Interventi di Enrico Peyretti al 35° Incontro nazionale delle Cdb italiane

La chiesa terra-terra sta imparando la povertà

Enrico Peyretti

Su questi nostri temi essenziali – Povertà evangelica in una società violenta. Chiesa di tutti, chiesa dei poveri – non intendo ora solo fare un catalogo di esperienze episodiche, ma una riflessione sintetica sull’esperienza nel tempo lungo della mia vita personale.

Senza assolutamente fare un’apologia del passato, che stiamo superando, constato che la chiesa concreta, di base, la chiesa povera, dei semplici, la “chiesa-terra-terra”, ieri è stata, sì, anche serva sottomessa agli offensori e umilianti, ma più ancora è stata sostegno degli offesi e umiliati. Oggi è chiamata a estendere a tutto il suo corpo, non solo nelle membra, ma anche “in capite”, nella sua visibilità, l’umiltà e la povertà delle sue membra minori, i “poveri di Cristo”.

Scusate se preferisco l’espressione “terra-terra” a quella di “base”, perché questa mi evoca la piramide. Sono comunque immagini. Vorrei guardare non tanto alla base di una piramide, in tensione-dissenso-disagio con i vertici, ma alla vera “chiesa terra-terra”. Non una chiesa che vanta un suo “primato”, magari nella fede, ma una chiesa sia pure di “poca fede”, ma di qualche autentica fede. Vorrei provare a guardare la “transustanziazione” dell’umanità: sotto l’apparenza della povera umanità, riconoscere la “sostanza” dello Spirito, del Regno, annunciato e riconosciuto da Gesù in mezzo ai poveri, nell’umanità povera anche di sviluppo umano, di cultura, di teologia, di rilevanza sociale.

Umanità

Prima della chiesa c’è l’umanità, il fiore più vivo nel giardino della natura, chiamato alla somiglianza con Dio. Ma anche spesso il fiore più superbo.

Da Maurice Bellet (l’altrapagina, ottobre 2014) colgo uno spunto: Dio crede nell’uomo, ha fede nell’uomo. È lui che prega l’uomo, prima che noi ci rivolgiamo a lui pregandolo. Dio fa credito all’uomo. L’uomo vale, per Dio. Non è un miserabile disprezzabile, nonostante le sue miserie. Noi ci accorgiamo, in qualche modo, di Dio perché ci sentiamo valorizzati, elevati.

Se vogliamo somigliare a Dio, fare come lui, allora crediamo nell’uomo, nella povera umanità alla quale ognuno di noi appartiene, come un feto nella madre.

Proprio quando «è uno schifo» la corruzione diffusa nel “piano alto” e nel “piano di mezzo” della società – e c’è anche, nel “piano basso” la tentazione invidiosa di essere come loro – proprio a quel momento facciamo credito all’umanità, non disperiamo di lei. Non abbiamo altro.

«È nell’uomo che appare il divino», dice Bellet, perché Dio ha fatto spazio all’uomo, si è affidato a lui, si è riconosciuto in lui, ha ascoltato il grido del povero, ha umiliato i superbi ed esaltato gli umili. Chi ascolta questo vangelo, il buon messaggio, la bella notizia che il Vivente aiuta, rispetta e affianca l’umanità, chi ascolta questo è la chiesa: la chiesa di tutti i credenti, sotto qualunque nome; per noi specialmente la chiesa dei seguaci di Gesù profeta, rivelatore, compagno partecipe dell’avventura umana. La chiesa dei credenti onora e ama l’umanità, come fa Dio.

Casa di Marta

La chiesa reale non è quella “regnante”. Ogni tanto c’è “un cristiano sul trono di Pietro” (come è stato detto di Giovanni XXIII e si può dire di Francesco): e allora il trono non è più un trono, ma una casa, e – guarda un po’ – una casa dedicata a Marta, l’amica di Gesù che lavora in cucina.

Chi vede la facciata di una casa da fuori non sa come ci si abita dentro: la chiesa visibile, tele-visiva (che si vede da lontano), di facciata, è differente dalla chiesa invisibile, nascosta, dei poveri.

