Tutti gli errori dell’Occidente. Una riflessione dei teologi sui fondamentalismi di C.Fanti

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 4 del 31/01/2015

Non poteva non interpellare anche la teologia il brutale attentato terroristico a Charlie Hebdo. Ed è una reazione che va oltre la condanna – unanimemente netta, come è ovvio – dei fatti di Parigi, smarcandosi dalla retorica che li ha immediatamente seguiti, nell’onda d’urto di quello che alcuni hanno definito non a caso come l’11 settembre francese. E se la speranza è che le conseguenze siano decisamente meno nefaste rispetto a quelle dell’11 settembre del 2001, non fa stare di certo tranquilli l’offensiva dei soliti avvoltoi pronti a trarre profitto dai fatti di sangue, da Marine Le Pen ai “nostri” Salvini e Meloni. Né può rassicurare la straripante ipocrisia dei capi di Stato impegnati a sfilare nell’oceanica manifestazione di Parigi contro il terrorismo, dopo averlo alimentato in ogni modo possibile (e continuando ad alimentarlo senza ripensamenti). E neppure è confortante l’ennesima dimostrazione di quanto non tutte le vittime pesino allo stesso modo, considerando le reazioni assai più tiepide suscitate dalla strage nella città nigeriana di Baga – 2mila morti – compiuta da Boko Haram negli stessi giorni degli attentati di Parigi. Cosicché, se è risuonato dappertutto lo slogan “Je suis Charlie”, ben pochi si sono ricordati di aggiungere “Io sono Ahmed” (il poliziotto musulmano morto nell’attentato) e “Io sono nigeriano”.

Aspetti, questi, presenti in vario modo nelle reazioni dei teologi, diversi dei quali non esitano a criticare l’enfasi sulla libertà di espressione come diritto assoluto. Confortati, in questo, da posizioni come quella del filosofo e saggista bulgaro Tzvetan Todorov (che non per niente ha dedicato molti dei suoi studi alla categoria dell’alterità e al tema dei rapporti tra culture diverse), secondo il quale «la libertà di espressione pubblica, o la libertà dei mezzi di comunicazione, non è un valore inalienabile, intangibile, non negoziabile», in quanto, afferma nell’intervista concessa al quotidiano cattolico La Croix (14/1), lo Stato democratico è chiamato a difendere, oltre alla libertà di stampa, «un certo numero di altri valori, come la sicurezza dei cittadini, la pace civile, la giustizia, l’uguale dignità di tutti», che «esercitano un effetto limitante gli uni sugli altri». Non va dimenticato, prosegue Todorov, come i partiti xenofobi dell’intera Europa si richiamino «tutti alla libertà di stampa per poter dire impunemente tutto il male possibile nei confronti dei musulmani che vivono nel proprio Paese».

Un «obiettivo non assente», per esempio, tra gli autori delle caricature di Maometto apparse nel giornale satirico danese e all’epoca riprese anche da Charlie Hebdo (il cui carattere dissacratorio, anarchico, libertario non risparmia però – va riconosciuto – neppure le altre religioni e forse, si potrebbe dire, non risparmia nulla). E se «dobbiamo sempre interrogarci, nel difendere la libertà di stampa, sulla relazione di potere tra chi la esercita e chi la soffre» – gli oltre 6 milioni di musulmani che vivono in Francia sono in grande maggioranza poveri e vittime di esclusione e di pregiudizi -, il contesto dei tragici fatti di Parigi non è tuttavia, secondo Todorov, quello della lotta a favore o contro la libertà di espressione, quanto piuttosto quello del «conflitto tra una forma pervertita dell’islam e alcuni governi occidentali, compreso quello francese, che combattono militarmente nel territorio di questi Stati musulmani». Aspetto, quest’ultimo, che i capi di Stato presenti alla manifestazione di Parigi si guardano bene dal considerare, ma su cui si soffermano invece con grande enfasi molte analisi riconducibili al movimento altermondialista e alla Teologia della Liberazione.

