“Anche i comunisti hanno diritto al Vangelo”: intervista a don Louis Magnin, ex prete operaio del Prado di Lione

Giuseppina Vitale
www.micromega.net

Classe 1921, Louis Magnin divenne sacerdote all’età di trent’anni. Scelse il carisma del prete operaio nel 1971, fu membro dell’equipe dei preti operai di Boulogne-Billancour (1971-1994) e membro del collettivo «Mémoire PO» dell’equipe nazionale (1990-1992)1. Durante la Seconda Guerra mondiale, nel 1943, lavorò per due anni nei campi di lavoro in Germania2. Lì conobbe il movimento sindacale cristiano, ossia la J.O.C. (Jeunesse ouvrière chrétienne), ma soprattutto sperimentò la fratellanza e la condivisione delle condizioni di vita da parte degli operai e dei primi sacerdoti inviati in Germania direttamente da alcuni vescovi francesi. Questa esperienza permise al nostro protagonista di conoscere quella che sarebbe diventata con gli anni una forma di apostolato sperimentale ed a tratti rivoluzionaria, ebbe modo di constatare la veridicità dell’affermazione di Pio XI: “La Chiesa ha perduto la classe operaia”, ma allo stesso tempo prese parte attivamente al cambiamento messo in atto dalla chiesa francese. Nel 1943 usciva infatti il libro di Henri Godin e Yvan Daniel, «La France… Pays de mission?»3 destinato a scuotere le coscienze dei religiosi, in primis quella del cardinal Suhard, arcivescovo di Parigi dal 1940 al 1949. In quegli anni nasceva la «Mission de Paris»4 che avrebbe contribuito alla proliferazione del carisma e della nascita di altre comunità operaie in Francia.

Don Louis, qual è stata la sua esperienza di lavoro?

La mia esperienza di lavoro comincia prima del seminario. Sono stato reclutato per il lavoro obbligatorio in Germania, durante l’occupazione tedesca della Francia nella Seconda Guerra mondiale. Ordinato prete nel 1951, sono stato mandato come vicario a Saint-André nel quartiere della Guillotière a Lione, dopo aver seguito la formazione al Prado5 e aver fatto il noviziato, come si diceva all’epoca! Dopo Saint-André sono stato inviato nella diocesi di Nanterre, nella regione parigina, lì ho maturato la decisione di divenire prete operaio, dal 1971. Abitavo a Boulogne e lavoravo in una città vicina; per giungere al luogo d’impiego, facevo tre ore di metropolitana al giorno: un’ora e mezzo al mattino ed un’altra alla sera, partivo alle sei e rientravo alle diciotto, insomma vivevo dodici ore fuori casa, la regione parigina è terribile! Inizialmente cominciai in un’impresa di pulizie. Ci occupavamo della manutenzione e pulizia di un complesso di case di lusso. Non facevo altro che vedere borghesi che accompagnavano i loro figli a scuola, non si trattava di un vero ambiente di lavoro! Quando riuscii a trovare qualcosa di meglio cambiai occupazione. Mi assunsero, prima al montaggio in una fabbrica di motori elettrici, poi mi ritrovai a scaricare dei camion contenenti le parti che servono a mettere insieme un motore; in quest’ultima azienda sono stato delegato sindacale per la CGT (Confédération général du travail), sindacato d’ispirazione marxista. Ho scelto la CGT perché lo ritenevo il sindacato che maggiormente operava a favore degli operai e che di conseguenza era accettato da un notevole numero di lavoratori. La ragione personale, invece, era il raggiungimento dell’unità. Io lavoravo per l’unità della classe operaia. Sentivo che il mio compito era aiutare la gente a comprendersi ed agire insieme, mi sembrava un impulso umanitario importante, ecco, per me era il senso stesso del Vangelo! Se sono stato eletto delegato del personale voleva dire che la gente si fidava di me.

Come è riuscito a conciliare l’esser prete con l’essere un lavoratore? È stato facile?

