Libia: la pace sul filo del rasoio di E.Cucuzza

Eletta Cucuzza
Adista Notizie n. 8 del 28/02/2015

Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 18 febbraio, è prevalsa la linea della soluzione politica alla crisi libica, sulla falsariga della “dichiarazione congiunta” firmata il giorno prima da Francia, Italia, Germania, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Nel consesso, l’Italia ha annunciato il ruolo che intende assumere nell’attuale contingenza libica: «Siamo pronti a contribuire al monitoraggio di un cessate il fuoco e al mantenimento della pace, pronti a lavorare all’addestramento delle forze armate in una cornice di integrazione delle milizie in un esercito regolare e per la riabilitazione delle infrastrutture», ha detto il rappresentante permanente italiano Sebastiano Cardi, con l’avvertimento tuttavia che «il tempo non è infinito, e rischia di scadere presto, pregiudicando i fragili risultati raggiunti» dalla mediazione Onu per ripristinare l’unità nel Paese libico, portata avanti da Bernardino León.

Insomma, per ora nessun intervento militare nella ex colonia italiana, che di italiani (impiegati in ben oltre 100 nostre imprese) è rimasta diserta. Con rarissime eccezioni. Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, per esempio, non si è imbarcato con i suoi connazionali sui catamarani che li hanno riportati in patria dopo la presa di Sirte da parte dei jihadisti. Se n’è rimasto a Tripoli, dove è vicario apostolico. «Devo rimanere!», ha detto ai microfoni di Radio Vaticana (16/2) nella prima delle varie interviste cui ha risposto, «come lascio i cristiani senza nessuno?». «Siamo qui», ha aggiunto, «testimoni di quello che Gesù ci dice di fare». Il rischio è alto: «Magari un momento o l’altro ci prendono e dicono: “Tu sei contro l’islam”… e basta. Siamo in una situazione di ambiguità. Ecco, questo è per mancanza di dialogo: c’è mancato il dialogo per tanto tempo, adesso bisogna recuperare il tempo».

«La comunità internazionale – sono le parole del vicario apostolico – dovrebbe essere capace di lanciare un dialogo con questo Paese che si è diviso e fa fatica a ritrovare innanzitutto l’unità interna. Cercare di essere strumenti di unità, innanzitutto per il Paese in se stesso e poi per il resto. Abbiamo pensato a prendere il petrolio, abbiamo pensato ai nostri interessi e ci siamo un po’ dimenticati del dialogo umano, sincero, tra le parti». Di una cosa è convinto mons. Martinelli: dietro gli jihadisti del sedicente Califfato dello Stato Islamico (Is o Isis o Daesh), dietro il foraggiamento di denaro che li ha resi ricchi, «c’è il petrolio! I pozzi di petrolio della Libia, quelli del Golfo Persico, eccetera…». Al Corriere della Sera (17/2) ha ribadito la sua determinazione a restare, pur aggiungendo: «Ho visto delle teste tagliate e ho pensato che anch’io potrei fare quella fine. E se Dio vorrà che quel termine sia la mia testa tagliata, così sarà. Anche se Dio non cerca teste mozzate, ma altre cose in un uomo… Poter dare testimonianza è una cosa preziosa».

21 martiri egiziani. Al-Sisi va in cattedrale

Testimonianza cristiana è stato sicuramente il martirio che hanno subìto i 21 copti egiziani decapitati dall’Isis in terra di Libia (oltre 2 milioni gli egiziani che vi lavorano), ha riconosciuto papa Francesco. Il quale il 16 febbraio ha espresso la sua «tristezza»: «Sono stati assassinati per il solo fatto di essere cristiani». A loro ha dedicato la messa del 17 febbraio in Santa Marta e ha anche telefonato al patriarca della Chiesa copta ortodossa, Tawadros II, per manifestare la sua «profonda partecipazione al dolore della Chiesa copta».

A Twadros II sono giunte le condoglianze delle autorità egiziane, portate dal presidente Abd al-Fattah al-Sisi, che il giorno 16 si è recato personalmente in cattedrale. Il luttuoso, tragico evento ha determinato Al-Sisi a pesanti e, a quanto pare, incisivi bombardamenti sulle postazioni dei jihadisti a Derna, decisione presa autonomamente, dato che l’Egitto non fa parte della coalizione internazionale variamente impegnata in Siria e Iraq sia contro il “Califfato” islamico, sia contro il governo del presidente siriano al-Assad. Il quale è peraltro il nemico che l’Isis e la coalizione internazionale hanno in comune.

Le decapitazioni hanno scosso tutto l’Egitto: «Questa tragica vicenda – ha riferito all’Agenzia Fides il 16/2 p. Hani Bakhoum Kiroulos, segretario del patriarcato copto cattolico – sta unendo tutto il Paese, cristiani e musulmani. Se puntavano a dividerci, il loro progetto è fallito. La dura condanna dell’università di Al Azhar (massimo centro teologico dell’islam sunnita, ndr) è stata immediata e senza appello. E anche la fulminea operazione militare dell’aviazione egiziana contro le basi dello Stato Islamico in Libia mostra che per il governo i cittadini egiziani sono tutti uguali, e che l’Egitto si sente colpito come nazione dal delirio sanguinario dei terroristi».

