Amare senza truffe, tra sesso, genere e oltre di N.Vassallo

Nicla Vassallo
www.mentelocale.it

Festival di filosofia dedicato all’Amare. Nel suo giorno di chiusura, ovvero domenica 15 settembre 2013, tengo una lectio magistralis su Sesso e genere. Una corrispondenza incerta.
Il tema è difficile, il titolo non è tra i più appealing, e alla mia medesima ora tengono lezioni magistrali sia Remo Bodei, sia Eva Illouz: due bei competitor. Per di più, piove.
Penso: verranno in pochi ad ascoltarmi. Erravo. Gli organizzatori mi hanno infatti riferito che ad ascoltarmi vi erano più di ottocento persone. E oggi la direttrice del Festival Michelina Borsari mi comunica che le è stato chiesto di trasmettere la registrazione della mia lezione in carcere, «dove molti sono i sex offenders».

Certo, in precedenza avevo dichiarato che l’amore è creatività e la creatività è «un passaggio risoluto della mente audace, senza cui l’esistere si appiattirebbe su una mania mendace».
E a chi mi aveva chiesto del mio primo innamoramento avevo risposto:«Senza alcun paradosso, né provocazione, la persona, di cui mi sono innamorata la prima volta, è l’ultima persona che amo. Un innamoramento non affatto da adolescente, né sulla scadente onda di qualche film zuccheroso, oppure di qualche suggestione esotica. In effetti, è un amare, più che un innamoramento, un amare lontano dalla famiglia cosiddetta tradizionale, e al contempo un amare privo di fugacità. Anche perché che rapporto c’è tra l’amare vero e proprio e la sua precarietà?
Ora, chi ha una certa età (e io ho quasi cinquant’anni) dovrebbe aver compreso cosa sia l’amare, senza travisarlo con lo stravagante e col sesso privo di conoscenza. L’amare contiene qualcosa di biologico e qualcosa di socio-culturale, ma, quando amo realmente una persona, l’amore si trasforma in qualcosa di molto individuale. La persona che amo l’ho incontrata per caso, una sera a teatro. Ero sola. Continuiamo ad amare assieme il teatro. Ma il nostro amare non è affatto teatrale, mentre al caso lasciamo oggi ben poco».

Credo però che sia stata una certa insofferenza per la tracotanza, tracotanza che ha pure a che fare con l’ormai noiosa insistenza sulla cosiddetta liquidità, quella dell’amare inclusa, a condurre tante persone ad ascoltarmi. Qui di seguito una parte di ciò che ho raccontato a voce.

C’è chi parla con tracotanza, o forse solo con scaltra ignoranza, non delle donne, bensì della donna. Con questa donna, con la D maiuscola, si intende chiamare in causa la donna assoluta, un’appartenenza di genere a cui tutte le donne dovrebbero conformarsi per venir giudicate vere donne, o più semplicemente belle donne.
A importare è che le donne con la d minuscola, stereotipate, sessualizzate, accettino con passività il concetto di donna con la D maiuscola.
Eppure, riconosciamolo con onestà: questa donna assoluta è una norma che viene letteralmente prescritta proprio dal genere di appartenenza, non dal sesso di appartenenza.

La differenza tra sesso e genere non è indifferente – mi si perdoni il gioco di parole. Il sesso è qualcosa su cui è la biologia a potersi esprimere, e la nostra attuale ricerca biologica ci sta dicendo che i sessi non sono affatto solo due, ovvero non sono solo femmina e maschio. Il genere di appartenenza (donna o uomo), invece, è una categoria costruita, imposta dalle varie società, cosicché occorre prestare maggiore attenzione alle molte e diverse concezioni di femminilità (oltreché di mascolinità), concezioni mutate in diversi periodi storici, e di cui le varie culture si sono rese fautrici e portatrici.

Cosa sono le femmine e cosa sono le donne, e quale è la differenza tra femmine e donne rimane problema complesso.
Si prenda Cleopatra: femmina, donna, oppure regina (o re, perché no?). L’immaginazione non dovrebbe correre, ma neppure l’ignoranza. La Cleopatra, conosciuta dai più, è quella che ci viene dipinta dai vincitori, ovvero dai romani dell’epoca. In realtà, amava il suo regno, ben più che Giulio Cesare e Marco Antonio, e di questo non sempre ci ricordiamo. La viviamo piuttosto come una minaccia, che ci attrae e che vorremmo sedurre, o da cui forse vorremmo essere sedotti. Minaccia per il cosiddetto Occidente, termine che all’epoca aveva ben poco significato, e credo che non l’abbia tuttora. E il tempo storico di allora non è il nostro.
Oggi c’è chi esige il rispetto, più che la tolleranza, dei vissuti di (impieghiamo i seguenti termini, benché preferirei venissero eliminati dal vocabolario) ogni donna e di ogni uomo (e anche di ogni femmina e di ogni maschio), e dei loro modi d’amare.