Figli della politica occidentale

Così, per esempio, nel barbaro attentato a Charlie Hebdo il sociologo Atilio Boron (Rebelión, 9/1) vede «un lugubre sintomo di quella che è stata la politica degli Stati Uniti e dei loro alleati in Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale» (alleati tra cui la Francia gioca un ruolo tutt’altro che secondario, soprattutto in relazione alla Libia e alla Siria). Quanto accaduto, spiega, è «il risultato paradossale, per quanto prevedibile, del sostegno offerto dalla Casa Bianca al radicalismo islamico» in Afghanistan, negli anni ’80, in funzione antisovietica. E allo stesso modo lo interpreta Frei Betto (Brasil de Fato, 14/1), ricordando l’amicizia di George Bush senior con il padre di Osama Bin Laden, in virtù della quale il giovane Osama era stato reclutato dalla Cia per combattare gli atei sovietici in Afghanistan, per poi «entusiasmarsi alla jihad finanziata dagli Usa» e finire, nel 1996, per rivoltarsi contro gli stessi finanziatori.

Liberato il genio dalla bottiglia, il governo statunitense ha giocato allora la carta della dottrina della “guerra infinita” o “guerra al terrorismo”, le cui conseguenze sono dinanzi ai nostri occhi. Distrutto l’Iraq, la Casa Bianca – non volendo, al momento del ritiro delle truppe statunitensi, lasciare il Paese in mano agli sciiti, «alleati del principale nemico di Washington nella regione, l’Iran» – «ha avuto la bella idea – spiega ancora Boron – di riprendere la politica seguita in Afghanistan negli anni ’80: alimentare il fondamentalismo sunnita», contando per questo «sull’attiva collaborazione delle reazionarie monarchie del Golfo, e in particolare della troglodita teocrazia dell’Arabia Saudita, nemica mortale degli sciiti e, pertanto, dell’Iran, della Siria e dei governi sciiiti dell’Iraq».

E puntando, per questa via, a ridurre la regione a un arcipelago di sette, milizie, tribù e clan in lotta gli uni con gli altri e dunque incapaci di opporre resistenza all’appropriazione occidentale delle ricchezze petrolifere. Finché i fondamentalisti sunniti, «esaltati come “combattenti per la libertà” e utilizzati come mercenari per destabilizzare la Siria», non si sono messi in proprio, dando vita a «un progetto loro, quello dello Stato Islamico», trasformandosi «nella guerriglia più ricca del pianeta, con entrate stimate di due miliardi di dollari annuali» e dedicandosi a sgozzare, decapitare e assassinare «infedeli a destra e a manca, non importa se musulmani di altre correnti, cristiani, ebrei o agnostici, arabi o meno, il tutto in aperta profanazione dei valori dell’islam».

Ma la tragedia di Charlie Hebdo è, secondo Boron, anche il frutto di un altro tipo di terrorismo, quello di Stato, praticato dalle democrazie capitaliste nel mondo arabo: «Le torture, vessazioni e umiliazioni commesse ad Abu Ghraib e nelle carceri segrete della Cia, le stragi consumate in Libia e in Egitto, gli indiscriminati assassinii quotidianamente perpetrati dai droni statunitensi in Pakistan e in Afghanistan, dove solo due caduti su cento sono terroristi, l’“esemplare” linciaggio di Gheddafi, l’interminabile genocidio a cui sono periodicamente sottoposti i palestinesi da parte di Israele, con l’assenso e la protezione degli Stati Uniti e dei governi europei. Crimini, tutti questi, di lesa umanità ma che non commuovono la presunta coscienza democratica e umanista dell’Occidente». Non sarebbe allora male, secondo il teologo spagnolo Benjamín Forcano (Alai, 15/1), mettersi a contare «le migliaia e migliaia di musulmani, fanatici o meno, caduti sotto le bombe statunitensi in Afghanistan e in Iraq. Ma, a quanto pare, morire per mano di terroristi musulmani a Parigi o a New York ha un altro peso che morire sotto bombe cristiane in deserti dai nomi impronunciabili in Medio Oriente».

