Il Gesù che torna uomo nella teologia che si fa strada. Un ricordo di p. Ortensio da Spinetoli di V.Gigante

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 14 del 11/04/2015

Uno dei tanti messaggi comparsi su Facebook alla notizia della sua morte lo descrive, in maniera sintetica ma acuta, «silenzioso, attento, rispettoso ed amabile». Ed in effetti le caratteristiche fondamentali di Ortensio da Spinetoli, al secolo Ortensio Urbanelli, scomparso il 31 marzo scorso, sono sempre state la sua riservatezza, il rigore e la serietà dello studioso, unite all’assoluta modestia, che lo ha portato ad evitare qualsiasi forma di autocelebrazione, alla costante curiosità ed attenzione per ciò che lo circondava e all’ascolto di chi gli era accanto.

Nonostante avesse ormai compiuto 90 anni, p. Ortensio da Spinetoli, teologo, biblista, frate minore cappuccino, si può dire se ne sia andato improvvisamente, perché ancora il 28 marzo aveva partecipato a S. Benedetto del Tronto ad uno dei tanti incontri organizzati per raccontare l’ultimo libro che aveva scritto, Io credo. Dire la fede adulta, nel quale il religioso cappuccino, riprendendo un discorso avviato sin dal suo volume Bibbia e catechismo (Paideia Editrice, 1999), ripercorre i nodi della fede cristiana per evidenziare la storicità e la relatività dei linguaggi. Affermando che una fede adulta deve mettere al centro la prassi di Gesù e non un elenco di dottrine cui dare un assenso intellettuale.

Gesù uomo vs. Gesù Dio

Nato nel 1925 a Spinetoli, piccolo comune in provincia di Ascoli Piceno, prete e frate cappuccino dal 1949, p. Ortensio è stato uno dei più autorevoli esponenti della teologia postconciliare in Italia. Esperto del Nuovo e Vecchio Testamento, ha dedicato gran parte della sua vita allo studio della Parola di Dio attraverso la mediazione della parola umana e all’approfondimento del Gesù storico. La sua ricerca ed il suo contributo innovativo all’esegesi delle Scritture gli provocarono diversi problemi con l’autorità ecclesiastica: la Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1974 cominciò ad indagare su di lui; non venne condannato, ma fu comunque sollevato dall’insegnamento e limitato nei suoi interventi pubblici.

Negli ultimi decenni ha vissuto un’esistenza appartata, lontana da riflettori e non certo per timore dell’autorità ecclesiastica (del resto, nonostante l’“attenzione” del Vaticano nei suoi confronti, già nel 1975 scriveva un libretto intitolato La conversione della Chiesa): quelli ecclesiastici ed accademici, che gli sono stati ingiustamente negati, ma anche quelli mediatici, cui pure avrebbe potuto avere accesso per la sua perizia ed esperienza biblica e teologica e per la grande capacità comunicativa e divulgativa. Ma è stato avulso da ogni forma di protagonismo anche nell’ambito dell’area della sinistra cristiana, della teologia progressista e del cattolicesimo più apertamente conciliare che pure lo ha molto letto, considerandolo un punto di riferimento intellettuale oltre che etico.

Ciò non significa che Ortensio non abbia parlato e scritto, con una radicalità ed un’essenzialità che con il tempo si sono acuite, piuttosto che stemperarsi o “accomodarsi” alle esigenze dei tempi. Ha parlato soprattutto nei tanti piccoli incontri che lo hanno visto costantemente presente, anche per testimoniare la sua vicinanza a tutte quelle realtà ecclesiali di base emarginate o represse negli anni del postconcilio. Ed ha continuato a scrivere saggi e libri che hanno scandito le diverse tappe della sua riflessione biblica e teologica, sempre in maniera da fornire un contributo originale al dibattito intra ed extra ecclesiale. A partire da due sue opere fondamentali: quelle sui vangeli dell’infanzia di Gesù (Introduzione ai vangeli dell’infanzia, Brescia 1967, Assisi 1976; Il vangelo del Natale. Annuncio delle comunità cristiane delle origini, Roma 1996) e i tre volumi sull’itinerario spirituale di Cristo (Itinerario spirituale di Cristo, 3 voll., Assisi 1971-1974), cui si sono successivamente affiancati i commenti ai vangeli di Matteo (Matteo. Il vangelo della Chiesa, Assisi 1971) e di Luca (Luca. Il vangelo dei poveri, Assisi 1982,). Attento osservatore dell’attuale situazione della Chiesa, e sostenitore di una riforma ecclesiale ancorata al vangelo (come in Chiesa delle origini, Chiesa del futuro, edito da Borla nel 1986, negli anni più recenti si è particolarmente soffermato sulla figura del Gesù uomo, dal momento che del Gesù «Dio», riteneva si fosse parlato moltissimo, tanto che il Cristo della fede aveva finito per prendere il posto del Gesù della storia, con la conseguenza, secondo p. Ortensio, che l’annuncio si è sovrapposto all’evento.