Potere, umiltà, Spirito

Criticare nella chiesa la ricchezza del potere sacro sulle anime, perciò sui corpi e sulle vite, è necessario, ma riconoscere lo Spirito diffuso nella Chiesa e anche nell’umanità, è giusto.

Confrontiamo ieri e oggi. Qualche differenza c’è. C’è un cammino da stimolare.

La chiesa della mia infanzia (ho fatto la prima comunione nel 1942) era “povera”. Anche nel senso di miseria, di carenza di teologia, di cultura, di libertà evangelica. Ma era povera anche secondo la beatitudine evangelica: il vangelo, sebbene inquinato da forme dottrinali e autoritarie, però udibile, rintracciabile, è stato trasmesso nelle generazioni, per le vie umili e povere.

Badiamo noi, oggi, chiesa conciliare e sinodale, di non essere ricchi-superbi della nostra critica. Ieri le risposte a memoria del catechismo prevalevano sulla lettura del vangelo, le devozioni e le giaculatorie sulla liturgia; il papismo, la dipendenza dal clero dominavano sulla chiesa di base; il laicato era nulla, e le donne erano nulla nel nulla del laicato, sotto l’assoluto maschilismo clericale.

Non esalto certo quel catechismo. Infatti, l’ho superato, come tutti voi. Era un minestrone inquinato, ma portava anche semi di vangelo. Il laicato era nulla, ma sapeva di essere evangelizzato. Le donne valevano meno degli uomini, ma erano la maggioranza in chiesa. Le donne non contavano nulla, ma erano loro, soprattutto le mamme e le nonne, che trasmettevano il vangelo ai bambini, anche ai maschi: erano loro le maggiori apostole, loro esercitavano il ministero di evangelizzare, senza che nessuno le avesse ordinate. Apostole chiamate direttamente dal Signore, come san Paolo, non consacrate dai successori istituzionali degli apostoli. Quando si parla, pro o contro, l’ordinazione “sacerdotale” delle donne, si è fuori strada. Tutti i ministeri vanno desacralizzati. Sono incarichi comunitari ecclesiali. Unico criterio è la disponibilità e la capacità, per il bene della comunità. “Ordinati/ordinate” non saranno alcuni più sacri, ma uomini e donne incaricati concordemente dalla chiesa per un servizio.

La carità, l’elemosina, la minestra al mendicante sulla porta, in quella chiesa della mia infanzia, era sostanza dell’economia: era il “culto fattivo” (Tolstoj in Bori, Il dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana). I poveri si rivolgevano alle chiese, ai conventi, per avere aiuto. I primi ospedali furono opera delle chiese. La cura dei malati avveniva in casa, col calore delle mani amiche, specialmente delle donne, che esercitavano la missione di Gesù («andate e curate»), per ispirazione diretta. Il servizio evangelico diretto, nel quotidiano laico, non era compiuto dall’istituzione clericale, ma dalle persone, dai laici, dalle donne.

«Figli di Dio» era il nome dato ai più poveri, agli ultimi, ai disabili mentali (così era l’uso in val d’Aosta). Come per Gandhi, gli “intoccabili”, la più bassa delle caste, erano “il popolo di Dio”, Harijan (Teoria e pratica della nonviolenza, p. CLXX).

Si moriva con dignità, in casa, meno assistiti dalla medicina, ma accompagnati dalla fraternità. Si perdonavano le offese: don Ciotti, il 13 novembre scorso, ha raccontato della madre di un ragazzo ucciso, che attende il fine-pena dell’uccisore, senza famiglia, per accoglierlo nella propria famiglia.

Allora si vedeva che, nonostante tutto, la società umana degli umili è un tessuto più vero e reale degli strappi che vi si possono trovare (il paragone è di Gandhi: Teoria e pratica della nonviolenza, p. 64-65).

Si soffriva la povertà, ma il buon cristiano non la malediva, vi scopriva un senso.

