Il supersfruttamento nella fabbrica del Jobs Act di G.Cremaschi

Giorgio Cremaschi
www.micromega.net

Ora su Twitter Renzi fa concorrenza a Chiambretti pubblicizzando l’Alfa Romeo. Pochi giorni fa il presidente del consiglio era andato in visita allo stabilimento Fiat di Melfi facendo un po’ di selfie assieme a Marchionne e a personale selezionato, ma non abbastanza visto che una lavoratrice aveva rifiutato di stringergli la mano.

Il capo della FCA e quello del governo sono da tempo sodali e lo stabilimento lucano del gruppo è diventato l’emblema della propaganda sulla ripresa grazie alla distruzione dei diritti del lavoro. La Fiat di Melfi ha annunciato un migliaio di assunzioni ed è così diventata l’immagine vincente del Jobs Act. Un’immagine diffusa dal solito regime mediatico compiacente, dietro la quale però si nascondono il supersfruttamento del lavoro e l’aggressione permanente alla salute e alla dignità delle persone.

Ogni settimana quasi 200 lavoratrici e a lavoratori si recano in infermeria. Una parte lo fa per le contusioni dovute alle postazioni scomode e affollate, che fanno sì che le persone urtino frequentemente contro le scocche e gli impianti. Molte e molti altri invece si ricoverano perché manifestano sintomi di collasso provocati da eccessivi ritmi di lavoro.

Da un indagine fatta negli ospedali della regione risulta che da quando il lavoro è ripreso a pieno regime dopo la cassa integrazione, con peggiori ritmi di lavoro, le richieste da parte degli operai di controlli cardiologici sono aumentate in modo abnorme.

Altro che modernità, a Melfi si lavora secondo i più brutali canoni del fordismo dei primi del 900, con condizioni persino offensive per la dignità delle persone. In una postazione del montaggio, esattamente nel reparto motori, i due operatori sono costretti a lavorare uno sopra l’altro, fisicamente attaccati, anche se sono un uomo ed una donna…

Nella lastratura si lavora costantemente in un ambiente viziato dagli odori e dai fumi provocati dai tanti robot che saldano i vari pezzi della scocca, disagio aggravato dal fatto che in tutta la fabbrica in questi mesi estivi il caldo è insopportabile. Anche perché l’azienda del munifico Marchionne, che nel 2014 ha intascato 60 milioni di euro in emolumenti e benefit, risparmia energia sui condizionatori d’aria, che sono stati lasciati spenti fino a che non sono cominciate le proteste.

Nel 2004, dopo ventuno giorni di sciopero, per i lavoratori Fiat finirono le terribili turnazioni di sabato e domenica. Ora si è tornati a lavorare per tutta la settimana, per cui al peso dei rimi di lavoro insostenibili si aggiunge la cancellazione dei ritmi di vita, in particolare di quelli familiari, per donne e uomini in gran parte pendolari da lunghe distanze. Oltre che i collassi psicofisici ci sono così quelli di nuclei familiari, nei quali i figli piccoli son lasciati senza genitori il sabato e la domenica.

La grancassa mediatica ha molto tuonato per le centinaia di assunzioni con contratti precari realizzate per lanciare la ripresa produttiva. I giovani, in gran parte entrati attraverso i soliti canali meritocratici cioè con raccomandazioni varie, sono stati sconvolti da come si lavora in Fiat. Avevano creduto alla propaganda sulla fabbrica moderna ultratecnologica dove si sarebbe maturata un’alta professionalità, e si sono trovati ammucchiati nella più brutale ed antica catena di montaggio. Diversi non hanno retto e hanno abbandonato.

Ma non c’è solo passività. Un nucleo di delegati e lavoratori della FIOM ha cominciato ad organizzare una dura e difficile resistenza. Scioperi contro i turni massacranti e gli straordinari, intervento sulle condizioni di lavoro, denunce. La fabbrica non era più abituata al conflitto perché il dominio dei sindacati complici, FIM, UlLM, Fismic, che hanno sottoscritto tutti i peggioramenti delle condizioni dai lavoro, aveva coltivato la rassegnazione. Ma il nucleo FIOM, spesso neppure supportato dalla direzione nazionale, ha dato l’esempio ed ora sui ritmi alla Charlot cominciano a comparire contestazioni diffuse.

Ci vorrebbe molto di più naturalmente, ma purtroppo la Fiat di Melfi è davvero una vetrina del paese, come sostengono Renzi e Marchionne. La vetrina di un paese ove si alimenta il senso comune secondo cui chi lavora è già fortunato e non ha null’altro da domandare, un paese ove proprio per questo continuano a comandare i peggiori governanti e i peggiori imprenditori.

