Meno giornali, meno liberi di L.Kocci

Luca Kocci
www.adistaonline.it

Pochi giorni fa l’organizzazione non governativa Reporters sans frontières ha pubblicato la sua annuale sulla libertà di stampa nel mondo. L’Italia si colloca in 73a posizione, su un totale di 180 Paesi.

Riusciamo a fare meglio di Israele (al 101° posto), dell’Afghanistan (122°), della Turchia (149°), della Russia (152°), della Libia (154°), dell’Iraq (156°), della Cina (176°) e della Siria (177°). Ma, al di là della prima posizione occupata dalla Finlandia, siamo ben lontani dagli altri Paesi europei con i quali sarebbe più logico confrontarsi: Germania (12° posto), Portogallo (26°), Spagna (33°), Gran Bretagna (34°), Francia (38°). Ma c’è più libertà di stampa anche in Estonia (10°), in Namibia (17°), in Burkina Faso (46°) e in Bosnia Erzegovina (66°).

Fra gli indicatori utilizzati da Reporters sans frontières per stilare la ci sono le intimidazioni e le minacce a cui sono sottoposti i giornalisti (e l’osservatorio “Ossigeno per l’informazione” ha calcolato che in Italia lo scorso anno ci sono stati 506 giornalisti minacciati per la loro attività). Ma sono stati impiegati anche criteri più “ordinari”, come la trasparenza, la censura e l’intervento della politica sull’informazione.

Per non parlare poi della concentrazione della proprietà dei principali organi di informazione e mezzi di comunicazione in poche, pochissime mani. La notizia di questi giorni sulla possibile acquisizione di Rcs Libri da parte di Mondadori è solo l’ennesima testimonianza di un sistema editoriale dominato da 4-5 grandi gruppi imprenditoriali – solitamente con notevoli e disparati interessi industriali e finanziari che poco hanno a che fare con l’informazione – che gestiscono buona parte del settore.

Tutto ciò costituisce un evidente problema di libertà e di giustizia, perché viene meno sia il diritto di essere informati, sia la possibilità di far sentire la propria voce. In breve, si tratta di un problema di democrazia.

La situazione è destinata a peggiorare, anche a causa delle politiche del governo Renzi, che riguardano sia il presente che il futuro.

Nell’immediato, l’esecutivo si è reso responsabile di un fatto di inaudita gravità. A dicembre, con un mero atto amministrativo, ha svuotato quasi del tutto il magro fondo statale a sostegno dell’editoria cooperativa relativo all’anno 2013. Un inedito taglio retroattivo di quanto era già stato messo in bilancio. Non si trattava cioè di contributi promessi per il futuro e poi ritirati. Ma di fondi programmati da tempo, la cui erogazione era stata già comunicata alle cooperative editoriali, ora cancellati con un tratto di penna.

Nel medio e lungo periodo si mostra cieco e sordo alle richieste che – in verità da diversi anni, quindi la cecità e la sordità non riguarda solo l’attuale premier – arrivano dal mondo dell’editoria libera ed indipendente, quindi economicamente povera perché senza padroni e padrini, di richieste che riguardano una riforma complessiva del sistema che possa porre fine agli abusi del passato, che indubbiamente ci sono stati, e consentirgli di vivere per continuare a raccontare quello che nessuno o pochi raccontano.

Per questi motivi centinaia di piccole testate, fra cui Adista, hanno lanciato in questi giorni “Meno giornali = meno liberi”, una campagna per salvaguardare il pluralismo dell’informazione e per una riforma urgente dell’intero settore dell’editoria (la campagna è promossa anche da Alleanza delle cooperative italiane comunicazione, Articolo 21, Mediacoop, Federazione italiana settimanali cattolici, Federazione italiana liberi editori, Federazione nazionale stampa italiana, Sindacato lavoratori comunicazione Cgil, Associazione nazionale stampa online, Unione stampa periodica italiana). C’è un manifesto-appello da firmare (su www.menogiornalimenoliberi.it) – e invitiamo i nostri lettori a farlo – per chiedere a governo e Parlamento di approvare misure urgenti, tese a salvaguardare le testate di cooperative e associazioni no profit che sono a rischio di chiusura a causa dei tagli immotivati del contributo diretto all’editoria; e per l’avvio immediato di un tavolo di confronto sull’indispensabile riforma dell’intero sistema dell’informazione (giornali, radio, tv, internet).

«Circa 200 testate di giornali, gestite da cooperative e associazioni, tutte no profit, rischiano oggi, se non interverranno il governo e il Parlamento con misure urgenti e adeguate, la definitiva chiusura», si legge nell’appello. «Una chiusura che sarebbe di straordinaria gravità per un Paese democratico. Senza questi giornali l’informazione italiana sarebbe in mano a pochi grandi gruppi editoriali e in molte Regioni e Comuni rimarrebbe un unico soggetto, monopolista di fatto, dell’informazione locale e regionale. Senza questi giornali, impegnati da sempre a narrare e confrontare con voce indipendente esperienze, testimonianze, inchieste connesse a specifiche aree di aggregazione sociale e culturale e ad affrontare con coraggio tematiche di particolare rilevanza a livello nazionale, l’informazione italiana perderebbe una parte indispensabile delle proprie esperienze plurali».

Le conseguenze economico-sociali sarebbero disastrose, tanto più in tempi di crisi: perdita di 3mila posti di lavoro tra giornalisti e poligrafici, con una forte ricaduta negativa per l’indotto (tipografi, giornalai, distributori, trasportatori) e per le economie locali nel loro complesso; 300 milioni in meno di copie di giornali distribuite ogni anno in Italia; 500mila pagine di informazione in meno ogni anno; milioni di articoli, post, blog… in meno, ogni anno.

E lo Stato non solo non risparmierebbe un centesimo – come vorrebbe la vulgata grillina, evidentemente abbracciata dal governo Renzi – ma spenderebbe molto più in ammortizzatori sociali per tutti coloro che perderebbero il lavoro e avrebbe minori entrate fiscali. I costi quindi sarebbero largamente superiori al valore delle somme necessarie per adeguare il Fondo per il contributo diretto all’editoria al fabbisogno effettivo, individuabile per il 2015 in circa 90 milioni di euro. Ovvero poco meno del costo di un cacciabombardiere F35 (stimato fra i 99 e i 107 milioni), di cui l’Italia acquisterà 90 esemplari.

«La Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione europea – conclude l’appello – impegna ogni Paese a promuovere e garantire la libertà di espressione e di informazione. Lo Stato italiano risulta oggi, però, agli ultimi posti in Europa per l’investimento pro capite a sostegno del pluralismo dell’informazione. L’investimento attuale è, infatti, pari ad una percentuale irrisoria del bilancio dello Stato». Per questo si può e si deve fare di più.

«Garantire la Costituzione significa garantire l’autonomia e il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia», ha detto il presidente della Repubblica nel suo discorso di insediamento davanti a tutto il Parlamento. Verrà ascoltato?