Ma sono tutti modi d’amare, e non si coltiva così e comunque una notevole indifferenza rispetto alle oppressioni e ai desideri (sessuali, erotici, d’amore) in cui si ritrovano ancora molte donne, occidentali e non? C’è chi utilizza il concetto di appartenenza sessuale e chi, invece, quello di appartenenza di genere, magari confondendo le due appartenenze, e ignorando che ve ne sono ben altre (nessuno di noi è solo una femmina o un maschio, né una donna o un uomo, né lo deve essere) per violare ogni diritto all’amore, ogni diritto umano e civile. E l’emancipazione del proprio desiderio di amare può costare molto caro, specie alle donne. Il costo più alto è il femminicidio (brutto ed efficace il termine), ma altri ve ne sono.

Continuano a emergere da parte non solo degli uomini, ma pure delle donne, visioni tradizionali del femminile (come se l’appartenenza sessuale possedesse un significato preminente, quasi essenziale nella visione del mondo) che valutano, o addirittura rivalutano, schemi sessisti, di subordinazione delle donne agli uomini, schemi che con l’amare non hanno nulla a che fare. Quando i diritti vengono calpestati, quando si istaurano differenze inutili (femmina versus maschio, donna versus uomini), che poi si traducono in necessarie e altrettanto inutili complementarietà sessuali (femmina con maschio, donna con uomo), si generano emozioni e comportamenti che con l’amore finiscono con l’aver poco da condividere, anche perché rimangono spesso, ancora, purtroppo le donne ad essere sessualmente assoggettate.

Si assoggettano le tante e diverse donne che popolano il nostro pianeta, deprivandole della loro specifica identità, della loro particolare cultura, della loro età (le si pretende sempre più giovani), della loro esclusiva fisicità e felicità, della loro sessualità (che comunione vi è tra un orgasmo al maschile e uno al femminile?), della loro appartenenza di classe (che non funziona mai: se sei di classe più elevata, gli uomini ti amano troppo per compiere il salto sociale; se sei di classe più bassa, gli uomini ti amano troppo perché così sei più prona a loro), oltre che, ovvio, del loro gusto nell’abbigliarsi («con quel taglio di capelli sei troppo maschile!»; «la scollatura di quel vestito non evidenzia il tuo seno!»; «puoi portare i tacchi a patto di non risultare più alta di me»).

È proprio la confusione tra appartenenza sessuale e appartenenza di genere a negare identità, personalità, singolarità a ogni donna, fissando le caratteristiche dell’unica donna possibile, per catturare un’essenza femminile che sottolinei il trio e ritrito, ma pur sempre comodo, dualismo uomo/donna, con l’uomo mascolino, razionale, attivo, culturale, oggettivo, posto in un ordine simbolico superiore, e la donna femminea, irrazionale, passiva, naturale, soggettiva, posta in un ordine simbolico inferiore.
Questo dualismo senza amore, dualismo contrario anzi all’amore, è comodo per incanalare maschi/uomini e femmine/donne verso un’eterosessualità compulsiva, a cui non manca purtroppo un certo immorale grado di eterosessismo e di omofobia, ma anche per assegnare alle donne prestazioni sociali e sessuali prefissate, per farle sottostare a certe norme comportamentali, per richiedere loro determinati tratti psicologici, per lo più accondiscendenti, fragili, per lo più privi di logicità e creatività – a farne, tra l’altro, le spese è l’autostima delle donne, oltre che la loro sessualità, la loro capacità di amare.

L’oppio dei popoli non consiste più solo nella religione o nelle fedi dogmatiche e settarie che, a botte di spiritualità e preghiere, brillano in effetti per misoginia, ma si allarga da tempo ai rapporti tra massa e potere (sempre da rileggere Canetti), a tutta un’economia che produce una vasta gamma di merci per le femmine e le donne, oltre che per i maschi e gli uomini (al fine però di mercificare soprattutto le donne), a una cultura machista e/o pornografica in costante crescita (grazie ai pregiudizi e ai gusti di italiani e di migranti), a una mentalità dimentica della ragione illuministica, o che questa ragione non l’ha mai nutrita.

