Diario dall’inferno di Guantánamo di L.Siems

Pubblichiamo stralci dall’introduzione a “12 anni a Guantánamo. Incarcerato, torturato, innocente” di Mohamedou Ould Slahi (con Larry Siems, edito da Piemme), primo e unico resoconto scritto da un detenuto tuttora incarcerato nella prigione americana a Cuba. Un documento di grande importanza storica e un’epica per il nostro tempo.

Larry Siems
www.micromega.net

Avevo proposto un incontro che rispettasse i più severi protocolli di sicurezza, per essere certo che la versione rivista del lavoro di Mohamedou – che lui ha scritto specificamente per il grande pubblico – riproducesse in modo accurato sia il contenuto che l’intento originario. Per anni l’opera stessa era stata tenuta sotto chiave, applicando una forma di censura forse non sempre in linea con lo spirito di Ginevra. L’operato degli Stati uniti sulla detenzione dei prigionieri dopo l’11 settembre è stato integralmente protetto dalla censura fin dall’inizio.

È stata una scelta doppiamente deliberata: uno, creare uno spazio dove commettere abusi contro i prigionieri; due, nascondere il fatto che questi abusi fossero avvenuti. Nel caso di Mohamedou, l’elenco degli abusi comprende la sparizione forzata, una detenzione arbitraria e senza possibilità di comunicare con l’esterno, trattamenti crudeli, inumani e degradanti e la tortura.

Sappiamo tutto questo grazie a una registrazione di archivio a sua volta tenuta rigorosamente segreta per anni.
Non so fino a che punto interessi personali e istituzionali nel coprire questi abusi abbiano contribuito al protrarsi della prigionia di Mohamedou. So però che nei cinque anni che ho passato a leggere la documentazione del suo caso non sono stato convinto né dalle spiegazioni mutevoli e vaghe del mio governo sul perché lui si trovi a Guantánamo, né dalle asserzioni di coloro che difendono una detenzione che dura ormai da tredici anni dicendo che lui è sicuramente così, o forse cosà. Il mio personale senso di equità mi dice che la domanda su cosa sia questo “così” o “cosà”, e sul perché lui debba restare sotto custodia degli Stati uniti, avrebbe già dovuto trovare risposta da molto tempo. E l’avrebbe trovata, io ritengo, se questi diari di Guantánamo non fossero stati tenuti segreti così a lungo.

Quando scrisse il manoscritto di questo libro, nove anni fa, nella stessa baracca isolata in cui assai di recente si sono svolte alcune delle scene più da incubo della vicenda, Mohamedou si era dato un compito. «Ho scritto solo quello che ho sperimentato, che ho visto e che ho saputo di prima mano» spiega verso la fine. «Ho cercato di non esagerare e di non minimizzare. Ho cercato di essere il più giusto possibile nei confronti del governo degli Stati uniti, dei miei fratelli e di me stesso.» È proprio quello che ha fatto, da quanto ho potuto vedere.

La storia che racconta è corroborata dai verbali di archivio desegretati; e lui stesso dà prova in più occasioni di essere un narratore affidabile. Di certo non esagera; nei verbali sono registrate sofferenze e umiliazioni non incluse nel libro, e nel descrivere quelle incluse Mohamedou fa uso di notevole discrezione. anche quando i fatti che narra toccano vertici di drammaticità, il racconto è mitigato e diretto. L’orrore di quei momenti parla da solo.

Questo perché ciò che gli interessa veramente sono i drammi umani racchiusi in queste scene. «Le leggi di guerra sono dure» scrive Mohamedou all’inizio.

“Se mai può esserci qualcosa di buono in una guerra, è che tira fuori dalle persone il meglio e il peggio: alcuni cercano di approfittare della mancanza di legalità per fare del male agli altri, altri tentano di ridurre al minimo la sofferenza”.

Nel fare la cronaca del suo viaggio attraverso le zone più oscure del programma di detenzione e interrogatori messo in atto dagli Stati uniti nel periodo post 11 settembre, la sua attenzione si sofferma sugli inquisitori, sulle guardie, sugli altri detenuti e su se stesso. Nel suo desiderio di «essere giusto» come lui stesso dice, tiene presente il più ampio contesto fatto di paura e di confusione in cui tutti questi personaggi interagiscono, insieme ai fattori istituzionali e sociali, molto più legati al contesto locale, che ne modellano le interazioni. ma vede anche la capacità che ha ogni personaggio di modellare in un senso o nell’altro le proprie azioni, e cerca di capire le persone, a prescindere da gradi, uniformi e condizioni, in quanto protagoniste ciascuna a suo buon diritto. Nel far ciò, trasforma anche le situazioni più disumanizzanti in una serie di incontri umani – tra individui – a volte angosciosamente intimi.

