La rottamazione dei diritti in salsa dem di CM.Calamani

Cecilia M. Calamani
http://cronachelaiche.globalist.it

Dopo l’Irlanda arrivano gli Stati Uniti al gran completo ad estendere il matrimonio a tutti i cittadini a prescindere dal loro orientamento sessuale. Il popolo del Pd esulta e sbandiera il disegno di legge sulle unioni civili a firma della senatrice Monica Cirinnà, come a dimostrare al mondo che l’Italia non rimarrà ancora a lungo a far numero tra le file dei Paesi che dal Medioevo non vogliono proprio uscire. La stessa Cirinnà dichiara: «La decisione della Corte suprema Usa ha una portata storica ed è sicuramente, dopo l’esito del referendum irlandese, un’ulteriore spinta affinché tutti i Paesi europei, compresa l’Italia, adeguino la loro legislazione sui diritti civili […] E’ evidente, infatti, che si tratta di una questione civile e di diritti umani e non di etica».

Indietro tutta

Peccato che il ddl Cirinnà sia già anacronistico rispetto a quel matrimonio egualitario che tutto il mondo civile sta adottando sulla base del principio di uguaglianza di tutti i cittadini. Il disegno giace in parlamento sommerso da più di 4mila emendamenti ed è evidente che Renzi non abbia alcuna intenzione di porvi sopra la fiducia come ha fatto per l’Italicum e la Buona Scuola. Anzi, ha già dettato la linea della «coscienza», giudicando l’argomento una «questione etica», con buona pace delle dichiarazioni di Cirinnà. Ricapitolando, i Paesi democratici parlano di diritti civili, noi di questioni etiche. I primi riconoscono i pari diritti di tutti i cittadini, noi invece dobbiamo ancora timidamente discutere una legge che differenzia le strade per chi è etero e per chi è omo, stando ben attenti a specificare, in questo modo, che una persona ha dei diritti o non li ha a seconda delle sue preferenze sentimentali. Esiste qualcosa di più anticostituzionale?

Riformismo versus laicità

Ma questa è solo una delle tante occasioni perse dal riformismo renziano in tema di diritti. La Buona Scuola, approvata con l’ormai ben rodato meccanismo che sotto al nome di «fiducia» nasconde un bieco ricatto antidemocratico, poteva essere l’occasione per liberare l’Italia da qualche laccio che ne decreta la sudditanza economica e culturale al Vaticano. Senza mettere in discussione gli accordi concordatari tra Italia e Santa Sede (questa sì, fantascienza) bastava poco per far sì che la scuola italiana diventasse un po’ più laica. Bastava, ad esempio, applicare l’articolo 33 della Costituzione italiana («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato») mettendo fine alle regalie economiche dello Stato italiano alle scuole paritarie. E invece. Per non parlare dell’insegnamento della religione cattolica, voluto dalla Chiesa che ne sceglie i docenti ma a carico dello Stato che paga loro lo stipendio. Lo si poteva spostare nelle ore pomeridiane – è o non è una disciplina facoltativa? – e ribaltarne i costi sulla stessa Curia o sulle famiglie dei ragazzi che lo frequentano.

Il sonno dei diritti

Unioni civili a parte, il silenzio del governo su tutte le altre questioni inerenti ai diritti è imbarazzante. Dalla laicità della scuola al testamento biologico, dai paletti illiberali ancora in piedi della legge sulla fecondazione assistita alle adozioni ai single, nulla si muove. E anche il divorzio breve, tanto decantato come traguardo di civiltà, è solo un contentino, un assaggio di modernità. Perché non eliminare il periodo di separazione, seppur ridotto a un anno, prima del divorzio rimarca quel concetto di stato paternalista che entra nelle vite dei cittadini e pone dei vincoli alle loro scelte, giudicandoli incapaci di valutare il bene per loro stessi. Questi retaggi da Stato etico che dovrebbero appartenere ad altri tempi sono il tessuto culturale e legislativo ignorato dal rottamatore e da chi lo sostiene. Non è la prima volta e forse non sarà neanche l’ultima che un nostro governo calpesta le richieste di diritti dei cittadini. Ma almeno, per favore, non chiamiamolo progressista. Il progresso è un’altra cosa.

