Fondamentalismo religioso, minaccia od opportunità? di JM.Castillo

José María Castillo
Adista Documenti n. 4 del 31/01/2015

I recenti e dolorosi fatti avvenuti a Parigi, presumibilmente provocati dai fondamentalisti religiosi della Jihad islamica, hanno fatto scattare ogni allarme, non solo in Francia, ma in tutta Europa. I politici e i corpi di sicurezza dello Stato si sono logicamente posti in stato di massima allerta. In ogni Paese, i governanti spiegano alla popolazione che non c’è da avere paura, che tutto è sotto controllo e che l’ordine è assicurato. Non ci sono motivi di preoccupazione, giacché contiamo su poliziotti armati e su corpi di sicurezza che garantiscono a tutti la necessaria stabilità per vivere in maniera tranquilla.

Non ci sono ragioni per mettere in dubbio la versione dei nostri politici (…). Il problema, però, non ha a che fare con la disponibilità dei mezzi necessari alle forze di sicurezza per difenderci. Il problema risiede nel fatto che il nemico, in questo caso, supera qualsiasi strumento di difesa di cui possano disporre i mezzi di sicurezza dello Stato. Perché la lotta è tra forze impari. I mezzi su cui conta la polizia si basano sulla tecnica. I mezzi su cui conta il fondamentalismo religioso si basano sulla coscienza e sugli occulti interessi ad essa relazionati. Ebbene, ciò vuol dire che i mezzi su cui conta la polizia sono conosciuti, mentre quelli su cui conta il terrorismo religioso no (né possono esserlo). Per questo nessuno può minimamente immaginare dove, quando e come attaccheranno i terroristi fanatici di una religione. A essere sinceri, non abbiamo altro rimedio che riconoscerlo. Per quanto sgradevole o costoso risulti farlo.

Stando così le cose, che possiamo fare? Naturalmente, per ciò che riguarda il ruolo dei corpi di sicurezza dello Stato, è necessario appoggiare lo sforzo enorme che questi compiono per assicurare la nostra protezione dinanzi alle minacce del terrorismo religioso. Ma, detto questo, è fondamentale avere le idee molto chiare sul fatto che il cammino per trovare una soluzione definitiva non è quello che possono tracciare i politici, con le loro riunioni e i loro accordi, né quello che possono offrire i corpi di polizia, con i loro armamenti e le loro strategie. Se la radice del pericolo affonda nelle coscienze, quello su cui è urgente riflettere in maniera approfondita è se si possa – e si debba – rinnovare le religioni in maniera che, in esse, non trovino posto le coscienze dei terrorismi fondamentalisti. È possibile? Di più: oltre ad essere conveniente, è anche necessario?

Il dato fondamentale, in tutta la questione, risiede in quello che è il punto di partenza del fatto religioso: non la fede in Dio, ma la fede nei rituali religiosi. Sto parlando dei lontani tempi del paleolitico superiore. Anzi, essendo molti i paleontologi convinti del fatto che già i neandertaliani praticassero la sepoltura cerimoniale dei morti, attività di questo tipo potrebbero essere state accompagnate da idee religiose già circa 100mila anni fa (Konrad Lorenz, E. O. Wilson, K. Meuli, W. Burkert, H. Kühn). Si è detto giustamente, pertanto, che «Dio è un prodotto tardivo nella storia della religione» (G. Van der Leeuw; cfr. R. P. Marret, M. P. Nilsson). E la storia successiva, fino ai nostri giorni, si è incaricata di dimostrare che gli individui, fin dall’infanzia, e la società in generale, così come la cultura, assimilano con più facilità e chiarezza la fede nei riti che la fede in Dio. Se, per quanto riguarda le pratiche rituali, è frequente che la gente vi si aggrappi, per ciò che riguarda Dio, invece, un’idea certa e chiara risulta per molti qualcosa di problematico e, in ogni caso, rappresenta un sentimento minacciato dall’oscurità. Le pratiche rituali tranquillizzano le coscienze. La questione di Dio è, per molti, un problema irrisolto che si vive spesso come un mistero o, almeno, come un enigma.

