L’onda lunga degli indignados di S.Forti

Steven Forti*
www.micromega.net

I risultati delle elezioni amministrative spagnole dello scorso 24 maggio sono frutto dell’onda lunga del movimento del 15-M, conosciuto internazionalmente come movimento degli indignados. In parte lo si è detto in questi ultimi tempi, ma forse non lo si è sottolineato abbastanza. La comprensione delle dinamiche spagnole (e di quelle greche) potrebbe aiutare la sinistra italiana che, in cerca di una bussola per orientarsi da quasi un decennio, finisce per scopiazzare modelli non esportabili in un contesto diverso, come quello italiano.

Il nuovo panorama spagnolo

È innanzitutto doveroso presentare una panoramica non tanto dei risultati elettorali del 24 maggio che lasciavano ancora molte questioni aperte, ma delle nuove giunte comunali insediatesi lo scorso 13 giugno e dei nuovi governi regionali che si insedieranno nei prossimi giorni. Se infatti i risultati elettorali hanno confermato la “fine del bipartitismo assoluto, ma non la sua scomparsa” (come segnalava Carlos Elordi), il crollo dei popolari, la tenuta parziale dei socialisti e gli ottimi risultati delle liste civiche nate dal basso e di Podemos, la situazione venutasi a creare in queste ultime due settimane, dopo intense e in alcuni casi non facili trattative, ha amplificato ancora più tutte queste prime considerazioni.

Dei 34 capoluoghi di provincia (su 50) in cui governava, il PP ne mantiene solo 19, per quanto sia stata la lista più votata in 37, ma mai con la maggioranza assoluta. Questo è il punto chiave che ha permesso la formazione di alleanze di sinistra e di centro sinistra alternative alla destra: i socialisti, in alcuni casi in solitario, in altri casi con l’appoggio di Izquierda Unida, delle liste civiche appoggiate da Podemos e/o di partiti regionalisti di sinistra, governeranno in 17 capoluoghi di provincia. Ma il cambiamento è davvero epocale e non significa un semplice scambio di figurine tra centro-destra e centro-sinistra: le nuove liste civiche – tutte nate, è bene ricordarlo, nell’ultimo anno – governano, infatti, in cinque capitali di provincia e in altre importanti città (Santiago de Compostela, Badalona), Compromís governa a Valencia, EH Bildu a Pamplona e Izquierda Unida a Zamora.

C’è un dato che spiega ancora meglio l’importanza di questo cambiamento: dalla settimana scorsa quattro delle cinque città più popolate della Spagna sono governate da liste civiche nate dal basso (Barcellona, Madrid, Valencia, Saragozza) e solo due dal PP, che ne governava ben otto. In nessun caso si è trattato di maggioranze assolute; anche questa è una grande novità per la Spagna, che si sta abituando alla cultura del patto. Ogni realtà ha vissuto dinamiche diverse: in alcuni casi ci sono state delle vere e proprie alleanze post-elettorali, in altri casi degli accordi puntuali, in altri ancora dei “patti di desistenza” che hanno permesso l’elezione delle nuove giunte comunali.

Così a Madrid l’accordo tra Ahora Madrid (formazione nata dalla confluenza di Ganemos Madrid, Podemos, Equo e i settori critici di Izquierda Unida) e i socialisti ha permesso all’ex giudice Manuela Carmena di diventare sindaco, scalzando i popolari che controllavano il comune da oltre vent’anni. A Barcellona il nuovo sindaco è un’altra donna, Ada Colau, ex portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH), che ha formato un governo di minoranza di Barcelona en Comú (confluenza di Guanyem Barcelona, Podemos, Iniciativa Catalunya Verds-Esquerra Unida i Alternativa, Equo e Procés Constituent) ottenendo l’appoggio dei socialisti del PSC, di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e di uno dei deputati della Candidatura d’Unitat Popular (CUP), formazione indipendentista anticapitalista.

Per entrambe non sarà un cammino facile e già lo si è visto in questi primi giorni: sia il PP che Convergència i Unió (CiU), che ha governato il capoluogo catalano nell’ultima legislatura, hanno iniziato una guerra di logoramento, che nel caso di Barcellona si somma alla delicata questione indipendentista, che può mettere in crisi con le elezioni regionali, che si terranno probabilmente il prossimo 27 settembre, un “patto di desistenza” fragile dove le sensibilità sulla questione catalana sono molto diverse.