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Diritti civili, a Cesare quel che è di Cesare

Cecilia M. Calamani

Dopo il referendum irlandese sul matrimonio omosessuale, ci pensa il Gay Pride di Roma a tenere sveglie le coscienze sul tema dei diritti. Si fa per dire, perché il disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili giace in Senato sommerso da migliaia di emendamenti. E d’altronde siamo abituati, visto che dagli anni Ottanta a oggi si è perso il conto delle proposte presentate in parlamento e mai discusse. Al dll Cirinnà il centro destra rimprovera che sotto al nome di “unioni” si celebrano veri e propri matrimoni. Che i diritti di due gay non possono essere equiparati a quelli di una coppia “normale”. E che tutto ciò prelude all’utero in affitto e all’adozione aperta agli omosessuali. Non vale neanche la pena cercare di smontare ognuna di queste affermazioni. Ex falso quod libet, dal falso segue qualsiasi cosa.

È interessante invece questa guerra per l’appropriazione del termine “matrimonio”, come se il problema fosse più di abuso linguistico che di sostanza. Il concetto è stato ben espresso da George Georg Gänswein, segretario di Benedetto XVI e prefetto della Casa Pontificia, proprio in contemporanea al Gay Pride romano: «Equipararle [le unioni omoaffettive, ndr] al matrimonio sacramentale è inaccettabile e contro l’antropologia biblica e cristiana». Il monsignore, in effetti, non ha manifestato solo l’opinione della Chiesa – un mondo maschile senza affetti coniugali e familiari – ma la posizione ufficiale dei cattolici, incapaci di distinguere, per palese omonimia, un sacramento che concerne la sfera privata da un accordo tra le parti che afferisce alla sfera legislativa. E allora, perché non spostare l’asse lessicale in modo da rasserenare chi confonde peccato e diritto? Basterebbe eliminare il matrimonio civile e sostituirlo con un istituto dal nome qualsiasi (unione, patto, coppia). A quel punto, come ogni diritto di uno Stato democratico, non potrebbe più essere legato alle preferenze sentimentali dei singoli. Il matrimonio, in termini linguistici, lo potremmo lasciare alla Chiesa garantendo ai cittadini che si sposeranno all’altare il riconoscimento giuridico dell’istituto civile equivalente. Delle parole nessuno ha l’esclusiva, ma se una di esse provoca mal di pancia tali da bloccare la civiltà, regalarne la proprietà intellettuale potrebbe risolvere il problema.

C’è tuttavia una complicazione, ed è sempre di carattere lessicale. «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», afferma l’articolo 29 della Costituzione. Sul carattere contraddittorio, e verrebbe da dire anticostituzionale, di questo articolo vale la pena leggere un’approfondita analisi – datata ma attualissima visto che da allora nulla si è mosso – di Roberto Bin, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, dal titolo “La famiglia: alla radice di un ossimoro” che smonta pezzo a pezzo la valenza del dettato costituzionale nel confondere natura e diritto.

Ecco, per chi sulla promessa di rottamazione ha fatto la sua fortuna si apre un’ottima occasione. Eliminare l’obsoleta associazione tra società naturale e matrimonio, riconoscere come società naturale, e quindi come famiglia, quella, qualsiasi sia, in cui le persone si riconoscono e infine lasciare il termine “matrimonio” al monopolio cattolico come poi è stato fino all’unità d’Italia. Vorrebbe dire – e senza passare attraverso i patetici ripieghi del doppio binario normativo tra etero e gay a rimarcare che questi ultimi non sono poi così “normali” – prendere atto dell’evoluzione sociale (quella sì, naturale) e normarla per non lasciare parte dei cittadini privi di alcuni diritti. Per dare finalmente il messaggio che l’omoaffettività non è una scelta né una malattia, come la Chiesa insinua definendola un «disordine morale», ma un modo di essere. E ancora, per evitare il triste e sperequativo fenomeno del turismo verso i Paesi civili per matrimoni, fecondazioni e adozioni.

Se il problema continua a essere cosa pensa la Conferenza episcopale italiana piuttosto che il progressivo scollamento dell’ordinamento giuridico dalla realtà di una società che vive, ama, sceglie e lo fa a prescindere da leggi che non la rappresentano, sui diritti non sarà mai «la volta buona». Checché ne dica Renzi.