Sono la bimba del mercato di P.Buhler

Pierre Bühler *
www.riforma.it

L’orribile massacro del 7 gennaio scorso nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi e le sue tragiche conseguenze hanno suscitato una gigantesca ondata di indignazione. I media, le reti sociali, gli spazi pubblici sono stati sommersi da testimonianze di protesta. Tutti esibivano il proprio «Je suis Charlie». I politici di ogni parte rivendicavano ad un tratto, con pathos, la libertà di espressione come il più alto valore repubblicano.

Un giornale satirico, che dava fastidio a molti, in particolare a questi stessi politici, e quindi da tempo minacciato di chiusura per mancanza di mezzi finanziari, diventava ad un tratto il maggiore simbolo di tutti i nostri valori democratici! Se non fossero stati già assassinati, i disegnatori di Charlie Hebdo non sarebbero «morti dalle risate», nell’assistere a questa vasta recuperazione del loro lavoro di instancabili satirici?

Certo, i delitti commessi ogni giorno vanno condannati senza alcuna esitazione né riserva mentale. Non si può mai tollerare la minima insinuazione di giustificazione, suggerendo che essi hanno
«pagato» le loro incessanti provocazioni, che essi dovevano assumere i rischi che stavano prendendo, etc… Sarebbe come quando si sospetta una donna di avere essa stessa provocato lo stupro di cui è stata vittima! E all’intenzione dei gruppi fanatici che si fanno difensori con le armi di una religione presa in giro, si deve dire quello che l’umanista Sébastien Castellion, di cui festeggiamo quest’anno il 500º anniversario, diceva già a Calvino nel 1553: «Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo».

La mia convinzione è anche che per ogni religione, qualunque essa sia, lo humour, ivi compresa la sua forma più pungente, la caricatura, la satira, è una sfida salutare. L’esagerazione svela gli eccessi della religione, i suoi abusi di autorità e di assoluto, i suoi eccessi di follia, individuale o di gruppo, i suoi deliri di regolamentazione. Con virulenza, la satira mette il dito sui possibili difetti, ed è un compito indispensabile, come una sorta di prova del fuoco che può permettere alla religione di maturare, di crescere in saggezza.

Detto questo, bisogna riconoscere che la satira è connessa alla responsabilità. Può essere utile tornare ai testi fondatori: nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, così come la libertà delle opinioni è sottoposta alla regola «che la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge» (art. 10), anche la libertà di espressione, «uno dei diritti più preziosi dell’uomo» (art. 11), è sottoposta a una regolazione: «ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge». Quando si fanno grandi discorsi sulla libertà di espressione, bisognerebbe riflettere su quello che rappresentano questi possibili abusi. Per me, la questione non sta semplicemente nel fissare dei limiti alla satira, a censurarla o a chiederle di autocensurarsi.

I veri abusi sono quando i difetti messi in evidenza dalla satira non vengono corretti, quando i problemi sui quali essa mette il dito non vengono trattati. Perché la satira non è gratuita, essa attira l’attenzione su difficoltà, ingiustizie, disuguaglianze, e su vigliaccherie, codardie nello sforzo di affrontarle di petto.
Allora, chiedo a tutti coloro che oggi proclamano «Je suis Charlie» se saranno ancora qui domani, quando bisognerà chiedersi come bisogna lavorare per l’ordine pubblico. Perché l’ordine pubblico è anche l’integrazione nelle banlieues, l’educazione civica nelle scuole, la giusta ripartizione delle ricchezze nella società, il riconoscimento reciproco delle culture e delle religioni. Ma è da temere che una volta di più, tutti gli sforzi si concentrino sulla repressione, lasciando da parte gli sforzi della prevenzione.

Lo stesso problema si pone su scala planetaria: la preoccupazione per la sicurezza in Europa, la compilazione di liste di persone pericolose, il controllo degli spostamenti negli aeroporti, etc… non bastano. Bisognerà una politica coraggiosa di cooperazione con le popolazioni svantaggiate del pianeta, se vogliamo davvero «neutralizzare» la violenza, latente e manifesta, dei fanatismi religiosi che ci spiano.