Non è possibile analizzare qui la profondità e le conseguenze di quanto appena indicato. Ma c’è qualcosa, qualcosa di assolutamente fondamentale, che non possiamo lasciar da parte. Si tratta di un fatto a cui stiamo assistendo quotidianamente e da ogni parte. Mi riferisco alla quantità di fedeli che si confessano credenti, ma che, nella propria vita, sono osservanti rigorosi più dei rituali religiosi che delle esigenze etiche a cui si dovrebbe rispondere come cittadini esemplari. Riduciamo la nostra religiosità a determinate pratiche rituali, escludendo da questa il rispetto, la tolleranza, la sensibilità di fronte alla sofferenza, soprattutto la sofferenza dei più deboli. E così via. Fino al punto di rendere compatibile la stretta osservanza della religione con la violenza più brutale di fronte a tutto quello con cui non ci troviamo d’accordo.

Questa violenza, del resto, è comprensibile. E spesso risulta inevitabile. Perché la religione è credere in un potere assoluto. Che si traduce logicamente nell’obbligo indiscutibile di un’obbedienza assoluta. Ebbene, dal momento in cui il centro della vita (e il futuro della salvezza) dipende da un’obbedienza assoluta, la conseguenza inevitabile è che tale obbedienza venga prima di tutto il resto, anche della vita stessa di quanti si oppongono o non rispettano tale obbedienza.

Naturalmente, una persona che pensa e vive in questo modo non può trovarsi in sintonia con la modernità, con una società laica in cui i diritti fondamentali dell’essere umano hanno la precedenza su tutto ciò che possa limitarli e soprattutto ridurli o annullarli. Dal momento dunque in cui ci troviamo dinanzi a questo problema, inciampiamo per ciò stesso nelle radici del fondamentalismo religioso. È il problema che già aveva intuito il professore dell’Università di Harvard Charles Eliot, nel 1909, quando evidenziò che il dilemma dei cristiani, nel mondo moderno, consiste nel dubbio se porre il centro della nostra fede nelle esigenze etiche o se collocarlo piuttosto nella fedeltà alle credenze ortodosse e ai rituali sacri (cfr. Karem Armstrong). Come è logico, i fondamentalisti religiosi pongono a tal punto (e a tale estremo) il centro della loro vita e dei loro interessi nella fedele osservanza dei rituali sacri da anteporre tale osservanza alla vita stessa. La vita di chiunque e in qualunque caso. Fino all’estremo di essere disposti a uccidere, o a lasciarsi uccidere, pur di non permettere che la società democratica, laica e secolare prenda il sopravvento sulla società condizionata e sottomessa alle esigenze della religione.

Nel caso del cristianesimo, è nota l’offensiva dei credenti, soprattutto della alta, alle libertà e ai diritti dell’uomo e del cittadino promulgati dall’Assemblea Nazionale francese nel 1789. Da allora, è nota la posizione intransigente di uomini come Louis Bonald, Joseph de Maistre e La Mennais in Francia, Karl Ludwig von Haller e Friedrich von Hurter in Germania, Donso Cortés in Spagna. E non va dimenticata la resistenza del papato, da Pio VI (nel 1790) fino a Pio X (nel 1906), per ciò che riguarda le due grandi esigenze della modernità: l’uguaglianza e la libertà.

Non intendo entrare nella complicata storia recente del fondamentalismo ebraico e islamico. Mi limito a ricordare, per quanto concerne quest’ultimo, i nomi di Mustafa Kemal Ataturk (1919-1922), in Turchia, e di Rashid Rida (1922-1923), in Egitto, che propugnarono società di carattere moderno più che società fedeli a quel passato islamico su cui si erano rette fino agli inizi del XX secolo. Da allora, nel mondo islamico, ci sono non poche persone e non pochi gruppi che vedono nella società laica e democratica una minaccia per l’integrità e la stabilità delle proprie certezze.