A Madrid c’è stato il “caso Zapata”, dal nome dell’effimero assessore alla cultura Guillermo Zapata di Ahora Madrid linciato mediaticamente per dei tweets di humor nero dell’estate del 2011: Zapata ha chiesto scusa pubblicamente e ha rinunciato all’incarico, mantenendo però per il momento il suo posto nel consiglio comunale. Ma sia Carmena sia Colau hanno saputo superare questo primo scoglio, rispondendo con i fatti e con delle decisioni coraggiose alla campagna di stampa lanciata non solo dalla destra, ma anche da un quotidiano che si vorrebbe progressista come “El País”.

Colau ha visitato infatti, nel suo primo giorno da sindaco, uno dei quartieri di Barcellona più colpiti dalla crisi (Nou Barris), intervenendo per bloccare uno sfratto, mentre sabato scorso ha partecipato a una manifestazione convocata dai movimenti sociali per la chiusura dei CIE (Centro de Internamiento de Extranjeros). Inoltre, come Carmena, ha approvato un “piano d’urgenza” per le persone più colpite dalla crisi (mense aperte tutta l’estate per i figli delle famiglie più povere; trattative con le banche per bloccare gli sfratti; aumento degli alloggi sociali, ecc.), misure che anche altre delle nuove giunte comunali hanno approvato o stanno per approvare.

Non solo Madrid e Barcellona

A Valencia il nuovo sindaco è l’ex comunista Joan Ribó di Compromís (formazione nata dall’alleanza di verdi e valencianisti progressisti) che ha ottenuto l’appoggio di socialisti e Valencia en Comú. Anche nella regione valenciana i popolari, che erano al potere dai primi anni Novanta, vengono mandati all’opposizione con la riproposizione dello stesso patto a tre (Compromís, PSOE, Podemos) che permetterà al socialista Ximo Puig di diventare il nuovo governatore. Così pure negli altri due capoluoghi di provincia della regione: Alicante e Castellón de la Plana sono ora governate dai socialisti grazie all’appoggio di Compromís e delle liste civiche Guanyem Alacant e Castelló en Moviment.

A Saragozza e in Aragona la situazione è simile: nella quinta città spagnola il nuovo sindaco è Pedro Santiesteve di Zaragoza en Común con l’appoggio di socialisti e della Chunta Aragonesista, mentre la stessa alleanza (PSOE, Podemos, IU, Chunta Aragonesista) dovrebbe permettere ai socialisti (il patto non è ancora chiuso) di scalzare la popolare Rudi dalla presidenza regionale. Non diversa è la situazione nelle isole Baleari, anch’esse un feudo del PP dagli anni Novanta: gli accordi tra PSOE, la lista civica Som Palma e i nazionalisti progressisti del Mes hanno permesso l’elezione a sindaco del socialista Hila che dopo due anni cederà la carica a Noguera del Mes. Anche nella regione si prevede un patto simile, garantendo alla socialista Armengol la presidenza.

In Galizia, dove si è votato solo nei comuni, a La Coruña e Santiago de Compostela sono stati eletti sindaci, rispettivamente, Xulio Ferreiro della Marea Atlántica e Martiño Noriega di Compostela Aberta; il PSOE mantiene Vigo e Lugo, i nazionalisti galiziani del BNG Pontevedra (città natale del premier Mariano Rajoy) e i popolari ottengono solo Ourense. Un altro risultato importante è quello di Cadice dove Teófila Martínez perde dopo vent’anni la maggioranza assoluta ed è stato eletto sindaco José María González Santos “Kichi” di Podemos (eletto nella lista civica Por Cádiz Sí Se Puede) con l’appoggio dei socialisti.

In Andalusia, come avevano anticipato le elezioni regionali dello scorso 22 marzo, il bipartitismo regge meglio che nel resto della Spagna: al di là del caso di Cadice, il PP mantiene Malaga, Granada, Almeria e Jaén (sempre con l’appoggio di Ciudadanos), mentre il PSOE riconquista Siviglia (con l’appoggio di IU e Participa Sevilla), Cordoba e Huelva. Nella regione si è anche sbloccata, dopo oltre due mesi, la situazione di impasse ed è stata eletta governatrice la socialista Susana Díaz con i voti di Ciudadanos, che tenta di proporsi come partito della stabilità capace di arrivare a patti sia con il centro-sinistra sia con il centro-destra.