Un esempio: mentre tutta l’Europa aveva gli occhi volti verso Parigi, orrori ben peggiori stavano accadendo nel Nord Est della Nigeria. Lo stesso mercoledì 7 gennaio, Boko Haram ha raso al suolo 16 villaggi, e non è neanche possibile cifrare il numero di migliaia di vittime. E sabato, mentre centinaia di migliaia di persone protestavano nelle strade europee, la stessa setta fanatica ha trasformato una ragazzina di dieci anni in bomba vivente, mandandola a esplodere in un mercato. Più morti e feriti che a Parigi. Qualche riga discreta nei media, che parlano oltraggiosamente di un «attentato-suicidio»… Che cosa faranno domani i grandi difensori della libertà di espressione del week-end per lottare contro l’oppressione delle popolazioni in Nigeria e altrove?

Allora, io, oggi, in onore degli assassinati di Charlie Hebdo, non sono Charlie, sono la ragazzina del mercato di Maiduguri, di cui non si saprà mai neppure il nome…

* Professore di teologia sistematica a Zurigo (Traduzione dal francese di Jean-Jacques Peyronel)

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Libertà di espressione. Cinque questioni spinose

Olav Fykse Tweit
www.riforma.it*

Che cosa possiamo dire dopo gli attacchi di Parigi, mentre il dibattito su religione, principi di libertà di parola e prevenzione del terrorismo torna ad essere all’ordine del giorno? Naturalmente, dobbiamo condannare gli attacchi di Parigi, come hanno fatto tutti i settori della società in Europa e oltre. Ma gli attacchi dovrebbero anche suscitare degli interrogativi esistenziali da parte di tutti, inclusi i governi, i giornalisti, i leader religiosi e le persone ovunque coinvolte. Basandomi su alcune delle mie osservazioni a partire dal lavoro internazionale e interreligioso del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec), vorrei sollevare queste cinque questioni spinose.

1. Libertà di espressione: per cosa e per chi? È vero, la libertà di parola è effettivamente un diritto umano universale. Ma è anche un diritto che è sempre stato visto in relazione ad altri diritti e di conseguenza ad alcune restrizioni nel suo esercizio.
In ultima analisi, la libertà di parola e la libertà di stampa riguardano anche il potere. Noi dovremmo avere questo diritto per essere critici e onesti, in modo da contribuire al bene comune. La libertà di parola è un modo per contribuire a stabilire e ad assicurare la giustizia e la pace, correggendo squilibri di potere. Quindi, dobbiamo usarlo in modo responsabile.
Nessuno può ignorare questa questione, anche se possiamo dissentire sulle risposte: come stiamo servendo o danneggiando la giustizia e la pace per tutti attraverso quel che diciamo e pubblichiamo? Il dibattito occidentale può sembrare limitato. Spesso le persone che hanno più bisogno di libertà di espressione – i poveri, i diseredati, le donne, le minoranze – sono proprio coloro che hanno meno accesso a essa e che soffrono di più quanto tentano di esercitarla. Finora la libertà di espressione è applicata scarsamente o selettivamente in molti Paesi, compresi quelli che hanno partecipato alla sfilata di Parigi la settimana scorsa. Storicamente, la libertà di stampa è stata di valore limitato per coloro che sono impoveriti, visto che non hanno avuto controllo sulla stampa o sui mezzi di distribuzione. I diritti più rilevanti per i poveri sono stati quelli incentrati sulla libertà di parola e di assemblea, e anche di religione.

2. A volte usiamo la libertà di espressione come una licenza per il pregiudizio?
La satira può dire più di tante parole ordinarie su coloro che sono potenti. In tempi di dittatura, abbiamo visto come la satira (illegale in quei paesi) può essere un modo per dire la verità su coloro che detengono il potere. Ma anche dopo la tragedia di Parigi, che ha colpito sia una rivista satirica che la comunità ebraica, non è questo il tempo per tralasciare ogni autocritica.
I giornalisti e gli altri, e anche i politici, devono chiedersi se, richiedendo più satira o critica, non possono attizzare fiamme di odio, xenofobia, o di pregiudizio etnico e religioso. Anche Un altro esempio che vedo del perché la libertà di parola non debba essere affrontata come una semplice formalità è la pretesa di neutralità invocata dalle autorità giapponesi rispetto all’incitamento all’odio nei confronti dei coreani in Giappone. La sottile linea che separa l’incitamento all’odio e la violenza è labile, e ci sono esempi storici di come ciò possa facilmente trasformarsi in tragedia, come è stato per gli ebrei in Europa nel XX secolo, ed è tuttora.

