“La buona scuola? Ha vinto il modello Marchionne” di GS.Spena

intervista a Andrea Bagni di Giacomo Russo Spena
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Manifestazioni, scioperi, blocco degli scrutini, sit-in. Il mondo della scuola in subbuglio oggi a Roma, ancora una volta, mentre a Palazzo Madama il governo Renzi, asserragliato, poneva la fiducia sul provvedimento. Senza confronti con le parti sociali. “Ci vogliono umiliare ma hanno fatto male i conti”. Andrea Bagni, docente di italiano e storia a Prato e vice direttore della rivista École, è in mobilitazione insieme ai suoi colleghi. Da mesi. E non getta la spugna. Da settembre si aspetta nuove proteste contro la “buona scuola” del premier: “Hanno sottovalutato la reazione di noi insegnanti, siamo feriti nell’orgoglio”.

Alla fine l’esecutivo ha posto la fiducia. Ora il provvedimento tornerà alla Camera, se votato – come si pensa – diventerà legge già i primi di luglio. Le proteste di questi mesi totalmente inascoltate. Un finale già scritto?

Beh, lo temevo. È lo stile di Matteo Renzi. Il suo è un governo autoritario, si presenta come la fine della democrazia e delle mediazioni: in questo caso, sono stati scavalcati sindacati, associazioni di categoria, studenti e, infine, persino il Parlamento. Mesi di mobilitazione. Tutti i corpi intermedi e i luoghi di dibattito o di discussione sono considerati un intralcio al decisionismo del capo. Ma dietro le logiche sul preside-manager e sul merito si cela una profonda ignoranza su cosa realmente sia, e come funzioni, il mondo della scuola. L’ideologia neoaziendale – che vorrebbero imporci – è estranea ad un adeguato rilancio del nostro sistema di formazione.

Il ministro Giannini, con la sua riforma, è riuscita a ricompattare l’intero mondo della scuola. Non succedeva da anni. Un miracolo, non trova?

Bandiere della Cisl che sventolano vicino a quelle della Cgil. E poi i sindacati di base, i collettivi studenteschi, i precari. Uniti. Da anni non vedevo scene simili. Il governo ha tentato la strada dell’umiliazione per il mondo della scuola ed esso, ferito nell’orgoglio, si è ricompattato: dallo sciopero del 5 maggio, ha rialzato la testa per amore del proprio lavoro. In noi docenti si è innescato un meccanismo di orgoglio professionale, siamo teste pensanti. La protesta si è tramutata presto in una festa per la scuola pubblica dove chi vive quotidianamente tale mondo si riprendeva la scena pubblica e quella parola troppo spesso inascoltata dall’alto. Assistiamo ad istituzioni lontane, un rapporto con la società che si palesa soltanto ogni 5 anni nel momento del voto. E nell’era di spoliticizzazione della polis, le mobilitazioni hanno attestato un immenso desiderio di narrarsi, incontrarsi e costruire dal basso un nuovo sistema, di qualità: in fondo, la scuola si costituisce di relazioni orizzontali nella società e di partecipazione.

Le mobilitazioni continueranno a settembre o una volta che il provvedimento diventerà legge assisteremo ad una sorta di rassegnazione generale?

Auspico un autunno caldo, il governo Renzi ha sottovaluto la reazione della scuola al suo provvedimento. Credo che alla lunga si pentirà. Se passa l’idea di instituire un comitato di valutazione della qualità degli insegnanti, già da settembre ci saranno malumori e proteste. Lanceremo una campagna nazionale di sabotaggio dove i docenti non si dichiareranno eleggibili, così i comitati non potranno formarsi. La qualità del lavoro di un insegnante non è quantificabile, ha mille variabili. Siamo soltanto ad uno strumento punitivo contro il corpo docente. La scuola pubblica è ascolto reciproco e spazi di condivisione . Un luogo in cui si costruiscono relazioni e vincoli sociali.

Uno dei fulcri del provvedimento è la maggiore autonomia della scuola, dove emerge la figura del preside-manager. Qual è il suo giudizio?

È l’aspetto maggiormente criticato. Renzi segue il modello di Marchionne: l’autoritarismo, l’uomo che dall’alto comanda, decide, valuta. Senza compromessi e mediazioni. Gli stessi presidi sono dubbiosi, è incredibile. Tale intervento è puramente ideologico: il governo ha un pensiero organizzativo, gestionale e tecnocratico che non si pone la domanda sulla qualità delle relazioni e del sapere che si dovrebbe insegnare. Già di per sé è complesso produrre gerarchie, figuriamoci in un sistema dove non esistono modelli condivisi e riconosciuti. Quali sarebbero i criteri? La valutazione dell’insegnamento deve emergere da quella comunità collettiva e scientifica che vive in una scuola e non può essere fatta da fuori o dall’alto. È una stortura produrre gerarchia dove invece c’è bisogno, urgente, di cooperazione.

Ma lei è contrario proprio al principio di meritocrazia? Non l’avrebbe inserito nel nostro sistema scolastico?

Ci sono insegnanti più o meno bravi, è un’ovvietà. Qui vengono messi in discussione le modalità e i criteri. La qualità di un lavoro ha mille variabili: non esiste uno strumento idoneo per giudicare il merito. Sarebbe propedeutica una sana discussione sulla qualità del sapere che in Italia non c’è mai stata. Nelle piazze di questi mesi si è difesa la scuola pubblica che poi non è altro che difendere un modello di democrazia e i nostri principi costituzionali.

Dopo la polemica di questi giorni, i 150mila precari della scuola verranno assunti così come richiesto dall’Europa. Poco da aggiungere?