In un tutto ciò si insinua sempre una qualche astuzia assai maschile, a tratti femminile, astuzia capace di confondere l’appartenenza sessuale con l’appartenenza di genere per imporre un certo tipo di sessualità, confacente ai desideri maschili, che le donne finiscono col credere sia un certo tipo d’amare e così si trasformano in dipendenti sessuali dagli uomini.
Dipendenza sessuale omologante, che ostacola la conoscenza di sé, la conoscenza dei altri, la conoscenza del mondo, e inibisce di fatto la possibilità d’amare, anche perché le donne senza conoscenza non appartengono più al genere umano, sempre che sia nel giusto Aristotele, stando a cui si è esseri umani solo se si aspira alla conoscenza, o Dante, stando a cui senza conoscenza, si vive da bruti, e i bruti sono brutalizzabili. Ma davvero per amare è significativo appartenere a un sesso e a un genere? Proviamo a non commettere truffe, perlomeno nei confronti di noi stessi/e.

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Siamo persone libere prima di essere femmine e maschi

Nicla Vassallo
www.livingwomen.net

Sebbene non ancora, il futuro prossimo dovrebbe concederci maschi incinti. Così, non toccherà più solo a una qualunque femmina umana incinta sentirsi spesso chiedere “ne conosci già il sesso?”. Non il suo, bensì quello del nascituro, of course. Curiosità triviale, morbosa. Di civiltà, o meglio di inciviltà (il virilismo parte dalla primitività e ci raggiunge, con ogni colore di ogni pelle, con ogni predilezione politica e religiosa – pur sempre machista, perché non dirlo?), inciviltà in cui non si è tuttora oltrepassato lo stereotipo del sesso per il sesso – con un’inequivocabile predilezione per il sesso maschile.

E tu, invece, di che sesso sei? Femmina o maschio? Domanda irritante, e al contempo banale, se non fosse altro perché, proprio nel sollevarla, si nutre il pregiudizio che necessiti di una risposta “essenziale”, con l’allucinazione di comprendere davvero chi sei in virtù della tua presunta identità sessuale, giammai personale, nonché nella convinzione che si diano due specifici sessi.

Per di più, la predominante inciviltà gradisce, o piuttosto impone, che si rientri negli stereotipi, così una “vera femmina” non può essere aggressiva, affermata, anaffettiva, anziana, avventurosa, combattente, competitiva, indipendente, insensibile, insubordinata, intelligente, irriverente, sgraziata, single. Né, meno che mai, lesbica: le femmine, tutte, sono state create in funzione del maschio etero, o no? Spesso, purtroppo, di un maschio qualunque.

«Infatti – scriveva San Paolo ai Corinzi – non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo».

I più decretano, purtroppo, le nostre appartenenze sessuali in base alle apparenze genitali, ai modi di “far sesso”, comportarci, abbigliarci, interloquire, e via dicendo. In altre parole, tutti noi dovremmo ridurci a incarnare (non vi è qualcosa di osceno in ciò?) i ruoli del maschio o della femmina (maschio se sei maschio, femmina se sei femmina, come se non sussistesse via d’uscita, o fuga) nonché ad agire in tal senso, perché le nostre identità, di fatto, finiscono col declinarsi al femminile o al maschile, pena l’esilio dalla cosiddetta (maledetta?) normalità.

Già, vero, la dicotomia sessuale (non confondiamola con l’identità: per carità!) fa comodo a parecchi appartenenti al sesso “dominante” e, diciamolo, al sesso “dominato”: non si capirebbe altrimenti il successo planetario di quella trilogia di libracci, mal scritti per sfumature e colori – geniale o diabolica E.L. James?

Comodo perché invece di cercare e indagare con fatica il proprio sé,si aderisce a modelli atavici, modelli belli e pronti, la cui matrice scientifica rimane, oggi come oggi, dubbia, ma non quella storica, sociologica, religiosa (perlomeno nelle pratiche delle tre grandi, comuni, religioni monoteiste): il maschio deve essere mascolino, razionale, attivo, culturale, oggettivo, la femmina deve essere femminea, irrazionale, passiva, naturale, soggettiva.