3. La religione deve essere al di sopra delle critiche? Ammettiamolo: la religione ha fatto ed è parte del problema. A motivo della lunga e triste storia di tutte le religioni nel causare o almeno nell’essere usate per legittimare la violenza, anche oggi, la vita e le pratiche religiose non possono essere esenti dalla critica e dalla satira.
Tuttavia, a che cosa serve offendere milioni di musulmani, per esempio, con caricature di Maometto? Non è controproducente rispetto al più ampio obiettivo della satira e della critica? Come si può costruire fiducia reciproca tra i concittadini di una società multireligiosa offendendo i valori più profondi dei musulmani? In che modo ciò può servire l’obiettivo di favorire una cultura internazionale che dia spazio alla libertà di parola?
Oggi, i diritti delle comunità religiose e degli individui sono sotto forte pressione in molti paesi, e restrizioni e sanzioni crescono in modo drastico. La gente ha bisogno del diritto di criticare certi governi, senza paura di rappresaglie. Un’ulteriore polarizzazione tra culture e religioni non aiuta ad affrontare queste sfide. Ma forse è proprio quello che i terroristi vogliono che accada.
La libertà di criticare è anche significativa per le chiese e altri soggetti, così che sia possibile esprimersi contro coloro che abusano del potere per instaurare l’ingiustizia, la violenza, la repressione e la tirannia. È nostro dovere esprimerci apertamente per coloro che sono critici, particolarmente per coloro che non possono farlo da se stessi e hanno bisogno del sostegno di una voce comune.

4. Perché immaginiamo che Dio abbia bisogno di protezione? Le leggi non possono proteggere Dio, che non può essere ferito dai nostri simili. Ma esse dovrebbero proteggere gli esseri umani – i nostri diritti, la nostra dignità, le condizioni per la nostra vita comune. Le leggi anti-blasfemia in Pakistan, che il Cec ha condannato a varie riprese, creano un’atmosfera avvelenata e possono essere usate come pretesto per la persecuzione di minoranze cristiane, così come di musulmani. La lezione importante che ho imparato lavorando a livello interreligioso durante la crisi delle vignette satiriche del 2005-2006 in Norvegia è che dobbiamo stare insieme nella protezione del diritto alla libertà di parola, ma abbiamo anche bisogno di essere molto chiari nella nostra condanna della violenza. Questo per il bene di tutte le parti. Ma abbiamo anche bisogno di sforzi per creare una cultura della comunicazione in cui l’uno riconosca la dignità dell’altro, delle sue convinzioni e tradizioni.

5. Stiamo dimenticando il contesto più ampio? Parigi non è l’unico scenario di brutale terrore e di uccisione di civili innocenti. Boko Haram ha ucciso probabilmente duemila persone la scorsa settimana in Nigeria. Quanti sono stati uccisi da azioni terroristiche e azioni militari dallo stato siriano, e in Siria e Iraq dal cosiddetto Isis, non solo ora ma nel corso degli ultimi tre anni? Il contesto più ampio del terrorismo è l’ingiustizia e la mancanza di rispetto. In questo quadro ampio dobbiamo considerare come le persone di ogni religione presenti in Iraq e Siria stiano soffrendo dagli effetti negativi a lungo termine sia di interventi militari internazionali che dalla mancanza di volontà dei grandi attori, dentro e fuori la regione, per arrivare insieme a stabilire le soluzioni politiche necessarie. Questi e altri conflitti irrisolti danno spazio a intolleranza estrema e terrorismo. Se vogliamo costruire una società internazionale di giustizia e di pace, ovviamente dobbiamo agire contro coloro che vogliono minare questi sforzi dividendoci per mezzo del terrore e della violenza. Ma dobbiamo anche contribuire positivamente ai processi di giustizia e di pace. Uno degli elementi è una cultura della comunicazione reciprocamente responsabile, in libertà e con rispetto e dignità.

* World Council of Churches (Consiglio ecumenico delle chiese). Traduzione di Luca M. Negro