La follia del canale interoceanico. Il governo sandinista svende il Nicaragua di C.Fanti

Claudia Fanti
Adista Notizie n. 7 del 21/02/2015

Per il presidente sandinista Daniel Ortega è il sogno della Terra Promessa che si avvera. In realtà, il progetto di costruzione in Nicaragua del Grande Canale interoceanico, di cui lo scorso 22 dicembre il governo ha annunciato ufficialmente l’inizio dei lavori, disegna, piuttosto, uno scenario infernale. Un’opera faraonica, dal costo previsto di 40 miliardi di dollari, che taglierà il Paese a metà, da est a ovest, dalla foce del fiume Brito sul Pacifico a quella del fiume Punta Gorda sul Mar dei Caraibi, spezzando la continuità ecosistemica del corridoio biologico mesoamericano: un canale di navigazione di 278 chilometri (contro i 77 del canale di Panama) che attraverserà non solo vaste aree di foresta vergine ma anche, per oltre 100 chilometri, la maggiore riserva di acqua potabile del Centroamerica, il lago Nicaragua o Cocibolca.

Con conseguenze incalcolabili: la distruzione di migliaia di chilometri quadrati di boschi e di zone umide della riserva protetta di San Miguelito, con danni inimmaginabili all’habitat di almeno 22 specie già a rischio di estinzione; un pericolo maggiore di catastrofi naturali in una zona già ad alto rischio sismico (il canale, infatti, dividerà in due l’arco vulcanico centroamericano e passerà a fianco di vari vulcani attivi); un colpo decisivo alla qualità dell’acqua e alla sua distribuzione – grazie all’impatto combinato dei lavori di costruzione del canale e delle perdite accidentali di petrolio da parte di imbarcazioni fino a 250mila tonnellate di stazza –, senza contare l’espulsione di oltre 250 comunità contadine e indigene.

Ma non è tutto: per la realizzazione della monumentale opera, definita da alcuni ambiziosa fino al ridicolo, lo Stato del Nicaragua ha anche ceduto parte della sua sovranità nazionale, rilasciando una concessione cinquantennale, rinnovabile per altri cinquant’anni, all’impresa cinese HK Nicaragua Canal Development Investment. Dopo l’approvazione in tempi record (e senza alcuna trasparenza) della legge che ha dato il via libera alla costruzione dell’opera – ha scritto il teologo Ernesto Cardenal in un articolo significativamente intitolato “La mostruosità del canale interoceanico” (El País Internacional, 7/11) – con altrettanta «vertiginosa rapidità» è stata rilasciata la concessione – che prevede anche un aeroporto, due porti, un centro turistico e zone franche di libero commercio – «a un cinese fino ad allora sconosciuto di nome Wang Jing», a cui sono stati riconosciuti tutti i diritti – e permessi, e autorizzazioni (anche per la confisca di proprietà al di fuori del tracciato del canale) – e nessun dovere, nessuna responsabilità amministrativa, civile o penale.

E tutto ciò in cambio dell’1% annuo delle azioni, in attesa di disporre del controllo completo dell’opera dopo cent’anni. «Tutte le nostre acque, superficiali e sotterranee, saranno cedute a un cinese», il quale, «ai padroni delle terre che saranno espropriate, verserà un prezzo pari al valore catastale, non a quello di mercato». Quanto al lago Cocibolca, «che per noi è una grande benedizione di Dio», contribuendo in maniera essenziale alla sicurezza alimentare del Nicaragua, «si trasformerà in una maledizione. La sua distruzione sarà il crimine più grande della storia del nostro Paese» (e sulla «perdita irreparabile nel patrimonio naturale e culturale dell’umanità» ha posto l’accento anche un ampio cartello di organizzazioni nicaraguensi in una lettera ai capi di Stato riuniti al III Vertice della Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici, svoltosi a San José di Costa Rica il 28 e 29 gennaio scorso).