Motivi di speranza

Anche oggi ci sono motivi di speranza attiva, vigile e critica. Un amico delle zone alluvionate mi ricorda il segno che ha visto, nello sconforto: gli “angeli del fango” accorsi in aiuto, comparsi spontaneamente: nessuno li chiama, nessuno li premia, nessuno li paga. Noi anziani non dobbiamo cedere al “catastrofismo senile”.

Leggiamo in Mt 25: sono salvi e beati quelli che, servendo l’uomo bisognoso, servono anche Cristo bisognoso, senza saperlo: ci sono tanti volontari del “culto fattivo” a servizio dei poveri.

Il Concilio c’è, è entrato nel sangue della chiesa. Papa Francesco è riconosciuto uomo di vangelo. I profeti ci sono, saranno riconosciuti domani. I profeti sono minacciati, sono uccisi dalle mafie: vuol dire che, nella povertà, seminano verità liberante. I cristiani sono perseguitati, come Gesù ha preavvisato, ma difendono ogni perseguitato e non solo se stessi. Il vangelo è povero, anche noi, critici della chiesa, dobbiamo sentirci poveri di sicurezza critica.

Quale prospettiva?

Non ignoriamo affatto ritardi, mondanità, clericalismi resistenti, il nostro peccato. Però è in corso il superamento dei “duo genera christianorum”, la differenza sacralizzata tra clero e popolo. C’è più fraternità, uguaglianza: anche grazie alla provvidenziale riduzione di numero, nella chiesa il clero diminuisce, e cresce il popolo sacerdotale, profetico, regale.

Certo, persiste l’indebita, sottile violenza, la ricchezza del “sacro”, dei ministri “sacri”, di nuovo chiamati “sacerdoti” invece di presbiteri, come ha fatto il Concilio. Questa distinzione tra sacro e profano, annullata da Gesù laico, è ritornata nel linguaggio dopo qualche anno dal Concilio, specialmente tra i preti giovani, che sembrano cercare identità nel sacro e nel tempio, quando il “sacerdote” era inteso come “alter Christus”, che invece è titolo e vocazione di ogni cristiano. Di fronte al sacro potere gerarchico, io mi sono fatto una formula che vuole esprimere libertà e pace, non disconoscimento, ma dignità: “Non senza, non contro, non sotto”.

Nonostante tutto ciò, cresce il popolo di Dio, cala la “casta sacra”, che sembra una specie in estinzione. I ministri hanno bisogno del popolo. Così, in prospettiva, la chiesa è meno “ricca” secondo il mondo, meno divisa in dominanti e dominati, meno simile ai poteri del mondo: «Tra voi non così», ha detto Gesù. La chiesa è meno protetta e corrotta dall’appoggio interessato dei potenti; è meno “instrumentum regni”, e più ricca secondo il vangelo. É più povera di forza sociale ed è esposta alla persecuzione. Come diceva von Balthasar: il Concilio significa per la chiesa “inerme esposizione al mondo”. Forse la chiesa è più ricca di vicinanza a Gesù.

Una chiesa che parla, che discute al suo interno, è più povera di sicurezze magisteriali (parola che viene da “magis”, più), e più ricca di “ministeri”, da “minus”, meno, minori (san Francesco), è più chiesa delle periferie, degli scartati.

Le chiese cristiane sono più vicine tra loro, non si scomunicano più, una non si fa padrona e superiore alle altre, fino a disconoscerle (certo, questa arroganza riappare ogni tanto), ma ognuna è più povera di pretese, più umile, più vera. La chiesa sa di essere “chiesa di chiese”, plurale come sono plurali i quattro vangeli. Le chiese pregano insieme e insieme testimoniano. In alcune chiese locali, come a Torino, continua da alcuni anni la piccola esperienza mensile di “ospitalità eucaristica”: in una comunità cattolica o evangelica si celebra insieme la Cena del Signore, perché la fede nella sua presenza è comune a tutti, nella secondaria differenza delle interpretazioni teologiche o delle disposizioni giuridiche.