Ma, dipende da cosa s’intende per facile o difficile! Sicuramente scaricare dei camion è più semplice che fare un’omelia! Non credo che la questione debba porsi in questi termini. Si è accettati maggiormente quando si condivide un ambiente ed uno stile di vita popolare, piuttosto che presentarsi alla gente con le mani pulite! Ciò che contava era l’aspetto della testimonianza. Non si era là per fare catechesi o dei proseliti, ma semplicemente per guadagnarsi da vivere e condividere una condizione. Le classi disagiate vivono il lavoro non come piacere ma come una necessità, inoltre anche il rapporto con le autorità non è facile. Ora, mi sono reso conto che la mia figura di prete godeva di una potenzialità a priori: la gente si fidava di me, mi raccontava i propri disagi, affrontavamo insieme le difficoltà legate al lavoro. Allora sì che quello diveniva un luogo di evangelizzazione, inteso in termini di sperimentazione evangelica. Come prete cercavo di vivere il Vangelo e di far rivivere il mistero di Dio in quell’ambiente. La vera condivisione con gli altri arrivava quando si era in comunicazione, in simpatia, insomma in comunione. Sul piano globale, invece, l’esistenza dei preti operai è stata una prova tangibile della Chiesa in Francia. Qualche volta e spesso un segno di contraddizione, c’era chi era a favore e chi contro. Ma per la classe operaia francese è stato senza dubbio un fatto positivo, un nuovo volto della Chiesa. Per esempio, quando nel 1954 arrivò la prima interdizione del Vaticano6, gli esponenti più critici nei confronti di questa forma di apostolato intervennero dicendo che si era trattata di una semplice operazione di recupero della classe operaia; ma chi ha conosciuto direttamente alcuni dei preti operai sapeva che non si trattava solo di questo. Per concludere, nel complesso si parla di una storia positiva e feconda che tuttavia oggi non esiste più. Ogni tanto qui al Prado discutiamo circa il futuro dei preti operai ma siamo consapevoli del fatto che quest’esperienza ha avuto un presente che non esiste più, che non può più ripetersi vista la diversità storica in cui ci troviamo. Esistono delle nuove correnti presenti oggi in seno alla Chiesa Cattolica che vanno verso altre direzioni pur avendo a cuore probabilmente lo stesso spirito dei preti operai, ma esse evolvono in altro.

Che senso ha dato alla sua scelta di prete operaio?

La condizione di prete operaio mi ha obbligato ad essere testimone. Ho lavorato per costruire l’unità. Quando ho salutato per l’ultima volta il responsabile sindacale di Boulogne, lui mi ha risposto: “Ho apprezzato di te la capacità di non essere settario”! La motivazione intima della scelta è stata l’incarnazione: Gesù è venuto al mondo come un povero, operaio tra gli operai; la mistica era l’incarnazione e la pratica era la presenza. Si è presenti quando si partecipa pienamente ad una condizione, come hanno fatto, per esempio, dei preti operai impiegati nella costruzione delle grandi dighe del fiume Rodano. Essi stavano tra gli operai e ne condividevano la vita di cantiere abitando nelle baracche. Dunque, la mistica e la pratica confluivano nell’incarnazione, ecco tutto! I preti sono divenuti operai, essi hanno preso coscienza della realtà della classe operaia; è stata come vivere un’esplosione che porta alla liberazione. Così, davanti alle ingiustizie, non si poteva semplicemente stare lì a subire, ma necessitava partecipare alla lotta di liberazione. Fu allora che la gerarchia cominciò a nutrire dei dubbi: i sacerdoti che militavano all’interno del sindacato vicino al Partito comunista rischiavano la marxisazione. La rottura con la gerarchia avvenne nel momento in cui il prete operaio divenne militante, soprattutto militante all’interno di un sindacato d’ispirazione marxista. Ci furono anche dei sacerdoti iscritti al Partito comunista. Ma i preti operai si sono sempre difesi dall’accusa di compromettere il sacerdozio sostenendo: “Anche i comunisti hanno diritto al Vangelo”!