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Il reddito minimo? Ce lo chiede la Costituzione

Giovanni Perazzoli*
www.micromega.net

Il reddito minimo è stato teorizzato dal liberale Beveridge, in Gran Bretagna, nel lontanissimo 1942, proprio nel contesto della ricerca della “piena occupazione”. Il reddito minimo garantito rende le società che lo adottano più dinamiche, e questo è un fattore essenziale per la generazione della ricchezza. Una rete di sicurezza aumenta la disponibilità d’impresa, incentiva la ricerca di un lavoro per il quale si è più tagliati (e dunque anche più “produttivi”), riduce la pressione del ricatto della povertà ad accontentarsi oppure a non far niente. Una società che crea ricchezza è una società ambiziosa e libera. Il welfare universalistico del lavoro, inoltre, costringe le stesse imprese ad essere competitive e a non utilizzare il ricatto dell’occupazione per sopravvivere al loro esser del tutto decotte.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha recentemente affermato che introdurre in Italia una forma di reddito minimo garantito per i disoccupati sarebbe incostituzionale. Si è richiamato, per dimostrarlo, al primo articolo della Costituzione: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ha poi aggiunto che una politica di sinistra crea lavoro e non è assistenzialista come lo sarebbe il “reddito di cittadinanza”.
Matteo Renzi è evidentemente mal consigliato. L’articolo 38, secondo comma, della Costituzione italiana recita, infatti:

“I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

La garanzia di un reddito minimo nel caso di disoccupazione involontaria non è incostituzionale, ad esserlo è, caso mai, la sua assenza: che non ci sia un reddito minimo è incostituzionale.

La garanzia di un reddito minimo in caso di disoccupazione, del resto, non va neppure contro l’articolo primo della Costituzione. Al contrario, la misura del reddito minimo esalta il significato del lavoro. Infatti, distinguendo lavoro e welfare, separa il welfare dall’assistenzialismo. Assistenzialista è invece la trasformazione del lavoro in welfare, che è effettivamente l’idea di una certa sinistra e anche, però, di una certa destra. L’idea che il lavoro sia welfare è anche quella di chi appicca l’incendio ai boschi perché vuole conservare il reddito che ottiene per spegnerlo. E’ anche l’idea che porta alle assunzioni clientelari di massa, del “senza tessera non lavori”.

La garanzia di un reddito minimo in caso di disoccupazione involontaria non è però, come a volte si crede, una misura alternativa alla “piena occupazione”, quella vera. Al contrario, il reddito minimo è stato teorizzato dal liberale Beveridge, in Gran Bretagna, nel lontanissimo 1942, proprio nel contesto della ricerca della “piena occupazione”, come sua condizione e complemento essenziale. Ed è sempre in questa prospettiva che viene realizzato nel 1948 dai Laburisti inglesi. Da allora, uno dopo l’altro, tutti i paesi europei maggiormente sviluppati hanno adottato un welfare universalistico (e, si noti, con una spesa in welfare analoga a quella italiana, ma con un indebitamento dello stato di gran lunga inferiore).

È chiaro dunque che questa forma di welfare per la disoccupazione è in generale molto meno assistenzialistica di altre; secondo molti autori essa contribuisce addirittura alla maggiore occupazione e, in generale, alla creazione stessa di ricchezza.

Con “disoccupato” non si intende, nel welfare dei paesi nord-europei, una persona che ha perso il lavoro, ma appunto un disoccupato, fosse anche il diciottenne che decide di lasciare la casa dei genitori e che non ha mai lavorato in precedenza. Ma il diciottenne in questione, per ottenere un sostegno, deve prima entrare in un centro per l’impiego e verificare che per lui non ci sia un lavoro che sia conforme alla sua qualifica professionale. Solo dopo può ricevere una somma di denaro mensile (o settimanale in Gran Bretagna), e un sostanziale aiuto per l’affitto di un alloggio che arriva all’intera copertura delle spese (in Germania include anche il riscaldamento, a volte i mobili).

Un ruolo centrale è svolto dai centri per l’impiego, dove passa una parte importante delle offerte di lavoro. Non si tratta di un fatto marginale. Soprattutto in un contesto, come quello italiano, nel quale il lavoro diventa facilmente merce di scambio e dove esiste una forte incidenza del lavoro informale. L’istituzione di un reddito minimo garantito sul modello europeo richiede una profonda ristrutturazione dei centri dell’impiego, i vecchi “uffici di collocamento”, che in Italia sono pochi e sono anche dei fantasmi. Da qui la battuta che servono più per impiegare chi ci lavora che non per trovare lavoro a chi non ne ha. Salvo il fatto, tuttavia, che spesso chi lavora in questi centri è a sua volta precario. Un altro aspetto importante sono i corsi di formazione professionale seri (anche qui che non servano a chi li organizza più che a chi li segue).

È fondamentale notare che Beveridge aveva posto ogni cura nell’evitare che queste forme di sussidi diventassero assistenzialismo. Una parte essenziale della soluzione per Beveridge era evitare che si incentivasse la povertà.

Perfettamente in linea con la teoria degli incentivi, Beveridge aveva capito che, se una persona riceve un sussidio in quanto è povera, tenderà a restare povera, proprio per ricevere il sussidio. Per la stesa ragione i sussidi corporativi tendono ad avere effetti distorcenti. Un esempio evidente è quello della cassa integrazione italiana. L’operaio della grande impresa che può contrattare la cassa integrazione è incentivato a restare in cassa integrazione piuttosto che a trovare un altro lavoro per cui questo beneficio non è previsto. Il welfare per il lavoro deve essere dunque universalistico. Tutti possono usufruirne, inclusi i lavoratori autonomi.