I cristiani non considerano più “false” le altre religioni, ciò che è una «dichiarazione di guerra» (Arturo Paoli), ma stanno in ascolto umile di ogni voce spirituale, e rispettano ogni raggio della «luce che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).

I cristiani non pensano più di avere la “proprietà” del giusto, del buono, della morale: «Chi sono io per giudicare?», ha detto papa Francesco. E perciò la chiesa è più libera di essere eco dell’appello di Gesù all’amore del prossimo, perché in questo amore «è tutta la legge e i profeti» (Mt 22,40).

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Chiesa povera di un Dio povero, ma vitale

Enrico Peyretti

Gesù, presenza povera di Dio nella povertà umana, non accusa chi si sente ed è misero nel cuore, peccatore; non colpevolizza se non chi si autopromuove giusto e sicuro (parabola del fariseo e del pubblicano).

È il vangelo dei poveri materiali e morali. Ma il vangelo è ricco del criterio che ci dà per distinguere la via buona e la via cattiva della vita. Il criterio è fare proprio, «nelle viscere» (come è detto del Samaritano), il bisogno e il dolore dell’altro, del povero, e agire per lui.

Sulle tracce di Gesù, una Chiesa povera e umile c’è. Non solo perché lo dichiara: «La chiesa.. riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente … La Chiesa, che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento» (Lumen Gentium 8; Dehoniane 306). Ma perché, sempre, risalendo la china delle proprie colpe, la chiesa, nei suoi membri più umili, non cessa di inseguire il vangelo ancor più che insegnarlo, tenerlo, portarlo. Parliamo di “discepoli”, di “sequela”: sì, anche se stiamo seguendo da una distanza, con un ritardo. È un inseguimento, ma non è rinuncia, non è abbandono del cammino, non è fermarsi. La chiesa non è lasciata in pace dallo Spirito che la muove e la smuove.

«Dio predilige i poveri non perché sono buoni ma perché sono poveri» (Alex Zanotelli). E Tonino Bello, vescovo, ha detto: non un primato ma un “ultimato”, sotto gli ultimi, perché Gesù lava i piedi, come ultimo degli ultimi, e questo vale come l’ eucaristia, nel vangelo di Giovanni. Lo spirito di povertà è nei peccatori credenti perché Dio si è fatto povero per essere con noi, e sollevarci.

Nei conflitti

La chiesa impara, si sta avviando, a privilegiare le vittime, i vinti, non i vincitori. Impara, nei cristiani impegnati per la pace-giustizia, a vedere i conflitti occultati, le vittime oscurate: non solo la guerra ma le violenze strutturali, e le vittime delle violenze culturali: la cultura violenta che è antropologia della divisione, la quale proclama: chi può faccia, chi non può taccia; ognuno per sé (poi semmai un dio per tutti, che però non unisce ma divide).

Nel conflitto asimmetrico (come Israele-Palestina), i cristiani imparano a stare col più debole , non per prender parte in una guerra, ma per rafforzare le ragioni conculcate, e dare forza nonviolenta alla liberazione dei più deboli, cercando la pace giusta per tutti.

Una violenza blanda

C’è una violenza blanda, la meritocrazia: il meritevole (bravo, capace, forte) merita di più; gli “scartati”, i falliti, i peccatori, passano dietro. Una meritocrazia esaltata è contraria alla giustizia e alla gratitudine: tutti riceviamo da tutti. La violenza è nel fatto che chi merita è già forte: la meritocrazia è il primato dei forti. Il mito del successo ci sta cambiando la personalità, deforma le nostre relazioni umane. Ci condanna al successo, oppure ad essere scarti insignificanti. Chi non ce la fa, è un perdente, accusato come scroccone, parassita sociale. La società della competizione impone solitudine. (Così Paul Verhaeghe su The Guardian, 29 settembre 2014).

C’è stata, nel cristianesimo, una vera e propria teologia del “merito” religioso, che ora viene sconfessata: non più la pretesa di ricompensa guadagnata con la propria virtù, forza e sacrifici, non più ricchi davanti a Dio (!), ma la salvezza come grazia, come dono dell’amore di Dio.