Particolare rilievo in questo percorso ha avuto il libro Gesù di Nazareth, edito a fine 2005 dalla Meridiana di Molfetta. Si tratta di una presentazione semplice, rigorosa e documentata ma assolutamente non specialistica, specie nel linguaggio, della vita di Gesù, ugualmente lontana dalla astrattezza di tanta produzione accademica come dalla retorica e dall’agiografia dell’omiletica e letteratura devozionali. Ortensio con puntualità e precisione demitizzava idee radicatissime su Gesù di Nazaret, come la convinzione che fosse celibe (elemento che, ricorda il biblista, era estraneo al mondo ebraico del tempo), o che non abbia avuto fratelli e sorelle; o il carattere “sacrificale” dell’Ultima Cena; o l’attributo di “figlio di Dio”, che i Vangeli riconducono alla figura del Messia, e che per p. Ortensio – sulla scorta di una tradizione che risale sino ad Ario – non implica una filiazione divina naturale con conseguente sua preesistenza prima di tutti i secoli. Gli evangelisti con questa espressione hanno, secondo p. Ortensio, semplicemente voluto sottolineare, nel rispetto della tradizione ebraica, come l’uomo Gesù sia stato capace d’incarnare sino in fondo la bontà del Padre.

In difesa del relativismo

Collegata a questa attenzione per la figura storica di Gesù, Ortensio da Spinetoli è andato raffinando nel tempo una critica radicale all’istituzione ecclesiastica. «Gesù – disse in un’intervista concessa alla nostra agenzia nel 2006 (v. Adista n. 12/06), si era sforzato di liberare gli uomini dal terrore di Dio e dalla paura dei propri simili, ma si direbbe quasi inutilmente, poiché i suoi seguaci, a cominciare dagli stessi evangelisti, hanno preferito riportarsi all’immagine del Dio grande e potente, pronto sì a perdonare, ma anche a condannare e a punire. Un deterrente che è servito a tenere buone le moltitudini ancora incolte dei fedeli». Discendeva da questa visione anche la polemica che caratterizzò la sua produzione negli anni del pontificato di Ratzinger, durante i quali Ortensio ribadì con forza la legittimità, anzi l’esigenza, di quel relativismo che era diventato il bersaglio privilegiato di Benedetto XVI. «La pretesa che vi sia una sola maniera di rapportarsi con la verità non è più ammissibile dopo la scoperta della provvisorietà della conoscenza umana e della pre-carietà dei modi di comunicazione, come sostiene la filosofia del linguaggio», dichiarò in un’altra intervista alla nostra agenzia (v. Adista n. 36/05).

Nei confronti di papa Francesco, Ortensio non si era lasciato andare a facili entusiasmi. Guardava con attenzione alle parole ed ai gesti di Francesco, auspicando che si concretizzassero in atti di riforma della Chiesa. Poco dopo la sua elezione gli scrisse perciò una lettera che, non avendo ricevuto risposta da Bergoglio, rese pubblica alcune settimane fa (v. Adista Notizie n. 9/15) per aprire il dibattito su un tema che gli era particolarmente caro. Nella missiva chiedeva infatti un atto di riconciliazione nei confronti di tutti quei preti, teologi, religiosi, laici, donne e uomini di fede che hanno a tutti i livelli subìto il clima autoritario e repressivo seguito agli anni del fermento postconciliare, specie sotto i pontificati di Wojtyla e Ratzinger.

Ortensio e Adista

Un’ultima nota sul suo rapporto con Adista. Alla nostra agenzia Ortensio è stato sempre legato da profonda amicizia e sintonia. Ci venne a trovare, un paio di anni fa, in un incontro intenso, frutto della condivisione di decenni di istanze religiose e civili che ci hanno visti impegnati sullo stesso fronte. Ci scrisse, ed era una lettera carica di riconoscenza ed affetto, quando la nostra rivista festeggiò, con amici, lettori e sostenitori, i suoi primi quarant’anni di vita. Lui non poté essere con noi, ma svolse alcune significative considerazioni, che testimoniano la sua visione liberante della fede e della appartenenza alla Chiesa. «La comunità ecclesiale – disse – è una grande famiglia, ma sui generis, con una strutturazione medievaleggiante più che moderna. In essa le responsabilità, quindi le decisioni, ricadono su pochi (il discorso sulla ‘casta’ è attualmente di moda, ma è ben più antico), gli altri (i semplici presbiteri, i comuni fedeli, i laici) vi fanno egualmente parte, ma solo per ubbidire, per dare ai primi la possibilità, il diritto-dovere di comandare. Ed è attraverso Adista che questa moltitudine “di base”, di “anonimi”, “sommersa” o “del silenzio” può prendere conoscenza e coscienza di se stessa, delle appartenenze e dei recapiti che ha sia all’interno che fuori dell’istituzione, in patria e all’estero. È essa il punto di incontro e di confronto, il raccordo dei benpensanti e dei dissidenti, la palestra, l’agorà in cui ognuno può venire a difendere e a diffondere le sue proposte e risposte, le sue tesi, il credo e le interpretazioni che la sua competenza gli fa apparire più opportune. Il diritto di parlare, e quindi di sbagliare, è di tutti, anche se di fatto è un privilegio di pochi».