Ne era cosciente, peraltro, lo stesso Daniel Ortega, quando, nel 2007, durante un’iniziativa a favore dei boschi e dei laghi del Nicaragua, assicurò che «neppure per tutto l’oro del mondo» si sarebbe potuto porre in pericolo il lago: «Nessuna quantità d’oro al mondo potrà farci cedere, perché il Grande Lago è la maggiore riserva d’acqua del Centroamerica e non la metteremo a repentaglio con un megaprogetto come il canale interoceanico». Sette anni dopo, ignorando le denunce e reprimendo ogni protesta, Ortega ha spiegato che non era stato facile per lui convincersi della bontà dell’opera, ma che in questo era stato aiutato da Leonardo Boff, il teologo che più di ogni altro ha dedicato le proprie energie alla difesa della Madre Terra, il quale, durante una visita in Nicaragua, gli aveva indicato le grandi opere realizzate in Brasile come esempio di una relazione sana con la natura.

«Fu un grande sollievo per me», è stato il commento del presidente del Nicaragua. A sorpresa, Boff non ha smentito: «Due anni fa, in una conversazione informale a casa dell’ex ministro degli Esteri Miguel D’Escoto, il presidente Ortega disse che gli Stati Uniti stavano esercitando pressioni su Paesi e imprese perché non investissero in Nicaragua. Che il Paese stava sprofondando nei debiti. E che la soluzione definitiva sarebbe stata quella di costruire un canale in grado di garantire al popolo condizioni minime di sviluppo». Al che Boff avrebbe detto che «occorre combinare i due poli, quello umano e quello ambientale, giacché i due si appartengono. E oggi esistono tecnologie in grado di evitare danni irreparabili»: «Lo consigliai di andare a visitare la diga più grande del mondo, quella di Itaipú a Foz do Iguaçu, un’esperienza di felice equilibrio tra essere umano e natura. È tutto quello che dissi» (Confidencial, 2/11). Ed è anche quello che oggi sostiene il governo, convinto che il tracciato del canale scongiurerà ogni rischio per l’ambiente e che l’opera, oltre a combattere povertà e disoccupazione, garantirà le risorse necessarie alla protezione del lago Cocibolca e alla riforestazione del Paese.

A smentire Ortega, e anche Boff, è invece lo scrittore nicaraguense Sergio Ramírez, già vicepresidente al tempo della rivoluzione sandinista e poi diventato acerrimo nemico di Ortega: non esiste, a suo giudizio, alcuna pressione degli Stati Uniti, con i quali il Nicaragua manterrebbe al contrario normali relazioni di cooperazione economica, «come del resto possono testimoniare i rappresentanti del mondo imprenditoriale nicaraguense, soddisfatti dalle politiche ultraliberiste di Ortega», così come il Paese non starebbe affatto sprofondando nei debiti, essendo al contrario solide, secondo la Banca Centrale, le sue riserve monetarie. Oltretutto, aggiunge Ramirez, quando Wang Ying, nel 2013, presentò a Managua il progetto in pompa magna, ad accompagnarlo c’erano rappresentanti di potenti imprese statunitensi, come la McLarty & Associates, al cui servizio «figura quel John Dimitri Negroponte che nelle vesti di ambasciatore di Reagan in Honduras diresse negli anni ’80 le operazioni militari della Cia contro il Nicaragua» (La Jornada, 16/11).

Il nodo della questione, in ogni caso, va oltre la singola polemica, investendo il modello di sviluppo perseguito dai governi latinoamericani cosiddetti progressisti (a prescindere dalla possibilità o meno di considerare tale il governo Ortega, fautore di un modello che, come denuncia il movimento sociale nicaraguense “Otro Mundo es Posible”, promuove «uno schema di investimenti stranieri diretti basati sull’industria maquiladora», con tutto ciò che essa comporta in termini di sfruttamento del lavoro). Governi clamorosamente incapaci di conciliare un modello ecocompatibile, cioè rispettoso dei limiti del pianeta, con la soddisfazione delle necessità di base di tutta la popolazione, dando di fatto per scontato che non esista altra strada possibile che quella di un sistema fondato sulla crescita economica e, per questa via, finendo per giustificare progetti inutili, costosi ed ecologicamente devastanti in nome della creazione di posti di lavoro o del finanziamento ai programmi di lotta contro la povertà. Come se a pagare maggiormente le conseguenze della distruzione degli ecosistemi, dell’avvelenamento dell’acqua, del suolo e dell’aria e del riscaldamento climatico non siano alla fine proprio le fasce più povere.