Tutti meritano di vivere

Il vero merito è del povero: la dignità di cui è degno. Tutti i viventi meritano di vivere: il programma di un salario vitale, o reddito di cittadinanza per tutti, è un obiettivo di giustizia. Se hai un figlio incapace, povero di merito, non lo ami meno del figlio brillante, ma provvedi a lui in modo uguale. Così farà una società umanizzata.

Il diritto è diritto a vivere, ben prima del diritto al compenso del lavoro, col quale compenso ora vivi tu e chi, non potendo lavorare, vive a tuo carico, come i bambini, come i senza-forza. Ogni persona, dalla nascita, ha diritto ad un salario sufficiente per vivere decentemente, a cura della comunità civile di cui è cittadino, in aggiunta, ovviamente, ai diritti sociali che già la storia civile ha individuato.

Sarebbe il Paese dei Balocchi, la regola dell’ozio e della pigrizia, padre e madre di tutti i vizi? Questa è già oggi la tentazione dei soli ricchi. Diventerebbe il peccato di tutti, o molti? Tra gli effetti sulla società potrà esserci non solo il negativo, ma anche lo sviluppo di tutte le arti, perché chi nasce Mozart potrà manifestarsi come Mozart (diceva Marx); e lo sviluppo dell’impegno sociale, come avviene già nelle persone di buona volontà non oppresse dalla necessità del lavoro assorbente, o mantenute dalla società, come i pensionati. Potranno svilupparsi tutte le attività sociali che soddisfano il senso generoso di solidarietà indipendente da qualunque vantaggio economico.

Certo, in questo progetto economico-sociale. l’aspetto primo diventa quello culturale-educativo-antropologico: a cosa mira una persona? a vivacchiare? a vincere sugli altri? Oppure a creare beni (materiali e immateriali) utili alla buona vita sua e di tutti? «Cercasi un fine» (Lorenzo Milani). Più dei soldi e della legalità, nella società umana, a questo punto della sua evoluzione plurimillenaria, manca un fine degno: permettere la fioritura inedita della vita, l’ “uomo inedito” intravisto da Ernesto Balducci. Le chiese cristiane, con l’elevazione morale che possono proporre, potranno dare un contributo corretto ad un tale progresso.

Fuggire il plauso dei forti

La chiesa deve fuggire la compagnia, il plauso e l’appoggio dei forti. Il «non così tra voi» (Luca 22, 26 ) è la costituzione della chiesa: il servizio agli altri dall’ultimo posto. La prima violenza è il dominio di alcuni su altri. Come diceva Helder Camara, questa è la catena della violenza: prima l’oppressione, il dominio; poi la ribellione violenta; infine la repressione per ristabilire l’oppressione. La violenza sembra cominciare solo con la ribellione, ma la sua radice e causa è nell’ineguaglianza violenta.

Una povertà evangelica nella società violenta è anche (molto) il ripudio delle armi, che sono necessarie per “difendere” la ricchezza diseguale, come risponde san Francesco al vescovo di Assisi che gli chiede «come potete vivere così poveri?» (Chiara Frugoni, Storia di Chiara e Francesco, Einaudi 2011, p. 38). La vera ricchezza da difendere e promuovere è la vita, che non si difende col dare la morte. Impegno della Chiesa sia anche sollecitare e sostenere economicamente gli obiettori al lavoro militare, perché è la produzione di armi che produce le guerre: «Le armi chiamano le guerre» (Grässlin, Schwarzbuch Waffen Handel)

Povera di potere, ricca di energia

Una Chiesa povera di potere sulla società, ma ricca di energia spirituale, una Chiesa che non siede tra i potenti, davanti alla guerra non fa (solo) appello ai potenti responsabili, ma anche – senza imporre nuovi pesi e obblighi – alla coscienza di chi esegue gli ordini di guerra, senza la cui collaborazione la guerra non avverrebbe: «Non uccidere», fu l’appello di Oscar Romero diretto ai militari come persone. Non era il suo comando di vescovo, ma il ricordo della voce inscritta in ogni coscienza, perché non venga soffocata dai comandi dell’impero. Ognuno risponda, prima che alle voci autorevoli e profetiche nella chiesa, alla propria coscienza e all’umanità coinvolta nella guerra.

