolezza della sinistra del dopo il 1989 a produrre questa rinascita in forza delle religioni.

Per quanto riguarda quella musulmana, come non chiedersi perché il suo fondamentalismo – che pareva essere escluso da una organizzazione non piramidale delle sue chiese – sia scoppiato in queste forme mortifere, particolarmente oggi. Maometto esiste dal Settimo secolo e da allora in poi l’atteggiamento dell’impero ottomano, per esempio nei confronti degli ebrei, è stato di gran lunga più tollerante e tendente all’assimilazione di quello della chiesa cattolica, che ha voluto le crociate e lo ha investito di maledizioni e improperi, senza che questi portassero a nessuna Jihad, anzi, il famoso “feroce Saladino” era un interessante pacifista. L’estremismo dell’ammazzare tutti i non fedeli al profeta appartiene ai nostri giorni, ed è molto più serio cercarne le origini nelle forme coloniali e non coloniali adottate dall’Occidente che in un passo o l’altro del Corano.

Un fenomeno non meno importante riguarda il fascino che forme estreme di milizia, che arrivano fino al mettere in conto la propria morte per “martirio”, abbiano sui giovanissimi occidentali che raggiungono la Siria o altri luoghi dove possono arruolarsi con i maestri del fondamentalismo. La tanto conclamata fine delle ideologie sembra aver lasciato in piedi soltanto l’assolutismo di alcune minoranze musulmane, come appunto la Jihad e in modo particolare il recente Daesh, cioè lo Stato islamico rappresentato dal cosiddetto Califfato di al Baghdadi.

Da noi già appare la voglia di condannare i rappers che sembrano ispirarsene: errore dal quale bisognerà guardarsi. Insomma, il fascino dell’islamismo radicale corrisponde alla stupidità con la quale la cultura predominante in Occidente sembra trattare il bisogno di un “senso” non riducibile ai soldi che gli aspetti ideologici della globalizzazione hanno tentato di offuscare dalle parti nostre. Grande problema del nostro tempo che è inutile esorcizzare.

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Parigi e i cialtroni della libertà

Fabrizio Casari
www.altrenotizie.org

Due milioni di persone, forse più, hanno partecipato alla manifestazione di Parigi, la più grande della storia della Francia. Prima ancora che il ripudio del terrorismo e oltre che solidale con la sorte dei giornalisti uccisi e delle altre vittime, la piazza ha voluto testimoniare con forza una identità culturale e il bisogno di sentirsi uniti contro una paura fino ad ora sconosciuta. Semmai stonavano, alla testa dell manifestazione, politicanti degni di comparire in scenari di ben altra natura, vista la partecipazione dei loro rispettivi paesi alle operazioni belliche che, ogni giorno, flagellano l’intero Medio Oriente.

Sentire invocare la pace a esponenti di governo che sono in guerra permanente della prima invasione dell’Iraq, sembra per certi versi più comico di alcune delle vignette di Charlie Hebdo.

Sulla ferocia assassina dei fratelli Kouachi, adepti dell’Isis (pur se al-Queda ha provato ad addossarseli) non ci sono dubbi. In molti ritengono che quel giornale fosse dotato di cattivo gusto a vendere e che le sue vignette, in realtà, fossero una manifestazione ricorrente di volgarità gratuita e rappresentasse una costante offesa all’Islam per la quale proteste e minacce si erano accavallate. Ovvio, persino ridondante sottolinearlo, che nessuna presunta colpa del giornale può comunque prevedere una simile vendetta; nessun ipotetico affronto può vedere la violazione del corpo e lo scorrere del sangue come reazione. La colpa di risultare fuori luogo non può prevedere la pena di morte. Qui deve alzarsi un muro invalicabile. Se così non fosse, tutto sarebbe spiegabile e, di per sé, giustificabile. Ma così non è, non può e non deve essere.

Ma è un altro l’aspetto su cui soffermarsi ora. Legittimo chiedersi: è vero che la satira non può avere censure? E’ vero che la libertà di dire, disegnare o scrivere qualunque cosa su chiunque e su qualunque argomento non possa essere mai messa in discussione? Forse non è così; anzi, certamente non è così. La libertà d’espressione, come tutte le manifestazioni di libertà, esiste in quanto capace di autoregolamentarsi per evitare di tracimare nell’insulto gratuito, nella più totale mancanza di rispetto e di buon gusto; deve finire dove comincia la libertà e la sensibilità di chi di quell’espressione di “libertà” può ritenersi vittima.

La libertà da rispettare non è anche quella di chi non vuole sentir offesa la propria religione, il proprio credo spirituale? E quella libertà come la si garantisce? Non si può certo pensare d’imporre per legge il buon gusto e di sanzionarne penalmente la sua assenza, ma certo non si può nemmeno ritenere che le libertà degli altri (da noi) possano essere ignorate mentre le nostre vadano difese.

Ci si chiede, insomma, se Charlie Hebdo avesse o no il diritto inviolabile di poter ironizzare (pesantemente) anche su una religione come l’Islam, che tra i suoi precetti annovera il divieto di citare Allah e Maometto (Dio e il suo Profeta) per ironizzare. Si può ritenere ciò eccessivo, sbagliato, ingiusto e via dicendo; ma il fatto è che così stanno le cose e che non è possibile disegnare il mondo a piacere nostro.

Fanatici musulmani? Anche altre religioni, pur meno rigide dell’Islam (o, forse, più che dell’Islam delle sue interpretazioni e letture radicali) non consentono di nominare Dio se non per la preghiera, e il reato di vilipendio alla religione c’è nella nostra “liberissima” Italia e non solo nei paesi islamici. E provate a ironizzare sulla religione nel Giappone scintoista o nell’India induista e vedete a cosa andate incontro.