Ma è evidente che il partito di Albert Rivera è molto più orientato a destra: ha appoggiato i popolari, infatti, anche a Murcia e nella Rioja (sia nel comune che nella regione), in molti capoluoghi di provincia della Castiglia La Mancia (mentre la regione, governata dalla segretaria generale del PP María Dolores de Cospedal, ritorna ai socialisti con l’appoggio di Podemos), nella regione della Castiglia e León (dove però il PP dopo vent’anni perde il comune di Valladolid che passa ai socialisti grazie ad un patto con Sí Se Puede Valladolid) e nella regione di Madrid, dove sarà eletta presidentessa la popolare Cristina Cifuentes.

Per completare la panoramica, in Catalogna, dove si votava solo nei comuni, Girona rimane in mano a CiU, mentre i socialisti conservano Tarragona e Lerida, pur perdendo molti voti. Anche nei Paesi Baschi si votava solo nei comuni: i nazionalisti del PNV conquistano, grazie a un patto con i socialisti, i tre capoluoghi di provincia (Bilbao, San Sebastián e Vitoria), mentre in Navarra la regione passa a Geroa Bai (partito formato dal PNV e altre formazioni) e il comune di Pamplona alla sinistra nazionalista di EH-Bildu, in entrambi i casi, vista la frammentazione del voto, con l’appoggio di diverse formazioni (dai socialisti a Podemos).

In Estremadura ritornano al governo i socialisti (forse con l’appoggio di Podemos), mentre nelle Asturie non c’è stata buona sintonia tra il PSOE e il partito di Pablo Iglesias: il possibile patto per scalzare il FAC (partito di centro-destra regionalista) e il PP dai comuni di Gijón e Oviedo non è andato in porto. Xixón Sí Puede (formata da Podemos e Equo) non ha votato il candidato socialista e il comune è rimasto in mano al FAC, mentre a Oviedo solo una scelta dell’ultimo minuto dei consiglieri di Somos Oviedo, dopo settimane di forti tensioni, ha permesso l’elezione di un nuovo sindaco socialista. Nella regione sarà sicuramente riconfermato il socialista Javier Fernández con l’appoggio di IU che nelle Asturie ha tenuto, ottenendo il 12% dei voti. Nelle Canarie, infine, si dividono i grandi comuni e la regione i socialisti e i regionalisti di Coalición Canaria, mentre in Cantabria dovrebbe essere riconfermato Miguel Ángel Revilla del partito regionalista cantabro (con l’appoggio del PSOE).

La fine di una politica, la fine di un modello

Che il cambiamento sia stato enorme è indubbio, come anche che la Spagna abbia virato a sinistra: il PP, vale la pena ricordarlo, ha perso ben due milioni e mezzo di voti. Ma il cambiamento riguarda anche un modello di politica e un modello di società. In primo luogo, non ci sono più maggioranze assolute, né nei comuni, né nelle regioni, un fatto inedito per il paese iberico. Per governare si è dovuto e si dovrà scendere a compromessi e siglare dei patti: che sia una strategia win-win, loose-loose o win-loose lo capiremo nei prossimi anni.

Dal punto di vista di Podemos e delle liste civiche nate dal basso l’appoggio dato o ricevuto dai socialisti può essere indubbiamente rischioso, ma era anche l’unica via per uscire dall’impasse. Il fantasma di fare la fine di Izquierda Unida in Andalusia – che è quasi scomparsa dallo scenario politico dopo aver appoggiato il PSOE alla regione – o, guardando all’Italia, di Rifondazione Comunista è sempre presente. La questione chiave sarà però come si gestiranno questi patti e questi accordi. Per il momento ciò che si è visto è di buon auspicio. Tutti hanno capito che il gioco avrà nuove regole, non solo Podemos e Ciudadanos: i grandi partiti per ottenere l’appoggio delle due nuove formazioni hanno dovuto accettare condizioni impensabili fino a qualche mese fa, a partire dalla dimissione di dirigenti condannati o imputati per grandi scandali di corruzione, vedasi il PSOE andaluso e il PP di Madrid.

In secondo luogo, queste elezioni dimostrano che un modello di società e di crescita economica è arrivato al capolinea: il modello promosso dal PP di José María Aznar dalla metà degli anni Novanta, di cui il PSOE è stato in buona parte corresponsabile. Certo, senza la crisi economica che ha colpito la Spagna (i tagli al Welfare State dal 2009 al 2013 sono stati di 117 miliardi di euro e la spesa pubblica rispetto al Pil si è ridotta del 3,3%, mentre la disoccupazione è ancora superiore al 23%) non ci sarebbe stato questo cambiamento, ma il crollo del PP nei suoi feudi storici (Madrid, Valencia e Baleari), dove perde oltre la metà dei voti, dimostra che quel tipo di turbocapitalismo è finito.