Perché le voci più forti della chiesa fanno appello alla pace, al cessare il fuoco, più che alla pratica della nonviolenza attiva? La quale è lotta a tutte le violenze, anche strutturali e non solo belliche. Eppure le chiese hanno la possibilità di un forte radicamento interiore della nonviolenza, che è appunto, anzitutto, emancipazione intima dallo spirito violento, anche quando si atteggia a “giustiziere”

Pacifismo prudente e non la nonviolenza

Perché nelle chiese c’è un pacifismo prudente, ma non una radicale nonviolenza?

Possiamo tentare di rispondere: la prudenza e cautela ecclesiastica nel criticare la politica statale-militare vuole evitare il conflitto chiesa-impero, chiesa-stato (conflitto che però non evita nella morale sessuale). Ma c’è uno stretto nesso storico tra stato e guerra, stato e violenza, che la coscienza evangelica deve vedere e

contestare. La chiesa volle condurre quel conflitto quando si trattava di acquistare indipendenza-potere, nel medio-evo (Gregorio VII), e non lo conduce oggi sul punto della guerra. Perché?

Forse per timore di indebolire la struttura stato moderno, stato di diritto, a vantaggio di dittature certamente peggiori.

Forse perché, accettata la democrazia (nel suo valore e limiti), i cattolici-democratici sono corresponsabili del valore come dei disvalori dello stato moderno, cioè del legame strutturale con la guerra che viene giustificata come “extrema-ratio”: estrema, ma “ratio”, anche se papa Giovanni ha bollato la guerra come“alienum a ratione”, fuori di ragione.

Forse perché la nonviolenza è confusa con un utopismo morale, astratto, fuori dal realismo storico-politico, dall’etica della responsabilità. Ma la cultura e la pratica della nonviolenza, negli sviluppi storici del Novecento, sa assumere una responsabilità qualificata di fronte agli altissimi rischi di distruzione generale che la logica delle armi continua ad accumulare sulla vita dell’umanità.

Siamo ricchi di dono, poveri di risposta

Ricevuto un grande dono di luce e di spirito, l’essere ricchi di dono ci fa sentire, come cristiani, poveri di risposta. L’insufficienza non ci dispera, non ci abbatte, ma ci rende invocanti e ci fa sentire chiamati, attesi con pazienza dal Padre. La povertà-umiltà è saperci non autosufficienti, e l’essere cercati dal Padre è la nostra non-solitudine. Il bisogno è relazione, gratitudine, apertura. Siamo poveri perché chiamati oltre: siamo smossi, déplacès, dislocati, emigranti, pellegrini. Il senso di povertà ci fa invocare e camminare. La ricchezza della chiamata ci incoraggia.

Avere una meta è averla e non averla. La nostra non è una povertà di lusso, di quelli che si sentono poveri perché desiderano grandi cose; la nostra è la povertà umana, della “grandezza-miseria” umana (diciamo con Pascal). Soltanto, senza merito, sappiamo il nome di ciò che ci manca, e ci manca perché ci ha toccato. Ci manca solo chi ci ha innamorato, chi ha spezzato il guscio della nostra autosufficienza, chi ci ha avviato alla via di giustizia, di amore, fraternità, via sempre incompiuta.

È la povertà-umiltà del peccatore-perdonato, di nuovo onorato, non scartato; egli è povero di virtù vantata, ha la povertà dell’uomo di fede, di qualunque fede, la povertà di chi ode una voce-oltre, che chiama, che non è respinta, che non ci lascia più soddisfatti e sazi di noi. Il bene rivelato ci fa più bisognosi di bene.

Il nostro cuore è inquieto – senza pace, povero, anelante, ma smosso, in cammino, pellegrino – finché non riposa in Te.