Si finisce così col confondere la cosiddetta appartenenza sessuale a quella di genere, all’essere donne e uomini, appartenenza quest’ultima socialmente costruita e, di conseguenza, destrutturabile, evitabile, sempre che se ne abbia la volontà, volontà che manca però a troppi/e italiani/e, altrimenti il nostro Paese non verrebbe classificato dal Global Gender Gap 2012 del World Economic Forum all’ottantesimo posto, preceduto, solo per menzionare alcuni altri paesi, da Cipro, Perù, Botswana, Brunei, Honduras, Repubblica Ceca, Kenya, Repubblica Slovacca e Cina.

Paese, il nostro, per tanti versi falso, in cui a contare nella quotidianità e nell’immaginario perdura proprio la filosofia della differenza sessuale, oltre che l’ideologia “razziale” (rimane tuttora facile da noi approfittare, pure a lungo, di una “nera” o di un “nero” e, forse, viceversa, o di parecchi altri non “occidentali”), a dispetto dell’individualità di ogni donna e di ogni uomo, a dispetto, a dire il vero, di ogni essere umano nella sua unicità. Contrariamente a quella filosofia, tu hai invece una storia personale, appartieni a una etnia e a una classe socio-economica, hai una preferenza sessuale, possiedi una certa cultura, hai scelto (o no) una qualche religione, hai un’età, ed esperisci tutto ciò in un tuo modo peculiare.

Paese incivile, oltre che falso, il nostro, in cui il “valore” attribuito al sesso si traduce spesso in dati allarmanti che riguardano il femminicidio, la prostituzione, il turismo sessuale, quest’ultimo praticato pure in loco: perché recarsi all’estero se la tua “razza” ti concede privilegi su chi non ha la pelle del tuo medesimo colore? Così, sessismo e razzismo procedono di pari passo. Nulla di nuovo sul fronte occidentale, né su quello orientale.

Di nuovo, chi sei tu? Una femmina, un maschio? Riflettiamoci. Ammessa, ma non concessa, l’appartenenza sessuale, perché mai esaltarla, consacrarla? Abbiamo forse dimenticato le buone maniere? Ricordiamole. Luigi Pirandello scrive: «Ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppure questo, il non poter più rispondere, cioè come prima, all’occorrenza: “Io mi chiamo Mattia Pascal”».

A fargli eco c’è Virginia Woolf che domanda: «Se ci sono, mettiamo, settantasei ritmi diversi che battono all’unisono nello spirito umano, quante diverse persone – Dio ci aiuti – non albergano in un momento o nell’altro nello spirito umano?».

Qui non si menzionano femmine, né maschi. E, proprio quando non partiamo dal considerarci essenzialmente femmine o maschi, diventa prioritaria la ricerca del nostro io, pur nelle sue contraddizioni e molteplicità, aspirando a una qualche continuità attraverso lo spazio-tempo, nel rispetto della nostra peculiare dignità.

Dunque, innanzitutto, identità personale, non sessuale. In cosa consiste? In una nostra continuità che si concretizza non solo nella memoria, ma pure nella conservazione di alcune altre caratteristiche mentali, quali le credenze, il carattere, i desideri. Nel momento in cui perdiamo questa continuità non siamo più noi stessi? Continuiamo a essere noi stessi se l’identità personale consiste, invece, in una continuità fisica, soprattutto cerebrale? Ma noi stessi riusciamo a racchiuderci in un mero cervello privo di psiche e mente? Forse no, cosicché la nostra identità personale finisce col coincidere con la nostra continuità psico-fisica.

Sembra tutto abbastanza semplice, ma così non è. Basti menzionare Sigmund Freud e la sua idea di un io sì sede dell’angoscia, luogo minacciato dal mondo esterno, dalla libido dell’Es, dai rigidi dettami del Super-io, ma anche collante dei vari processi psichici. O menzionare Ronald Laing che insiste su un io diviso, privo di centralità, cui occorre sostituirgli la presenza: il soggetto individuale in relazione con l’oggetto-mondo si converte in un essere-nel-mondo. Già, siamo esseri nel mondo, mondo in cui veniamo però categorizzati innanzitutto in base al nostro sesso e genere di appartenenza.

Perché mai, visto che rimaniamo esseri la cui complessità è ben maggiore di quel che comunemente si creda, esseri che, se non stereotipati, tenderebbero a comprendere il proprio io, quell’io che ci differenzia da ogni altro io, quell’io per cui ognuno di noi è se stesso?