Nel 1954 ci fu il primo intervento da Roma. In Francia esistevano tre cardinali che sin dall’inizio sostennero i preti operai, sto parlando del cardinal Feltin, arcivescovo di Parigi e successore di Suhard, del cardinal Gerlier, arcivescovo di Lione e del cardinal Liénart, arcivescovo di Lille. I tre religiosi si recarono spesso a Roma per negoziare la questione, ma nel 1954 essi ricevettero l’ordine dalla Santa Sede che imponeva ai preti operai delle loro diocesi di lavorare non più di tre ore al giorno. Fu allora che monsignor Alfred Ancel – vescovo ausiliare del cardinal Gerlier di Lione dal 1947 e superiore del Prado dal 1942 al 1971 – cominciò a dialogare faticosamente con i preti operai della diocesi di Lione; allo stesso tempo il monsignore sentiva gli stessi bisogni che sin da principio avevano mosso i sacerdoti. Per comprendere la classe operaia e mantenere vivo l’apostolato egli pensò bene di installarsi a Gerland, quartiere operaio di Lione, e vivere la condizione dei lavoratori. La comunità di Ancel durò fino al 1959; il monsignore lavorò a domicilio per tre ore al giorno – proprio come dettato dalla Santa Sede -, in una fabbrica che produceva panni per lucidare. Nel 1954, c’erano circa cento preti operai in Francia, quando giunse la notizia ci fu un’assemblea per decidere le sorti dell’esperienza, molti di essi risposero con toni duri: “Noi restiamo accanto alla classe operaia, impegnandoci a fondo”! Furono una cinquantina a non sottomettersi alle decisione della Santa Sede, continuando a lavorare; mentre gli altri trovarono delle piccole imprese artigiane disposte ad assumerli per tre ore al giorno. Nel 1959, curiosamente, fu Giovanni XXIII sotto pressione del cardinal Pizzardo, segretario del Sant’ Uffizio, ad arrestare definitivamente l’esperienza dei preti operai, imponendo allo stesso Ancel di lasciare Gerland. Pizzardo scrisse un documento orrendo che sosteneva delle tesi assurde: “il lavoro manuale non è compatibile con la vita sacerdotale”! Allora Gesù Cristo era scomunicato?! Dopo il Concilio Vaticano II ci fu finalmente un cambiamento di vedute: la conferenza episcopale di Francia, per esempio, riabilitò l’esperienza inviando direttamente dei sacerdoti al lavoro, essa stessa si assunse la responsabilità di creare un ministero sacerdotale apposito per i preti operai.

Cosa pensa sinceramente dei cosiddetti «Insoumis», ossia dei preti operai che non si sottomisero alle decisioni della Santa Sede nel 1954, rischiando le pene canoniche?

Che dire, sono miei fratelli! Fu una lacerazione di gran peso. Gli «Insoumis» si sono sentiti feriti dalla Chiesa perché costretti a scegliere tra essa e la classe operaia. Per questa ragione c’era una sorta di disagio tra di noi. Per esempio, durante un incontro nazionale dei preti operai di Francia, che facevamo ogni due anni, negli anni Settanta, abbiamo deciso di invitare dei “non sottomessi”, come segno di unità. Io personalmente ho lavorato dopo il Concilio Vaticano II, quindi dopo la riabilitazione, ma credo che la battuta d’arresto del 1954 abbia creato una strappo profondo in seno alla Chiesa.

Secondo lei, per concludere, cosa non ha capito la Santa Sede dei primi preti operai di Francia?

Credo che l’errore più grande da parte di Roma fu la paura del marxismo, del marxismo ateo, nonostante esistesse un dibattito circa la compatibilità tra marxismo e cristianesimo. Ci fu una posizione dottrinale ed una pastorale. L’esperienza dei preti operai negli anni Quaranta scosse davvero le coscienze, credo che la Santa Sede abbia deciso di mettere delle catene al dogma a discapito però dell’attitudine pastorale. La chiesa di Francia, negli anni Cinquanta era molto aperta sul piano dell’azione sociale, era inevitabile il dialogo con i partiti di sinistra o i sindacati. Questo non piacque a Roma. Ma i preti operai di Francia prendevano delle posizioni all’interno delle organizzazioni dei lavoratori, a volte anche nel Partito comunista, per opporsi alle posizioni padronali in quanto salariati e per condurre insieme ai compagni di lavoro una lotta di liberazione.

