I cattolici ed il cibo: poche regole e molte tradizioni popolari di S.Toppi

Stefano Toppi
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Rispetto al cibo, poche parole basterebbero a descrivere il rapporto tra questo e l’universo cattolico. Poche sono infatti le regole alimentari che i cattolici sono tenuti ad osservare. E in buona parte ritengo disattese in un mondo sempre più secolarizzato.

Il catechismo della Chiesa Cattolica, al punto 1438, ricorda quali sono “i tempi e i giorni di penitenza nel corso dell’anno liturgico (il tempo della quaresima, ogni venerdì in memoria della morte del Signore)” come momenti forti per la pratica penitenziale. E tra le pratiche penitenziali viene enumerato il digiuno oltre all’elemosina e alla condivisione fraterna. Più apertamente nell’argomento entra poi il quinto precetto della Chiesa Cattolica: “Osserverai il digiuno e praticherai l’astinenza”.

Per secoli è stata l’astinenza dal mangiare carne di animali la regola più presente nelle coscienze dei fedeli. Non mangiar carne il venerdì è una cosa che ricordano tutti i cattolici ultracinquantenni.

Poi, dopo il Concilio Vaticano II, questa regola si è attenuata, è divenuta sostituibile con altre forme di penitenza; così l’astinenza dalle carni, ma anche da cibi sofisticati e costosi, ed il “digiuno ecclesiale” (ossia il fare un solo pasto al giorno e, al più, uno “spuntino”) sono rimasti obbligatori solo per il mercoledì delle ceneri ed i venerdì di quaresima; di fatto per la maggior parte dei cattolici credo che questo sia stato inteso come una fine della regola e che questo dovere sia passato presto nel dimenticatoio di buona parte dei fedeli.

L’altro obbligo inerente il cibo riguarda il digiuno prima di ricevere l’Eucarestia. Anche questo è passato dal “prima della mezzanotte” di quando ero bambino, al “da un’ora prima” odierno, più facile da osservare.

Esistono poi casi particolari, come quello della congregazione dei frati Minimi di San Francesco di Paola, che prevede l’astinenza permanente dalle carni animali, perché, mi spiegavano, ai tempi del fondatore mangiare carne era un privilegio dei ricchi, mentre i frati si dovevano adeguare allo stile di vita dei poveri calabresi che, a quei tempi, nei paesi della costa, vivevano di pesca; per cui nelle mense dei Minimi si mangiava tutti i giorni pesce (ricordo l’odore inconfondibile della mensa del collegio di quella congregazione, in cui avevo molti amici). E altre situazioni simili esisteranno che non conosco.

Parlando poi del rapporto tra cattolici e cucina, non si può fare a meno di restringere il campo di osservazione al livello nazionale, ma sarebbe meglio, in Italia, scendere ad un dettaglio regionale. Tante sono infatti le diverse tradizioni che legano il cibo a momenti dell’anno liturgico. Molte di queste hanno assunto nel tempo un carattere commerciale e si sono diffuse a livello nazionale (penso ai dolci del Natale, anche a quelli che fino a cinquant’anni fa avevano una diffusione solo locale, come i Cavallucci senesi che una volta venivano preparati in casa ed oggi si trovano in tutti i supermercati), ma altre rimangono legate a tradizioni regionali.

Per farsi un’idea di queste varietà territoriali rispetto alla cucina delle feste religiose, basta cercare in Internet, ad esempio, la voce “dolci dei morti”, ossia quelli che vengono preparati nella ricorrenza del 2 novembre. Scopriremo non solo che nelle diverse regioni del nostro paese esistono tradizioni popolari che nulla hanno da invidiare all’Halloween nord europeo, ma che esiste una grande varietà espressiva nei dolci, spesso confezionando, con ricette diverse, biscotti che, pur nella diversità dialettale, significano “ossa di morto”.

Andando a scavare nell’origine delle feste cristiane poi, gli studiosi hanno trovato spesso riferimenti a festività preesistenti dal periodo dell’impero romano e spesso anche le tradizioni alimentari hanno una relazione in comune con queste.

Ad esempio la festa dell’Epifania, sul piano alimentare e della cucina sembra derivare dagli antichi culti agrari, in cui si usavano cucinare pietanze a base di legumi e di maiale. In alcune zone d’Italia è ancora presente una tradizionale ciambella dei Magi. In una torta dolce si nasconde una fava secca e chi la troverà nella propria fetta sarà il “re” della festa e avrà la fortuna dalla sua per tutto l’anno, incarnando quello che una volta era il re dei saturnali Romani, divenuti i re Magi della tradizione Cristiana.

L’agnello che si mangia a Pasqua poi sembra derivare dalla tradizione ebraica ma, nel cristianesimo, assume un altro significato simbolico con Cristo che, secondo una antica visione teologica, assume la figura di agnello sacrificale.

Per concludere non si può dimenticare che al centro dei culti delle chiese cristiane c’è un segno di condivisione di pane e vino in memoria di una cena. Ma qui mi fermo e lascio la parola ai teologi.