L’Occidente e la negazione del genocidio degli Armeni di A.LaGreca

Antonella La Greca
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Era il 2007 quando nei cinema italiani comparve La masseria delle allodole, il film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani ispirato all’omonimo romanzo di Antonia Arslani.
Fu certamente proprio quel film, e il romanzo che lo precedette, a segnare, in Italia, una tappa importante nella diffusione dell’interesse nei confronti del popolo armeno e del suo sterminio: il Metz Yeghérn. Il Grande Male, così viene definito in lingua armena questo genocidio – il primo di una lunga serie che ha caratterizzato il secolo passato – per molti versi analogo alla Shoah e al Porrajmos, viene ricordato il 24 aprile. Proprio cento anni fa, esattamente il 24 aprile 1915, iniziò infatti l’annientamento dell’élite armena di Costantinopoli ad opera dei Turchi: un massacro che da lì si sarebbe poi esteso a tutto il resto dell’impero ottomano.

Attualmente, l’Armenia è un Paese di circa 30.000 chilometri quadrati situato tra la Turchia, l’Iran, l’Azerbaijan, la Georgia. Ma lo Stato armeno è oggi soltanto una porzione dell’area cui si suole storicamente attribuire il nome Armenia; il resto del suo territorio è tuttora diviso tra Turchia (per la maggior parte) e Iran.

La storia del popolo armeno è antichissima. Intorno agli inizi del I millennio a.C., un primo nucleo si stanziò in una vasta regione dell’Asia occidentale, il cosiddetto altopiano armeno, che occupa la parte centro-orientale dell’Anatolia fino ad arrivare a sud del Caucaso. Sino a oggi questo popolo è riuscito a conservare una forte identità etnica e culturale, caratterizzata da una propria lingua, un proprio alfabeto, una ricchissima letteratura nazionale, una Chiesa cristiana autocefala e con rito proprio.
Dopo la fine dell’ultimo regno (il Regno armeno di Cilicia), nel 1375, l’Armenia fu a lungo oggetto di contesa tra Turchia e Persia. Nel XIX secolo, è stata poi la Russia ad inserirsi in questo conflitto, prima conquistando la zona persiana e in seguito aspirando ad appropriarsi dell’area turca. Ne nacque un lungo conflitto turco-russo, che si protrasse sino alla fine dell’Ottocento. Il progressivo indebolirsi dell’impero ottomano ebbe come conseguenza un rafforzamento delle istanze indipendentistiche dell’Armenia, peraltro duramente soffocate. Tra il 1894 e il 1897 si contarono decine di migliaia di vittime. Le stime dei massacri hamidiani, detti così poiché avvenuti su ordine del sultano Abdul Hamid II, oscillano tra 50.000 e 300.000 morti.
Il deflagrare del primo conflitto mondiale rese ancor più drammatica la questione armena: accusati di connivenza con i Russi, gli Armeni – considerati un “nemico interno” dalla Turchia – furono vittime di un’ondata di terribili violenze e in seguito vennero deportati in massa in Siria. Gli esiti delle marce forzate dal territorio armeno verso le regioni desertiche del Paese limitrofo furono tragici: secondo gli storici, centinaia di migliaia di persone morirono per fame, malattia, sfinimento. Alcune stime parlano di 1.200.000/1.500.000 morti.

Molti armeni cercarono, poi, rifugio all’estero: la “diaspora armena” alimentò la formazione di grandi comunità in altri Paesi. Nel mondo oggi si contano circa sette milioni di persone.
Al termine del primo conflitto mondiale, che segnò il definitivo tramonto dell’impero ottomano (nonché di quello austro-ungarico, mentre l’impero russo degli zar Romanov era stato già spazzato via dalla rivoluzione sovietica nel 1917) e la nascita della Repubblica di Turchia sotto l’égida dei Giovani Turchi di Mustafà Kemal Atatürk, lo sterminio degli Armeni venne “dimenticato” e nascosto. In una parola, negato.
Solo in epoca recente si è ricominciato a parlare della questione armena, peraltro sempre ignorata anche in tutto l’Occidente; ma la Turchia non è mai andata oltre la definizione di “repressione armata di una rivolta interna”. Di fatto continuando a negare. Per la prima volta però questo atteggiamento ha provocato un dibattito pubblico relativo all’eventuale adozione di leggi antinegazioniste, sull’esempio di quanto già attuato in Germania e in Francia contro chi nega la Shoah.

Nel 2005 l’Unione Europea, di fronte alla richiesta turca di entrare a farne parte, ha chiesto ad Ankara di ammettere le sue colpe nei confronti del popolo armeno; proprio in quello stesso anno un giornalista armeno di nazionalità turca, Hrant Dink, veniva condannato per “denigrazione pubblica dell’autorità turca”.
Due anni più tardi, Dink verrà ucciso a Istanbul, nei pressi della redazione del suo giornale, vittima di un giovane nazionalista turco.

Nel centenario del genocidio armeno anche l’Italia ospita numerose iniziative. Per non dimenticare. Ad esempio a Roma, nel complesso del Vittoriano, fino al 3 maggio è installata la mostra “Armenia. Il popolo dell’Arca”. Vale la pena soffermarsi sulla conferenza internazionale sul Metz Yeghérn che si è di recente svolta all’Università di Padova alla quale hanno partecipato studiosi e ricercatori provenienti da vari paesi: dall’Armenia alla Turchia, dagli USA alla Francia, oltre naturalmente all’Italia.
Molte le relazioni interessanti: in particolare quella di Yves Ternon (Université de la Sorbonne – Mémorial de la Shoah, Paris), tesa a comprendere il processo genocidiario e ad indagarne le cause, e quella del professor Halil Berktay (Università Sabanci, Istanbul), brillante e coraggioso studioso turco che ha impostato la sua riflessione sulle responsabilità e le omissioni della “memoria di Stato”, citando anche alcune poesie di Nazim Hikmet, nei cui versi sono presenti tracce della memoria del genocidio (” […] quando gli Armeni furono sterminati”, recita una sua poesia del 1942). Originale l’impostazione dell’intervento del regista armeno (ma residente a Los Angeles) Eric Nazarian, imperniata sulle immagini e le loro potenzialità comunicative: un necessariamente rapido ma efficace excursus che – prendendo le mosse dalla grotta Chauvet – è giunto sino al recente film “The cut”, del regista turco-tedesco Fatih Akin, presentato all’ultimo Festival di Venezia e da aprile nelle sale italiane.

Alla conferenza ha preso parte anche la scrittrice Antonia Arslan. Sia la Arslan, sia Sargis Ghazarian (Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia) hanno fatto riferimento al pensiero di Antonio Gramsci circa la necessità di sottrarsi alla “palude dell’indifferenza”. L’11 marzo 1916 un giovanissimo Gramsci pubblicò su Il grido del Popolo un articolo sul Metz Yeghérn. Una strage che, secondo il grande pensatore sardo, si sarebbe potuta evitare se la comunità internazionale fosse stata meno passiva e fosse intervenuta in tempo nei confronti dell’Impero ottomano. «Wer redet heute noch von der Vernichtung der Armenier?» (Chi si ricorda oggi dell’annientamento degli Armeni?): sono le orribili parole pronunciate da Adolf Hitler in un noto discorso del 1939, alla vigilia della guerra che avrebbe trascinato l’Europa ed il mondo verso la catastrofe totale; l’oblìo collettivo rispetto a quei terribili accadimenti avrebbe spianato la strada alla Shoah e al Porrajmos…
Elie Wiesel sosteneva che l’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione. Anche per questo, è importante, oggi, coltivare la memoria storica del genocidio degli Armeni.