Beveridge era talmente radicale in questo assunto anti-ghetto che escludeva una prova di mezzi economici per l’elegibilità del richiedente all’ottenimento del sussidio. In altre parole, secondo il Report di Beveridge, avrebbero avuto diritto al reddito garantito sia i ricchi che i poveri, la sola condizione essendo quella della disoccupazione. Sono stati i Laburisti che hanno introdotto invece una prova dei mezzi, che comunque non individua una situazione di povertà da Caritas. Una volta un politico olandese mi ha detto che senza il welfare le società nord-europee semplicemente si dissolverebbero. Nel Nord Europa si fatica a credere che in Italia non esista un vero welfare per la disoccupazione.

In Italia, invece, si è costretti continuamente a spiegare la distinzione tra tra basic income (un reddito dato a tutti, indipendentemente dalla disponibilità al lavoro e dal patrimonio) e welfare del modello sociale europeo, che è una realtà effettuale e quotidiana della totalità dei paesi Europei (Italia e Grecia escluse).

L’Irlanda sembra che sia uscita dalla crisi e che sia tornata a crescere. Andrebbe però ricordato che l’Irlanda, pur spendendo meno dell’Italia in percentuale sul Pil in welfare, garantisce un welfare per la disoccupazione generosissimo, che l’austerità si è guardata bene dal cancellare. La base per il singolo disoccupato irlandese ovvero senza considerare gli assegni per la famiglia è di 800 euro al mese. Più l’affitto di un alloggio. Una famiglia può arrivare a superare i 1800 euro, senza che si ci sia un limite di tempo nella garanzia del reddito.

Che il reddito minimo garantito sia una misura assistenzialista è dunque un concetto superatissimo.

Il welfare non distorcente definisce alcune delle condizioni di possibilità della crescita economica. Questo spiega la correlazione molto stretta che si riscontra tra welfare e dinamismo sociale. A prescindere dall’analisi delle cause dirette che determinano il fenomeno del maggior dinamismo sociale, è facile, infatti, individuare delle ragioni di carattere contestuale che legano il welfare universalistico al maggior dinamismo.
Dove manca una forma di garanzia minima del reddito spesso prevale proprio l’assistenzialismo nel senso peggiore: quello corporativo, clientelare, centralista. In Italia sappiamo di che cosa si tratta.

C’è un punto essenziale. Quando la redistribuzione della torta è caratterizzata da evidenti squilibri e diseguaglianze, si può supporre che esistano delle rendite di posizione; e le rendite di posizione non sono solo “ingiuste”, sono anche la causa, alla lunga, del fatto che la stessa torta da redistribuire diventi sempre più piccola. Non basta limitarsi a redistribuire la torta, come se essa fosse una realtà della natura, che si crea da sola, e il problema fosse solo che alcuni se ne prendono troppa, altri poca, altri niente. La torta bisogna anche produrla. La ricchezza, in altre parole, va prodotta, non solo redistribuita. Dove la ricchezza è distribuita in modo iniquo (e iniqua è anche quella distribuzione che annienta qualsiasi incentivo a produrre ricchezza), si ha come conseguenza la distruzione stessa della ricchezza di tutti.

Ora, nei paesi in cui non c’è un reddito minimo garantito, di solito ci sono diseguaglianze e iniquità, con le relative rendite di posizione: corporazioni, imprese amiche, appaltatori favoriti, sempre-i-soliti. Invece, dove esiste un welfare universalistico, dunque un welfare che non passa per intermediari, il contesto politico ed economico è in partenza molto diverso, insieme più liberale e più socialista
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Le forme di garanzia di un reddito minimo sono dunque “di sinistra”? Nell’altra Europa, quella del modello sociale europeo, non sono né di sinistra né di destra: sono oramai l’abc della civiltà minima, quello che nessuno si sognerebbe di toccare.
Il reddito minimo garantito, in conclusione, non è incostituzionale, mentre incostituzionale è piuttosto che non ci sia; non è assistenzialistico perché distingue welfare e lavoro, mentre è assistenzialismo trasformare il lavoro in una forma di pseudo-welfare; non è alternativo al “creare lavoro”, anzi nasce storicamente, con Beveridge, come elemento costitutivo della “piena occupazione”; non è un ostacolo alla creazione di ricchezza, perché, al contrario, pone le condizioni di partenza, le condizioni di possibilità, per la creazione di ricchezza. È così poco assistenziale che congiunge la redistribuzione alla produzione di ricchezza, e questo non solo sotto il profilo del sostegno alla domanda, ma anche sotto il profilo delle condizioni libertà, autonomia, e sicurezza che ne sono la base. È insieme liberale e socialista: fa pensare che il liberalsocialismo non sia un ossimoro. E che avesse ragione Norberto Bobbio quando considerava il liberalsocialismo, minoritario in Italia, ma orizzonte comune, orizzonte costituzionale, e vincente, in Europa.

(*autore di “Contro la miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo welfare”, Laterza 2014)