Carter, un altro falco vola sul Pentagono di M.Paris

Michele Paris
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Il segretario alla Difesa americano in pectore, Ashton Carter, è apparso questa settimana di fronte alla Commissione per le Forze Armate del Senato nella tradizionale audizione che precede il voto in aula per la conferma del nuovo incarico. L’ex numero due del Pentagono, come previsto, ha raccolto ampi consensi tra i senatori, soprattutto repubblicani, promettendo di mantenere un certo grado di indipendenza dalla Casa Bianca, anche se le capacità di incidere sulle più importanti questioni militari e di politica estera da parte di quello che sembra essere sostanzialmente un abile burocrate saranno tutte da dimostrare.

Lo scambio di battute che ha suscitato l’interesse maggiore dei media negli Stati Uniti ha riguardato l’escalation del conflitto provocato da Washington in Ucraina. I membri della commissione del Senato ascrivibili alla fazione dei “falchi” si sono rallegrati nel sentire le parole di Carter. Quest’ultimo si è detto infatti “molto propenso” a fornire “armi letali” al regime di Kiev nella guerra contro i “separatisti” filo-russi.

La posizione espressa dal prossimo segretario alla Difesa è peraltro in linea con l’evoluzione del pensiero di Obama e del suo staff nelle ultime settimane, confermata da una recente rivelazione del New York Times, nella quale si sosteneva appunto che il presidente sarebbe ora decisamente più incline a valutare il trasferimento di armi al governo ucraino per sostenere il conflitto nel sud-est del paese.

Diligentemente, Carter ha poi snocciolato le solite tesi assurde proposte da governi e media occidentali in questi mesi sulla crisi in Europa orientale, affermando ad esempio che l’Ucraina necessita supporto militare per ragioni di “autodifesa” e che le “possibilità [di Kiev] di trovare la propria strada per diventare un paese indipendente” sono a rischio, visto che la Russia, “ovviamente, non ha rispettato l’integrità territoriale” ucraina.

La linea apparentemente più dura sull’Ucraina rispetto alla Casa Bianca, mantenuta da Carter durante l’audizione, contribuisce forse a spiegare il senso stesso della sua nomina a successore del “dimissionato” Chuck Hagel alla guida della macchina da guerra USA.

Se è innegabile che la scelta di Carter sia stata un ripiego dovuto alla rinuncia delle prime scelte di Obama – dalla ex vice-segretaria alla Difesa e fedelissima dei Clinton, Michèle Flournoy, al senatore democratico del Rhode Island, Jack Reed, al segretario alla Sicurezza Interna, Jeh Johnson – la sua nomina risponde nondimeno a una logica politica.

Carter, cioè, è considerato egli stesso un “falco” negli ambienti democratici di Washington e i suoi precedenti raccontano di scelte e prese di posizione a favore delle avventure imperialiste americane oltreoceano. Anzi, non solo Carter aveva appoggiato l’invasione dell’Iraq nel 2003, ma era giunto anche a proporre bombardamenti preventivi sia sulla Corea del Nord, per spazzare via il programma missilistico del regime stalinista, sia sull’Iran, per colpire le installazioni nucleari della Repubblica Islamica.

Ashton Carter è sembrato essere dunque l’uomo giusto per assecondare quello che a tutti gli effetti appare come un radicalizzarsi delle posizioni americane riguardo le principali crisi di politica estera in atto, tanto più in presenza di un Congresso a maggioranza repubblicana attestato su posizioni ancora più a destra della Casa Bianca, e talvolta dello stesso apparato militare e dell’intelligence, sulle questioni relative alla promozione degli interessi del capitalismo USA nel pianeta.

Nel curriculum di Carter vi sono poi elementi che fanno pensare come la sua attenzione nei prossimi due anni possa rivolgersi soprattutto proprio al confronto con Mosca. Il capo entrante del Pentagono si era infatti occupato di questioni legate all’integrazione nella NATO dei paesi dell’ex blocco sovietico durante la presidenza Clinton, in quella che può essere considerata la prima fase della strategia USA di accerchiamento della Russia oggi in pieno svolgimento.