Tra il 1991 e il 1995 i popolari avevano conquistato comuni, province e regioni delle tre regioni (a cui si sarebbero aggiunte poi Murcia, che ancora controllano, e una parte dell’Aragona), creando un sistema che aveva i suoi pilastri in una crescita accelerata fondata sulla bolla immobiliare, sulla speculazione edilizia e sulla riduzione del Welfare; il tutto amalgamato da un sistema clientelare edificato sulla corruzione. Non è un caso che i maggiori scandali di corruzione dell’ultimo lustro (caso Gürtel, caso Púnica, ecc.) siano localizzati in queste tre regioni e coinvolgano tutti i vertici del PP.

Gli indignados come motore del cambiamento

Senza il movimento degli indignados non ci sarebbe stato questo cambiamento politico e sociale. Due immagini spiegano bene la relazione tra il movimento nato con l’occupazione delle piazze del maggio 2011 e la vittoria delle liste civiche del mese scorso in importanti realtà spagnole.

La prima: uno degli slogan delle acampadas e delle manifestazioni contro l’austerità del 2011 era “No nos representan” (“Non ci rappresentano”). Nelle piazze davanti ai comuni, nel giorno dell’insediamento delle nuove giunte, migliaia di persone, a Barcellona, a Madrid, a Cadice, cantavano “Qué si nos representan” (“Sí che ci rappresentano”) riferendosi ai nuovi sindaci e alle nuove giunte comunali di Barcelona en Comú, Ahora Madrid e Cádiz Sí Se Puede.

La seconda: il 15 giugno del 2011 migliaia di persone bloccarono gli ingressi del Parlamento catalano per impedire l’approvazione delle prime dure misure di austerità volute dal governatore Artur Mas. Intervenne la polizia, ci furono arresti e poi condanne durissime per otto persone. Il 13 giugno del 2015 alcune delle persone che si trovavano tra quei manifestanti sono eletti sindaco e assessori del capoluogo catalano.

Queste due immagini spiegano più di molte parole l’enorme cambiamento che la Spagna ha vissuto in questi ultimi quattro anni, dimostrando come la protesta può convertirsi in proposta. Questo è quello che è avvenuto con il movimento degli indignados che si è radicato nei quartieri e che ha dato linfa a nuovi movimenti come, tra gli altri, la Plataforma de Afectados por la Hipoteca, allo stesso Podemos e alle liste civiche come Guanyem Barcelona e Ganemos Madrid. In Italia non c’è stato niente di tutto questo. La rabbia per la gestione della crisi e per la corruzione è stata canalizzata in buona parte dal Movimento Cinque Stelle, che, nella giusta lettura dei Wu Ming, è stato una sorta di “tappo” ai movimenti. Con prese di posizione ambigue e in alcuni casi reazionarie (vedasi l’immigrazione), con una democrazia interna sconfessata un giorno sì e l’altro anche dal duo Grillo-Casaleggio, con delle scelte tattiche e strategiche suicide (l’alleanza in Europa con l’UKIP, la negativa a qualunque accordo anche esterno con tutto ciò che è considerato “casta”, ecc.) il M5S – che non può essere paragonabile a Podemos – si è precluso la possibilità di essere – malgré lui – un vettore di cambiamento della situazione politica italiana, creando un impasse da cui ne è uscito vincitore il neo-blairismo di Renzi e che favorisce fenomeni come Salvini.

Quel che resta della sinistra, invece, incapace di leggere la situazione italiana e di canalizzare tale rabbia, ha cercato di copiare modelli di successo in altri paesi (Syriza in Grecia e ora Podemos in Spagna) senza capirne il significato, le origini e le ragioni, spesso finendo per ripetere quella che in spagnolo si definirebbe una “sopa de siglas” (“zuppa di sigle”). E così ha dato vita a tentativi miopi come L’Altra Europa per Tsipras o a progetti deboli come Possibile di Civati. In Italia probabilmente, purtroppo, si è persa un’occasione; per ritrovare il bandolo della matassa conviene studiare a fondo le dinamiche che hanno permesso di creare alternative valide e radicate nei territori di altri paesi, come la Spagna, e capire come tali processi possano svilupparsi nella realtà italiana, evitando di utilizzare la carta carbone.