Per la Santa Sede invece si trattava di un pericolo, ossia delle possibili contaminazioni con il marxismo. Per esempio, all’interno del movimento di Azione cattolica operaia ci furono a volte delle tensioni molto forti, in merito alle posizioni che i sindacati di ispirazione marxista assumevano dinanzi i lavoratori. Ora, la sfida era riuscire a garantire a tutti noi una libertà di espressione della motivazione individuale, all’interno del gruppo che si riteneva idoneo a rappresentarci, il nostro compito primario rimaneva quello di predicare il Vangelo. Negli anni Settanta, alcuni preti operai aderivano alla CFTC (Confédération française des travailleurs chrétiens) sindacato tendenzialmente a sinistra ed altri invece alla GCT (Confédération générale du travail) sindacato d’ispirazione marxista. Ora, nel mio gruppo della regione parigina si sollevò una proposta avanzata da una quarantina di sacerdoti che consisteva nel creare due costole distinte e separate di preti operai: una afferente alla CFTC ed un’altra alla CGT. Tutto questo era inaccettabile! Non aveva alcun senso dal punto di vista del nostro ministero! Non si trattava di un sostegno morale e spirituale ad un’azione politica, bensì della testimonianza della presenza del Vangelo attraverso l’azione, indipendentemente dalla scelta individuale dei mezzi attraverso i quali esprimersi.

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NOTE

1 CHARLES SUAUD, NATHALIE VIET-DEPAULE, Prêtres et ouvriers. Une double fidélité mise à l’épreuve (1944-1969), Paris, éd. Karthala 2004.

2 Il 6 febbraio 1943 – durante l’occupazione della Francia da parte tedesca – fu istituito dal governo di Laval per i francesi dai 20 ai 22 anni un Servizio obbligatorio del lavoro di due anni (S.T.O. Service du travail obbligatorie). La legge fu promulgata immediatamente per mezzo del Journal Officiel con il suo decreto di applicazione: entro otto giorni doveva essere effettuato il controllo del censimento a cura dei prefetti, furono così forzatamente convocati i lavoratori per la Germania.

3 HENRI GODIN, YVAN DANIEL, La France..Pays de mission?, Paris, Les Éditions de l’abeille, 1943.

4 Il 26 aprile 1943 il cardinal Suhard leggeva lo scritto «France… Pays de mission?» e ne rimaneva affascinato. Il 1°maggio decise di incontrare i due autori. Da molto tempo, il cardinale di Parigi, si preoccupava di quei problemi che i due sollevavano, e le circostanze non facevano che ravvivare le sue sollecitudini: tre settimane prima aveva ottenuto il consenso dell’Assemblea dei cardinali e degli arcivescovi di Francia per dare il mandato a dei preti che si sarebbero ingaggiati come operai in Germania e in tal modo avrebbero potuto riunirsi ai lavoratori francesi deportati. Partiva «la Mission de Paris»

5 All’origine, il Prado fu l’insegna di una sala da ballo popolare del quartiere della “Guillotière” a Lione. Il 10 dicembre 1860, padre Antonio Chevrier (1826-1879), prete della Diocesi di Lione, affittò la casa per catechizzare i ragazzi e gli adolescenti figli di operai. Forte di una convinzione di evangelizzazione fondò una scuola clericale mirata a quei sacerdoti che volevano formarsi nell’attenzione delle classi sociali più povere. Con la sua morte, nel 1879, furono quattro i sacerdoti a far parte dell’associazione approvata dall’Arcivescovo di Lione con il nome di “ Associazione dei preti del Prado” che durò sino al 1987 quando divenne un Istituto Secolare di Diritto Pontificio. Quando nel 1942 venne eletto superiore monsignor Alfred Ancel, c’erano 67 preti. L’azione del Prado cominciò ad impiantarsi anche in altre diocesi della regione francese e dal 1950 assunse un carattere internazionale.

6 Nel 1954 il Vaticano intervenne ponendo delle dure condizioni ai vescovi francesi; questa decisione richiedeva che i preti operai:

1. fossero scelti in modo particolare dal proprio vescovo; 2. ricevessero una formazione adatta e solida, sia dal lato dottrinale sia da quello della direzione spirituale; 3. non si dessero al lavoro manuale se non per un tempo limitato, allo scopo di rendere facile il rispondere a tutte le esigenze del loro stato sacerdotale; 4. non prendessero alcun impegno temporale suscettibile di cercare ad essi responsabilità sindacali o di altro genere: queste dovevano essere lasciate ai laici; 5. non vivessero isolati, ma addetti a una comunità di sacerdoti o a una parrocchia, apportando, nello stesso tempo, un contributo alla vita parrocchiale. Giovanni Caprile S. I., I preti operai e la loro vicenda, in “Civiltà Cattolica”, anno 105, volume I, quaderno 2488, 20 febbraio 1954, p. 395 7