Sulle altre questioni affrontate durante l’audizione di mercoledì, Carter ha cercato di fornire ai senatori le risposte desiderate, provando a mettere un certo spazio tra le sue posizioni e quelle dell’amministrazione Obama.

In particolare, Carter ha assicurato che non cederà alle pressioni della Casa Bianca per accelerare i trasferimenti dei detenuti nel lager di Guantánamo. Molti membri del Congresso di entrambi gli schieramenti si oppongono alla chiusura del carcere a Cuba e nell’audizione di mercoledì alcuni senatori hanno chiesto a Carter di utilizzare il potere del segretario alla Difesa per ritardare l’approvazione del trasferimento dei prigionieri.

Un’altra apprensione comune a Carter e ai membri della commissione per le Forze Armate è quella relativa ai tagli automatici degli stanziamenti destinati al Dipartimento della Difesa previsti dal cosiddetto “sequester”, conseguenza delle manovre dei due partiti sul bilancio federale negli anni scorsi.

In questo caso, è stato Carter a fare appello ai senatori per limitare i tagli alla spesa militare, anche se la discussione ha sfiorato il paradosso, visto che il Pentagono continua ad avere in dotazione una quantità enorme di denaro. Lo stesso Obama, nel presentare qualche giorno fa la sua proposta di bilancio per l’anno fiscale 2016, ha chiesto ben 561 miliardi di dollari per il Dipartimento alla Difesa, sforando di circa 40 miliardi gli stessi limiti del “sequester” previsti dal Congresso.

I senatori della commissione hanno infine affrontato con Ashton Carter l’inevitabile questione della guerra all’ISIS in Iraq e in Siria. Il presidente della commissione per le Forze Armate John McCain, in particolare, ha nuovamente accusato la Casa Bianca di non avere una strategia ben definita e, precisamente per questa ragione, gli USA e i loro alleati starebbero perdendo la guerra.

La parte più delicata del dibattito su questo punto è stata quella relativa alla sorte del presidente siriano Assad. Carter ha lasciato intravedere, sia pure in maniera prudente, la svolta strategica a cui guarda la Casa Bianca, vale a dire il passaggio dalla guerra all’ISIS al regime di Damasco nel medio periodo, ribadendo che Assad avrebbe “perso ogni legittimità” a governare la Siria e che non potrà perciò far “parte del futuro” del suo paese.

Al di là delle proprie posizioni personali, i veri interrogativi riguardo la nomina di Carter non avevano molte possibilità di essere chiariti nel corso dell’audizione al Senato. I problemi che Carter potrebbe trovare una volta insediato al Pentagono sono cioè gli stessi che hanno dovuto affrontare i suoi predecessori e, soprattutto, Hagel.

Come hanno spiegato molti osservatori negli Stati Uniti, il nuovo segretario alla Difesa dovrà guadagnarsi un grado di autonomia e autorità in un sistema di gestione delle decisioni militari e di politica estera monopolizzato dalla cerchia dei fedelissimi di Obama alla Casa Bianca, nella quale spiccano il capo di gabinetto, Denis McDonough, e la consigliera per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice.

Al di fuori di questo possibile conflitto, che è sembrato costare il posto a Chuck Hagel, le modalità con cui verranno perseguite le esigenze dell’imperialismo americano non cambieranno tuttavia in maniera significativa con un nuovo nome alla guida del Pentagono.

Lo forza militare rimarrà infatti il principale strumento utilizzato da Washington per cercare di difendere la declinante egemonia degli Stati Uniti in un mondo che tende sempre più al multipolarismo, con il rischio concreto di scatenare guerre rovinose.

Ad ogni modo, Ashton Carter dovrebbe essere confermato dal Senato senza ostacoli, come già accadde nel 2009 e nel 2011 quando la ratifica delle sue nomine rispettivamente a sotto-segretario alla Difesa per gli approvvigionamenti e a vice-segretario ottennero il voto di tutti i membri della camera alta del Congresso USA. Secondo McCain, il Senato dovrebbe sanzionare il successore di Hagel già prima della prossima sospensione delle attività del Congresso di Washington, prevista per il 16 febbraio.