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LA PACE SI PUÒ: LA ROAD MAP DELLE ASSOCIAZIONI PER SUPERARE LA CRISI LIBICA

Un intervento volto a fermare in Libia l’avanzata dell’Isis (v. notizie precedenti) è stato auspicato con chiarezza dal segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin. Durante l’incontro del 17 febbraio con le autorità italiane per la ricorrenza della revisione dell’Accordo concordatario (firmato il 18/2/84), ha detto che «occorre intervenire presto, ma sotto l’ombrello Onu». Un’affermazione generica che rischia di far supporre un intervento anche in armi.

Più articolate e propositive le prese di posizione di organismi di cattolici di base e pacifisti. Il religioso comboniano p. Alex Zanotelli, insieme al noto saggista e storico Angelo Del Boca, ha firmato un appello intitolato “No ad una seconda guerra in Libia!” chiedendo «alle autorità del nostro Paese di non commettere il gravissimo errore compiuto nel 2011 quando offrimmo sette delle nostre basi aeree e più tardi una flotta di cacciabombardieri per aggredire un Paese sovrano, violando, per cominciare, gli articoli 11, 52, 78 e 87 della nostra Costituzione». «In un solo caso – precisano i promotori dell’appello – l’Italia può intervenire», ma «nell’ambito di una missione di pace e dietro la precisa richiesta dei due governi di Tripoli e di Tobruk che oggi si affrontano in una sterile guerra civile. Ma anche in questo caso l’azione dell’Italia deve essere coordinata con altri Paesi europei e l’Unione Africana».

Secondo Pax Christi, «dare inizio a un’altra guerra significa aumentare l’orrore, aiutare il terrorismo, produrre altri profughi, viaggi disperati gestiti dalla malavita». Nel comunicato del 16 febbraio si rammenta che «l’Italia in Libia ha già dato militarmente (2011). Ne vediamo le conseguenze: distruzioni delle strutture amministrative, caos armato e terrorismo spietato contro il quale poi si invoca come “inevitabile” la guerra con una propaganda ben orchestrata. Chiediamo al nostro governo che, nel rispetto della Carta costituzionale, non si faccia catturare dai nuovi venti di guerra». Occorre piuttosto «bloccare la vendita delle armi e ogni rapporto con chi è a supporto dell’Isis», «aprire corridoi umanitari», avviare «misure che facilitino l’arrivo in sicurezza dei migranti, la legalizzazione di vie d’ingresso», «il contrasto alla criminalità che sfrutta e uccide le persone che lasciano i propri Paesi, spesso partendo proprio dalla Libia».

Una serie di suggerimenti per superare la crisi libica è contenuta anche nel testo congiunto delle “Reti Pacifiste e disarmiste”“ (Rete della Pace, Campagna Sbilanciamoci, Rete Italiana per il Disarmo) per le quali «guerra e intervento militare non sono soluzioni per la martoriata Libia». Fra l’altro : «Bloccare le fonti di finanziamento del terrorismo, la vendita delle armi e di petrolio, le complicità con i diversi gruppi di miliziani armati che imperversano nella regione. Un modo per non diventare complici in un conflitto che ci vede già molto responsabili, e per non essere “imprenditori di morte pronti a fornire armi a tutti” come ha ricordato oggi lo stesso papa Francesco» ; «sostenere la ricostruzione dell’assetto statuale libico, con tutte le forze della diplomazia e della politica, a partire dall’iniziativa dell’Onu per un accordo tra le parti»; ed ancora, «la comunità internazionale, sotto guida Onu e con l’impegno e la cooperazione della Lega Araba e dell’Organizzazione degli Stati africani, deve farsi garante e protettrice di un futuro accordo di pace, anche al fine di mettere alle strette Qatar, Arabia Saudita ed altri Paesi della regione che – in maniera ipocrita – sono responsabili nel sostegno e nella propagazione delle guerre in corso».

Per Flavio Lotti, della Tavola della Pace, «bisogna essere disponibili a costruire su basi diverse i nostri rapporti economici con quel Paese. Quello che noi proponiamo non è un intervento militare, ma di una forza di polizia internazionale delle Nazioni Unite, ai sensi del capitolo settimo e ottavo della carta delle Nazioni Unite. Quello di cui abbiamo bisogno è esattamente quello che facciamo quando si lotta contro la mafia. Non andiamo a bombardare ma usiamo l’intelligence e facciamo un lavoro di isolamento sul terreno».

Beppe Sini, del Centro di ricerca per la pace di Viterbo, in un comunicato del 17 febbraio osserva: «Le guerre terroriste e stragiste con cui la superpotenza statunitense ed i suoi alleati europei hanno destrutturato tre Stati – l’Iraq, la Libia e la Siria – in gran parte del loro territorio, hanno ovviamente creato zone franche in cui si sono insediati poteri criminali la cui ferocia si alimenta» anche della «più brutale cultura di massa occidentale (e della capacità di uso propagandistico dei social media da parte di macellai nativi digitali)». Aggiunge che delle religioni «tutti i massacratori fanno un uso così palesemente strumentale che chiunque capisce che qui è questione di ricerca e mantenimento di terrestrissimo potere politico ed economico, non di affermazione di valori ultimi». «E sono le nostre armi che traboccano sul mercato nero della morte ad armare le mani assassine tutte. E sono ancora le nostre guerre recenti e il nostro plurisecolare e ogni giorno crescente sfruttamento degli esseri umani e della natura ad aver provocato e provocare ogni giorno gli orrori e i disastri che costringono innumerevoli vittime alla fuga dalle loro case alla disperata ricerca di uno scampo dalle guerre, dalle dittature, dalla fame, dalla morte».