Il terrorismo è ributtante e l’estremismo islamico rappresenta il ritorno dell’essere umano al Medioevo, anzi all’età della pietra. L’adesione alle leggi coraniche comporta la generale riduzione delle libertà individuali e collettive, dunque nessuno può pensare di un riconoscimento verso quel modello. Ma né l’Islam, né Maometto c’entrano niente con i terroristi autori della carneficina di Parigi (con cui invece c’entra – e non poco – l’Isis, che con l’aiuto anche della Francia, combatte in Siria contro Assad, presidente laico). Non a caso l’Islam vero, anche quello più radicale (dall’Iran a Hezbollah, ad Hamas) non ha esitato a condannare la barbarie dei fratelli Kouachi.

Alcune delle vignette pubblicate da Charlie Hebdo con l’ironia avevano poco a che fare: esprimevano invece un malcelato divertimento nella derisione dei musulmani, accarezzando il venticello razzista, tipicamente francese, che vede “les arabes” come un corpo estraneo per quanto integrato; buono per fare baguette, ma ottimo solo se vive nelle banlieue. Quando infatti si disegna una vignetta il cui testo è “l’Islam è merda”, dove sta l’ironia? Quando si disegna Maometto crivellato di colpi dov’è il divertimento? Non c’è nessuna ironia, solo razzismo e islamofobia. Alla vista di quelle vignette viene da ridere solo a un imbecille o a un lepenista, praticamente la stessa cosa.

C’è poi un punto non secondario: davvero si ritiene legittimo, per le nostre ansie di ricchezza e di potere, bombardarli, ucciderne a milioni, sbatterli nei campi profughi, condannarli alla deriva nelle carrette dei mari, rinchiuderli in ghetti o prigioni e poi, per buona misura, insultarli e dileggiarli, senza che trovino mai la voglia di reagire? E davvero è possibile ammazzarli come arabi e chiedergli però di reagire come britannici?

Deve esserci un limite a eurocentrismo ed occidentalismo. Mentre s’ironizza e si disprezza l’Islam, ogni salvaguardia delle norme, scritte e non, che attengono ad usi e costumi del cattolicesimo, viene vista con sguardo benevolo e comprensivo. Ad esempio, è parte del senso comune ritenere inappropriato un abbigliamento sexy in una chiesa, ritenuto giustamente non consono alla sacralità del luogo che merita rispetto anche da parte di chi non crede. A nessuno verrebbe in mente di difendere in nome della libertà una donna in minigonna e scollata dentro San Pietro ove essa fosse oggetto di rimostranze da parte dei fedeli o dei sacerdoti. Allo stesso modo, si ritiene imperdonabile una bestemmia in radio o in tv e la mannaia della censura è scattata in automatico ogni qual volta ciò si è verificato.

Si riconosce, insomma, che c’è un limite di buon gusto e di rispetto che non può essere fatto regolarmente deragliare sui binari della presunta libertà assoluta dell’espressione, corporea o verbale che essa sia. Si ritiene, in sostanza, che la “libertà” di dire o fare ciò che vogliamo, vada ricondotta comunque nell’alveo del rispetto per chi ci circonda. La libertà senza norme e senza rispetto è arroganza pura.

C’è poi il capitolo, questo sì comico, della nuova leva di difensori della satira che, qui da noi, come sempre diventa una boutade all’italiana con dosi massicce di melassa. Destino ciclico il nostro. Non appena un tema rischia di diventare serio, arriva il carrozzone dei twittaroli alla Gasparri o Santanchè e in automatico tutto diventa farsa all’italiana. Quando non bastano arriva Battista.

Benché gli indignati d’Occidente si dichiarino fedeli difensori della libertà d’espressione, non c’è da dargli credito, perché quando la satira tocca la religione cattolica, gli stessi difensori di oggi della libertà d’espressione, insorgono contro la satira. E non solo: tra gli inquisitori di comici e giornalisti italiani figurano molti degli arnesi della destra oscurantista e beghina italiana che oggi si trasformano in emuli di Voltaire.

Sono quelli che s’indignarono per una battuta di D’Alema all’indirizzo di Brunetta o per le vignette di Vauro all’indirizzo del cavaliere, ma che di colpo, se si tratta d’insultare i musulmani, si scoprono libertari.

E a chi dovesse credere a questa nuova ventata di liberalità a piene mani verso il diritto all’espressione, sappia che questo Parlamento di corrotti ed incapaci vota norme liberticide sulla libertà di espressione per i giornalisti: dunque con quale faccia tosta si presenta ai microfoni per difendere la libertà d’espressione quando si tratta di satira? Perché se la satira ha libertà totale non altrettanta libertà si riconosce – ad esempio – alla stampa? Perché non la possono avere le idee, le parole e i gesti, per i quali invece sono previste sanzioni?

Politicanti e ipocriti. Sono ignobili cialtroni che strumentalizzano la tragicità di quanto accaduto, dal momento che molti di essi hanno plaudito alle epurazioni berlusconiane alla Rai, alle minacce contro le trasmissioni d’inchiesta e, incuranti di mettere in discussione la propria casta, insorgono contro le professioni che non siano la loro. Un destino malefico ce li impone dal 1994. Fortunati i popoli che non hanno bisogno di eroi, diceva Bertold Brecht: ma qui non c’è da stare allegri: di fortuna e di eroi non se ne vedono tracce.