C’è poi un altro aspetto su cui diversi teologi pongono l’accento: quello della reale natura, estranea a ogni violenza, dell’islam. Del resto, che islam e terrorismo siano «incompatibili», giacché «l’islam non tollera né giustifica alcun tipo di terrorismo», lo dichiara con forza, tra innumerevoli altri, la Commissione islamica spagnola, secondo cui gli autori degli attentati non solo non rappresentano in alcun modo la comunità musulmana, ma sono anzi suoi «nemici dichiarati». E ciononostante, nell’immaginario occidentale, il “vero” musulmano, come evidenzia Pablo Stefanoni (Rebelión, 14/1), coincide sempre di più con il terrorista, mentre «il poliziotto morto nell’attentato (Ahmed Merabat) diventa l’“eccezione”». E c’è dunque da chiedersi, come fa il teologo argentino Eduardo de la Serna (curasopp.com.ar, 11/1), come possa venir su una generazione di musulmani abituati ad «apparire agli occhi del mondo intero», fin «dalla più tenera età», come “pericolosi terroristi”, come “il nemico”.

Affermare però che l’islam è una religione di pace non risolve, secondo alcuni, il problema. Perché il problema, come evidenzia José María Castillo, riguarda il concetto stesso di religione, inteso non come fede in Dio, ma come fede nei rituali religiosi e, conseguentemente, come dipendenza da un’obbedienza assoluta che viene prima di tutto il resto, «anche della vita stessa di quanti si oppongono o non rispettano tale obbedienza». Per cui l’urgenza è interrogarsi sulla possibilità di rinnovare le religioni in maniera che, in esse, non trovino più posto intolleranza e fondamentalismo.

Di seguito, i commenti di José Arregi (Redes Cristianas, 13/1), Leonardo Boff (Brasil de Fato, 9/1), José María Castillo (Religión Digital, 12/1), Eduardo de la Serna (www.amerindiaenlared.org, 13/1).

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Allahu Akbar

di José Arregi

Bisogna essere pazzi o disperati per uccidere dei giornalisti al grido di “Allahu Akbar”. Chi può credere che “Dio è grande” se ha bisogno di armi e bombe? Chi mai si lascia attrarre da una fede che si esprime in grida fanatiche, di odio e di sangue?

Ma non è la fede che li muove, per ferventi che siano. Non è in Allah che credono, per convinti che siano. Il loro fervore si chiama fanatismo. Sono i peggiori nemici dell’islam, perché corrompono la loro religione e offrono il pretesto tanto caro ai patrioti neonazisti che odiano i musulmani, attaccano le moschee e organizzano manifestazioni contro la presunta islamizzazione dell’Occidente. Gli uni e gli altri si danno la mano e la ragione, o, meglio, condividono la paura e l’irragionevolezza. Sia gli uni che gli altri accrescono e aggravano i pericoli per l’umanità. Come ci salveremo?

Lo sappiamo come. Lo sa Malen, una ragazzina adorabile, prossima ai 12 anni, un po’ timida, allegra, piena di immaginazione e divertente. Il giorno del massacro contro Charlie Hebdo, non riusciva a capire: «Alcuni anni fa – le ho spiegato – la rivista ha pubblicato alcune caricature di Maometto, la pace sia con lui, e si sono vendicati per questo. Che te ne sembra?». «Beh, penso che la rivista abbia fatto male, ma che gli assassini hanno fatto peggio», ha risposto Malen. Non c’è altro da dire.