Questo è il mondo segreto di Guantánamo, un mondo di brutalità incredibilmente premeditate e degradazioni non intenzionali, ma anche un mondo di piccoli e grandi gesti di bontà, di riconoscimenti e accettazioni reciproci, di curiosità condivise e di arrischiate incursioni al di là di solide barriere. Il fatto che Mohamedou riesca a sperimentare tutto questo nonostante quattro anni del trattamento più arbitrario che si possa immaginare e nel pieno di uno dei peggiori interrogatori mai avvenuti a Guantánamo la dice lunga sul suo carattere e sulla sua umanità. Quanto al suo talento di scrittore, ancor più lunga la dice il fatto che sia stato in grado, a così breve distanza dalla più traumatica di queste esperienze, di trarne una narrazione che riesce a essere sia una condanna che una redenzione.

Eppure non è questo l’aspetto che più mi ha colpito la prima volta che ho aperto la cartella con il testo manoscritto dei diari di Guantánamo. A colpirmi sono stati i personaggi e le scene più lontani da quella prigione: lo sfortunato clandestino in un carcere senegalese; un tramonto a Nouakchott dopo una tempesta di sabbia del Sahara; il momento straziante della nostalgia di casa durante la chiamata alla preghiera per il Ramadan; l’avvicinamento all’aeroporto tra le bidonville di Nouakchott; una pista di atterraggio lucida di pioggia a Cipro; un sonnolento attimo di quiete, prima dell’alba, su un volo clandestino della CIA.

È qui che ho individuato per la prima volta lo scrittore Mohamedou, il suo sguardo acuto sui personaggi, il suo rimarchevole orecchio per le voci, il modo in cui i suoi ricordi sono arricchiti da informazioni registrate da tutti e cinque i sensi, il modo che ha di toccare l’intero registro emozionale, sia in se stesso che negli altri. Possiede le qualità che più apprezzo in uno scrittore: una commovente sensibilità per la bellezza e un acuto senso dell’ironia. E ha un senso dell’umorismo veramente fantastico.

Riesce a restituire tutto questo in inglese, che per lui è la quarta lingua, una lingua che stava ancora cercando di padroneggiare mentre redigeva il manoscritto.

Il risultato testimonia una innata predisposizione per l’uso delle parole, e il fascino che esercitano su di lui. Ma esso è anche frutto, è chiaro, della sua determinazione a comprendere e in qualche modo tenere sotto controllo l’ambiente che lo circonda. Per un verso, padroneggiare l’inglese a Guantánamo voleva dire andare oltre traduzioni e interpreti, oltre la necessità di avere una terza persona nella stanza e dare spazio alla possibilità che qualunque contatto con chiunque dei suoi secondini potesse diventare uno scambio anche sul piano umano. Per un altro verso, voleva dire decodificare e comprendere il linguaggio di quel potere da cui dipendeva il suo destino: un potere capace di arrivare ovunque, ben oltre l’immaginabile, come illustra molto chiaramente la sua odissea di prigionia e interrogatori lunga oltre trentamila chilometri.

Ma il suo impegno ha prodotto un lavoro veramente notevole. Che da un lato è uno specchio, in cui ho riconosciuto – per la prima volta, rispetto a qualsiasi altra cosa che abbia letto su Guantánamo – aspetti di me stesso, sia nei personaggi dei miei compatrioti che in quelli che il mio paese tiene prigionieri. Dall’altro è una lente di ingrandimento su un impero che ha una portata e un impatto tali che pochi di noi, che ci viviamo dentro, arrivano a capire pienamente.
Per ora, questo potere continua ad avere il controllo della storia di Mohamedou.

Questo potere è presente in queste pagine sotto forma di oltre duemilaseicento interventi censori, rappresentati da blocchi neri. tali interventi non soltanto nascondono importanti elementi della storia, ma fanno anche velo ai principi guida e allo scopo che si è prefisso Mohamedou, svilendo la schiettezza con cui affronta il proprio caso, e oscurando gli sforzi che fa per delineare i suoi personaggi come individui, alcuni colpevoli, altri ammirevoli – e la maggior parte sia l’uno che l’altro – in una combinazione complessa e tutt’altro che stabile.

Ed è presente nel suo perdurante e sempre meno giustificato imprigionamento. tredici anni fa Mohamedou lasciò la sua casa a Nouakchott, in Mauritania, per presentarsi a un interrogatorio presso il comando della polizia del suo paese. Non è più ritornato. In nome del nostro senso collettivo della storia e della giustizia, abbiamo bisogno di capire più chiaramente il perché di questo mancato ritorno, e che cosa succederà dopo.

Guantánamo vive di domande senza risposta. ma adesso che abbiamo il diario di Guantánamo di Mohamedou, come possiamo non dare una risposta almeno alle domande sollevate dal suo caso?

Quando risponderemo, credo che assisteremo a un ritorno a casa. Quando questo ritorno avverrà, questo libro verrà ripubblicato, ripulito e corretto come lo avrebbe fatto l’autore stesso, e tutti potremo finalmente vederlo per quello che fondamentalmente è: il racconto dell’odissea di un uomo in un mondo sempre più privo di confini e sempre più gravido di ansia, un mondo in cui le forze che modellano le vite sono sempre più distanti e clandestine, in cui i destini sono decisi da poteri in grado apparentemente di arrivare ovunque, un mondo che minaccia di disumanizzarci ma alla fine non ci riesce. In una parola, un’epica per il nostro tempo.