Solo una parte verrà assunta e in realtà siamo ad un giusto processo di stabilizzazione: qui parliamo di docenti, qualificati, che lavorano da anni nel mondo della scuola. E anche in questa partita il governo ha trattato i docenti come merce di scambio. Una volgarità inaudita per chi nella scuola ci vive e lavora. In base ai criteri del governo, si verrà chiamati con un incarico triennale, sottoposti ad una valutazione incapace di entrare nel merito del lavoro del docente, della qualità relazionale del suo lavoro, della sua capacità di collaborare e di stare nel tessuto collettivo. Un’umiliazione intollerabile che non accetteremo.

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Se Renzi si crede Leibniz

Angelo Cannatà
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Il Senato ha approvato la Riforma della scuola. Contestazioni, schiamazzi, urla. Proteste: alcune molto volgari. Ma non è questo il punto. Lasciamo i discorsi sulle forme della protesta e andiamo subito alla sostanza. La domanda vera è: la Costituzione vale ancora qualcosa nel nostro Paese?

La Carta: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituzioni di educazione, senza oneri per lo Stato”. La Riforma: Detrazione fiscale fino a 400 euro per le famiglie che mandano i figli nelle scuole paritarie. Tradotto: soldi che dovrebbero andare allo Stato finiscono nelle casse delle scuole private. Che fine fa l’articolo 33? Si stabilisce, per legge, che alcuni principi della Carta valgono meno di altri (o non valgono affatto), sono articoli di serie B. È così. Non c’è discussione. “Noi non deriviamo dalla scimmia ma dalla logica”, diceva qualcuno. Inoltre. La Carta: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge” (art. 3). Tutti i cittadini. L’uguaglianza è data (anche) da “criteri oggettivi” che stabiliscono chi avrà la pensione e quando; chi ha diritto alle case popolari secondo graduatoria. Per la scuola e gli insegnanti tutto ciò non vale. Viene meno il principio di uguaglianza. La riforma della scuola stabilisce che i docenti “saranno scelti” dal capo d’istituto. Senza criteri oggettivi. Senza graduatorie. Di nuovo: che fine fa la Costituzione?

Quanto detto basterebbe a mandare in tilt il sistema nervoso di un vecchio partigiano (citiamolo, ogni tanto, in una data che non sia il 25 aprile), che per la Carta ha rischiato la vita. È ancora un valore, per l’attuale governo, la Costituzione? Renzi dovrebbe dirlo. Intanto gli italiani si son fatta un’idea di quanto valga la democrazia per il Premier, al quale non è chiaro un punto: ogni volta che impone una legge col suo schemino “Se… allora…”: “se non approvate… allora metto la fiducia”, ottiene il consenso di una pavida maggioranza (che teme la perdita del posto), ma perde quello del Paese: gli italiani non sopportano più il piglio autoritario – nascosto da sorrisetto – che trasferisce in tutto ciò che tocca: dalla fabbrica, distruggendo lo Statuto dei lavoratori; alla scuola, imponendo Dirigenti-sceriffi e criteri di valutazione bizzarri.

Insomma. Nel Palazzo credono davvero che insegnanti, studenti, genitori, si bevano la favola che il preside-sceriffo (con libertà di assumere senza vincoli di graduatorie) sia vera democrazia? Se è così, in tanti (troppi) si son bevuti – loro sì – il cervello! Il Premier afferma che viviamo nel migliore dei mondi, con le migliori riforme possibili. Non è così: Leibniz (e il “cittadino-Candido”) meritano l’ironia di Voltaire.

Infine. La valutazione dei docenti. Ripeto. “Gli insegnanti non vogliono essere valutati? Stupidaggini. Il problema è il modo: una commissione, pronta per l’uso, composta da: preside, tre insegnanti, un membro esterno, un genitore e uno studente. Assurdo. Cosa comporta valutare un docente? Il silenzio su questo punto lascia perplessi. I docenti non sanno su cosa e come, con quali criteri e modalità, verranno valutati. Sanno solo chi emetterà la sentenza. Sono preoccupati? La domanda è un’altra: perché non dovrebbero preoccuparsi? Il dirigente giudicherà docenti con personalità definite. Cosa si andrà a valutare? Le conoscenze disciplinari? In realtà l’ha già fatto l’università, il concorso, l’abilitazione; il carattere? È materia degli psicologi; l’abilità didattica? Allora in commissione ci vuole l’esperto di pedagogia (altro che alunni e genitori). Verso che tipo di scuola stiamo andando? Si dice: il docente non deve avere un’ideologia: è un’affermazione azzardata. Porta dritti al pensiero unico dell’ideologia dominante. Insomma, sono temi complessi. Nei Paesi dove la valutazione dei docenti funziona c’è un sistema ispettivo nato da un confronto con i docenti; c’è la terzietà dei giudici. La riforma non va bene. Non c’è ombra di oggettività.

Infine. I presidi vengono chiamati – si gioca sui nomi – “leader educativi”. Magari fosse così. Guardando quel che succede nel Paese – non solo Mafia Capitale – l’ufficio di presidenza delle scuole diverrà un piccolo centro di potere (di pressione, di raccomandazione…). Autonomia scolastica? Una pura finzione. I docenti non contano più nulla. Non decidono nulla. C’è un capo. Che risponde a un altro capo: il ministro della pubblica istruzione. Si chiama gerarchizzazione. Cari colleghi, alunni, genitori, se vogliamo una scuola democratica dobbiamo rimetterci “In-Movimento”. Non è facile.