Non si dovevano pubblicare vignette satiriche sapendo che avrebbero offeso centinaia di milioni di musulmani nel mondo. Ma non avrebbero dovuto offendersi tanto i musulmani per delle semplici vignette. Per caso, si offende Maometto, che vive nella “casa della pace”? Per caso può offendersi Allah che i musulmani devoti invocano come al-Bari (Origine di tutto), al-Khabir (Comprensivo), al-Muyji (Colui che dà la vita), al-Salam (Pace)? Chi soffoca la libertà di espressione in nome di Dio o della verità è lontano da Dio e dalla verità. Chi si offende per alcuni disegni o alcune parole – su Gesù, il Corano, il re o la bandiera – ha mente e cuore limitati. E chi uccide per tali motivi… non ha né cuore, né mente. Che non li si chiami credenti, per favore.

In nessun modo rappresentano l’islam, religione della giustizia e della pace. Che sia chiaro. Ma devo anche dire: farebbe male l’islam a non lasciarsi interpellare dall’esistenza nel suo seno di tanto fanatismo. Farebbe male a proibire una lettura critica del Corano, a coartare la libertà, a rimanere aggrappato a strutture religiose del passato.

Anche noi, il cosiddetto Occidente, faremmo molto male a chiudere gli occhi e rifiutarci di capire perché ci sono tanti jihadisti, tanto Al Qaeda e tanto Stato Islamico. Capire non vuol dire giustificare. Sono molti di meno di quanti ci vogliono far credere i potenti mezzi di comunicazione, ma sono pericolosi perché disperati, perché si sentono esclusi dal mondo. Sono un’infima minoranza dei musulmani, ma fanno parte di un’immensa maggioranza che si sente umiliata dalle potenze occidentali (“cristiane”) da un centinaio di anni, e soprattutto negli ultimi decenni. Non ci sarebbero jihadisti, o non sarebbero tanti, senza i crimini contro la Palestina e senza le campagne in Afghanistan e le guerre del Golfo e il commercio del petrolio e la barbarie statunitense in Iraq e a Guantánamo. E le misure antiterroriste non basteranno mai a salvarci.

Ci salveranno solo la giustizia e la saggezza, l’ampiezza di mente e di cuore. Come quella di Ziad Medoukh, un amico palestinese poeta che vive a Gaza e che mercoledì scriveva: «A Gaza condanniano con assoluta fermezza l’attacco assassino contro Charlie Hebdo. La Palestina, che soffre per il terrorismo dello Stato di Israele, denuncia questo atto criminale contro i giornalisti francesi. Gaza la distrutta vuole rendere un grande omaggio alle vittime di questo atto barbarico. Le nostre condoglianze alle famiglie in lutto. Per la libertà, contro l’odio, in solidarietà con tutti i francesi di fronte a questa tragedia».

Grazie, Ziad! Anche io sono palestinese. Anche io sono Charlie Hebdo. E poiché “Dio è più grande”, poiché voglio credere che il Bene è più forte, voglio dire: sono anche il jihadista assassino.

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Per comprendere l’attentato terroristico di Parigi

di Leonardo Boff

Una cosa è indignarsi, con ogni ragione, contro l’atto terroristico nei confronti dei migliori vignettisti francesi: si tratta di un atto abominevole e criminale che nessuno può difendere.

Altra cosa è cercare di comprendere in maniera analitica il perché di tali eventi. Questi non cadono dal cielo. Dietro di questi c’è un fondo oscuro, fatto di storie tragiche, di umiliazioni e di discriminazioni, di stragi, quando non di vere guerre preventive che hanno provocato la morte di migliaia e migliaia di persone.

In questo, gli Stati Uniti e in generale l’Occidente hanno il primato. In Francia vivono circa cinque milioni di musulmani, la maggior parte dei quali abita nelle periferie in condizioni precarie. Sono profondamente discriminati, al punto che si può parlare di una vera islamofobia.

Subito dopo l’attentanto alla sede di Charlie Hebdo, si è sparato contro una moschea, un ristorante musulmano è stato incendiato e una casa di preghiera islamica è stata raggiunta da colpi di arma da fuoco.