In tale quadro, esiste in questo momento, senza dubbio alcuno, un forte condizionamento in termini di interessi di potere e di ambizioni economiche. Ma il cuore del problema è, sicuramente, di carattere religioso. Si tratta dell’attacco sferrato dalla religione centrata sulla più stretta osservanza e imposta obbligatoriamente a tutta la società. Un califfato. Quanto c’è di più diametralmente opposto al progetto fondamentale di una società laica, libera e rispettosa delle convinzioni religiose, una società in cui al primo posto vi siano i diritti fondamentali degli esseri umani.

Considerando, dunque, che ci troviamo in questa situazione, si può comprendere l’attualità appassionante racchiusa in ciò che ho definito, in un recente studio, come “la laicità del Vangelo”. I racconti che offrono i vangeli sono la storia dello scontro di Gesù con le radici del fondamentalismo religioso. Gesù, in effetti, aveva compreso come il maggiore pericolo, per la religione e per l’umanità, risiedesse proprio nella sottomissione incondizionata ai rituali religiosi, al punto da privilegiare questi ultimi rispetto alla sofferenza umana, ai diritti umani, alla dignità delle persone e alla vita stessa. È questo che Gesù non tollerò in alcuna maniera. E fu proprio per questo che i leader religiosi considerarono il progetto di Gesù incompatibile con il progetto da essi difeso al di sopra di tutto.

Penso, inoltre, che in non pochi testi dei profeti di Israele, come in numerosi documenti del Corano, l’aspirazione alla pace e la comprensione tra gli esseri umani e tra i popoli siano offerti come principi guida della società.

La conclusione più ragionevole che si può trarre dalla riflessione esposta è che, per quanto importante e urgente ci appaia la difesa dei nostri popoli, delle nostre culture e delle nostre società attraverso la solidità e l’efficacia delle forze di sicurezza dello Stato, ridurre la nostra difesa a tale solidità militare e poliziesca sarebbe come voler arginare la marea. Finché vi saranno individui e gruppi organizzati convinti che la propria missione sulla terra sia l’assoggettamento o addirittura lo sterminio di quanti vogliono e difendono una società che pone i diritti fondamentali degli esseri umani al di sopra delle norme e dei rituali della religione, tutti vivremo sotto minaccia. E sotto minaccia di morte, per quanti poliziotti ci difendano e per quanta sicurezza ci garantiscano i nostri governanti.

Ciò premesso, è chiaro che apprezziamo ed esigiamo che le polizie ci difendano. Ma, di fronte alla complessità del problema, apprezziamo ed esigiamo ancor di più che si gestisca l’educazione religiosa in modo che la prima cosa, che la cosa essenziale, in tale educazione sia inculcare in tutti noi – e in tutti i popoli di questo mondo – il fatto che la fede in Dio e il rispetto per Dio consiste, prima di tutto e soprattutto, nel difendere la vita, nel rispettarla, nel promuovere i diritti e la dignità degli esseri umani, fin quando l’uguaglianza di diritti e la libertà di fede e di convinzione non siano garantite a tutti.

Nel discorso della montagna, Gesù disse: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24). Si possono discutere non pochi dettagli di questo testo. Ma, in qualunque caso, quello che non ammette discussione è che qui si presenta un modello di religione il cui centro non è dato dall’osservanza del rituale. La cosa più importante, nella vita e nella religione, deve essere sempre mantenere la migliore relazione possibile con l’altro, chiunque sia e per qualunque motivo. Il giorno in cui tutti i bambini e i giovani del mondo verranno educati in questa convinzione, l’umanità avrà mosso il passo decisivo per iniziare a vivere in pace. E con la garanzia della sicurezza della pace.