Un’educazione alle radici dell’umano di L.Melandri

Lea Melandri
http://comune-info.net

Corpo, individuo e legame sociale sono parti inscindibili dell’essere umano, ma siamo abituati a pensarli come fossero separati, tanto da non meravigliarci che siano diventati oggetto di saperi diversi (biologia, psicanalisi, sociologia, ecc.), quasi sempre senza alcuna relazione tra di loro. Per quanto utile un lavoro interdisciplinare non basta. Occorre trovare il luogo concreto, reale, dove questi aspetti dell’esperienza si danno insieme, in una circolarità che impedisce di dire quale è venuto per primo. Questo luogo è l’individuo, uomo o donna: è da lì che passano sia il tempo biologico che il tempo storico – il fatto di appartenere a una determinata società e cultura –, è lì che tutti questi elementi si organizzano a formare la persona che siamo. La conquista più importante della “rivoluzione” culturale portata dal movimento degli insegnanti negli anni Settanta è stata quella di mettere al centro la “vita intera” e partire da lì, dalla soggettività di ognuno/a per ripensare la società, le sue istituzioni, i suoi linguaggi, i suoi poteri.< ---more--->

Io venivo dalla provincia. Benché femmina, nata da una famiglia molto povera di contadini mezzadri, ho avuto il privilegio di studiare. La frequentazione di un ottimo liceo di provincia mi ha aperto prospettive insperate, vie di salvezza rispetto al destino dei miei parenti, ma ne sono uscita con l’idea che gran parte della mia vita – legata all’origine sociale, al fatto di essere femmina, al fatto di aver vissuto in condizioni di promiscuità, dove amore e violenza si confondevano – fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche, intraducibile nelle lingue colte. “Fuori tema”, benché di ottima scrittura, fu giudicato il mio primo scritto in quarta ginnasio, un dolore che ha rischiato di far finire lì la mia istruzione. Anziché attenermi al titolo, Novembre, che presupponeva un esercizio di tipo letterario, avevo descritto la fatica dei miei parenti, alle prese col duro lavoro dei campi, la miseria, le liti fra tre nuclei famigliari stipati in poche stanze. Dopo la fuga dal paese, appena laureata, e quando mi accingevo ad assumere il ruolo di insegnante, l’arrivo a Milano nel ’66, l’incontro col movimento non autoritario nella scuola nel ‘68 e poco dopo con il femminismo, hanno rappresentato una specie di rivoluzione copernicana. Il corpo, la sessualità, la vita affettiva, considerate da sempre materia intima, privata, e come tale estranea ai saperi e ai linguaggi della cultura, così come alle grandi questioni della politica, prendevano una inedita cittadinanza e legittimità di parola: il fuori tema diventava il tema.

Ma la scoperta o la presa di coscienza più importante per chi cominciava allora il suo insegnamento, era l’aprirsi di una prospettiva nuova: partire dall’esperienza di ognuno, riportare dentro le aule la vita in tutti i suoi aspetti, creare le condizioni per poterla raccontare farne oggetto di riflessione insieme agli altri. Voleva dire legittimarsi a portare allo scoperto tutto ciò che era rimasto fino allora “il sottobanco”, dare voce al “ragazzo vivo”, contrapposto al “ragazzo scolastico”, per usare l’espressione di uno dei miei allievi della scuola media di Melegnano. L’“educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di un generico invito al rispetto reciproco – il “politicamente corretto” – deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Nel momento in cui si scopre che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere.

Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato. Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi. A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso. Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. Ci sono domande, emozioni, vissuti che si affacciano nell’infanzia e che, per non aver trovato risposte o parole per essere detti, sembrano aver fatto naufragio.

«Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente (…). Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione (…). Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia» (Francoise Lefèvre, Il Piccolo Principe Cannibale, Franco Muzzio Editore, Padova 1993).

I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo – insieme alla famiglia –, ma anche il loro inquadramento secondo norme di ordine e disciplina. Restano perciò il “sottobanco”, anche se segnalano vistosamente la loro presenza, i loro interrogativi, la loro vitalità. Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva – esibizionismo e voyeurismo – che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera? Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? È indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza – cura e conoscenza di sé -, così come è importante la dimensione collettiva. Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto. Quello che già in parte, purtroppo avviene.