Cosa significa? Lo spirito che ha provocato la tragedia contro i vignettisti è ugualmente presente in quei francesi che hanno commesso atti violenti contro istituzioni islamiche. Se Hannah Arendt, che seguì tutto il processo contro il criminale nazista Eichmann, fosse viva, farebbe un analogo commento, denunciando questo spirito vendicativo.

Si tratta di superare lo spirito di vendetta e di rinunciare ad affrontare la violenza con maggiore violenza, la quale crea una spirale di odio interminabile, provocando innumerevoli vittime, la maggior parte delle quali innocenti.

L’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti è paradigmatico. La reazione del presidente Bush è stata quella di dichiarare la “guerra infinita” contro il terrorismo; istituire il Patriot Act che viola diritti fondamentali consentendo di arrestare, sequestrare e sottoporre a durissime tecniche di interrogatorio persone sospettate; creare 17 agenzie di sicurezza in tutto il Paese e iniziare a spiare tutti, in tutto il mondo, oltre a sottomettere terroristi certi o presunti a condizioni disumane e a torture a Guantánamo.

Quel che gli Stati Uniti e gli alleati occidentali hanno fatto in Iraq è stata una guerra preventiva che ha provocato innumerevoli morti tra i civili. Se in Iraq vi fossero state soltanto estese piantagioni di agrumi, nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Ma vi sono grandi riserve di petrolio, il sangue del sistema produttivo mondiale.

Tale violenza barbarica, che ha distrutto i monumenti di una delle più antiche civiltà umane, ha lasciato una scia di rabbia, di odio e di volontà di vendetta.

In questo quadro, si può comprendere come l’abominevole attentato a Parigi sia il risultato di questa prima violenza. Lo scopo di questo attentato è provocare il panico in tutta la Francia e in generale in Europa. È questo l’effetto perseguito dal terrorismo: occupare le menti delle persone e mantenerle ostaggio della paura.

L’obiettivo principale del terrorismo non è occupare territori, come hanno fatto gli occidentali in Afghanistan e in Iraq, ma occupare le menti. Questa è la sua sinistra vittoria.

La profezia del mandante degli attentati dell’11 settembre, l’allora ancora non assassinato Osama Bin Laden, espressa l’8 ottobre del 2001, si è purtroppo realizzata: «Gli Stati Uniti non saranno mai più sicuri, non avranno mai più pace».

Occupare le menti delle persone, destabilizzarle emotivamente, obbligarle a non fidarsi di alcun gesto, di alcuna persona estranea, ecco a cosa mira il terrorismo: in questo risiede la sua essenza. (…).

Formalizziamo il concetto di terrorismo: è ogni violenza spettacolare praticata con l’obiettivo di occupare le menti riempiendole di paura. La cosa importante non è la violenza in sé, ma il suo carattere spettacolare, in grado di dominare le menti di tutti.

Uno degli effetti più deleteri del terrorismo è stato quello di aver dato vita allo Stato terrorista che sono oggi gli Stati Uniti. Noam Chomsky cita un funzionario degli organi di sicurezza nordamericani che ha dichiarato: «Gli Stati Uniti sono uno Stato terrorista e ne siamo orgogliosi».

La speranza è che questo spirito non prenda il sopravvento nel mondo e specialmente in Occidente. Perché davvero in questo caso andremmo incontro al peggio.

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Una nota sulla libertà

di Eduardo de la Serna

(…). Si suole chiamare polisemiche le parole che hanno diversi significati o differenti letture. (…). E molte volte i termini polisemici sono assai importanti. Per esempio, parlando di “amore”, “pace”, “gioia”, “vita”, utilizziamo tali parole in modo polisemico. Questa è la loro ricchezza, ma qui risiedono anche, a volte, fraintendimenti e conflitti. E a volte poesie.

Polisemica per eccellenza è la parola “libertà”. (…).

Alcuni autori hanno operato una distinzione tra la “libertà da” e la “libertà di”. E lascio da parte l’esercizio della libertà all’interno della propria coscienza, intesa come mera capacità di scegliere, giacché in questo caso è evidente che sono “io” il criterio ultimo di tale “libertà”. E lascio anche da parte un tema che pure meriterebbe un approfondimento, cioè se fare-pensare-dire qualcosa “mi rende (più) libero” indipendentemente dal fatto di avere la libertà di farlo…

Quello su cui vorrei soffermarmi è il tema della libertà intesa come “libertà di espressione” (e, collateralmente, come “libertà di stampa”, sua parente bastarda, considerando che in suo nome si mente, si calunnia, si diffama, si orchestrano campagne, si punta a distruggere, e penso in particolare alla stampa egemonica nel mondo). Ha dei limiti questa libertà? (…). Quando esce dalla sfera personale verso quella pubblica, la libertà non deve avere un limite, rappresentato, per esempio, dall’altro, dalla convivenza, dalla legge dalla giustizia, ecc.? L’avvocato di Charlie Hebdo ha detto «abbiamo la libertà anche di essere blasfemi», ma è proprio così? Può essere così? È un bene che sia così?

Supponiamo che un gruppo X si senta colpito – nella sua religione, nelle sue convinzioni, nei suoi principi – dal fatto che il gruppo Y faccia qualcosa. Quest’ultimo gruppo dovrebbe smettere di farlo? Credo di no! Ma se lo fa di proposito, in faccia al gruppo X, questa è una provocazione. Il gruppo X dovrà abituarsi, per tolleranza, per pluralismo, al fatto che non tutti condividano i suoi principi e possano fare cose diverse, ma il gruppo Y non dovrebbe tenerne conto per non ferire inutilmente la sua sensibilità? Non ha niente da dire la “libertà” su questo punto? Credo che il rispetto per l’altro (…) sia il punto di partenza dell’incontro. (…).

In questi giorni, tutti abbiamo ripetuto “Je suis Charlie”. Ma io sono Charlie sul terreno della solidarietà con le vittime, con quanti hanno sofferto la barbarie commessa in nome di Dio. Ma non so se sono solidale con quello che mi appare come un eccesso dell’esercizio della libertà: non voglio esprimere solidarietà rispetto all’irrisione (e ancor meno quando mi suona come irrisione di chi si crede superiore nei confronti di chi è ritenuto inferiore). Non so se sono “questo” Charlie.

Conosco moltissime barzellette sui preti e rido insieme a chi le racconta. Conosco eccellenti barzellette sugli ebrei raccontate da ebrei. Conosco anche barzellette razziste o maschiliste (e già non rido tanto, a meno che l’ambiente in cui vengono raccontate non sia contrario al di sopra di ogni dubbio al maschilismo o al razzismo), e mi sento un po’ infastidito quando qualche amica femminista non mostra alcun senso di umorismo (…), ma per me è chiarissimo che non mi provoca alcun divertimento la barzelletta che si prende gioco pubblicamente di altri che non possono unirsi alle risate. Mi pare offensivo e distruttivo e – tornando al nostro tema – mi chiedo se è da qui che passi la libertà.

In ogni società vi sono centinaia di leggi che limitano un esercizio della libertà rispetto alle esigenze della convivenza, della tolleranza o dell’incontro. (…). I limiti – molte volte imposti e altrettante auto-imposti – marcano i confini che la libertà presenta in ordine alla convivenza. E, sinceramente, credo che le vignette di Charlie Hebdo (…) non costruiscano nulla, non rendano più libero nessuno, e che tralasciare di farle consentirebbe di mostrare un atteggiamento di “grandezza”; non la grandezza “su” ma “con” gli altri. La grandezza che si esprime nell’incontro e nella tolleranza di ciò che è diverso. Personalmente credo che un Paese sia più grande non quando c’è la libertà di prendersi gioco e di offendersi reciprocamente, ma quando gli uni e gli altri hanno la libertà di incontrarsi e di celebrarsi mutuamente.