Mi turbava immaginare due uomini che si baciano. Vi racconto perché non è più così di C.Obber

Cristina Obber
http://27esimaora.corriere.it

Anche io ho sofferto di omofobia lieve. Sono nata agli inizi degli anni Sessanta, in un paesino ai piedi della montagna, in Valsugana, lungo le rive del Brenta.

Quando ero bambina la mia percezione dell’omosessualità si riferiva ad un episodio di cui avevo sentito parlare a proposito di un pedofilo che bazzicava nella stazione di Padova. L’associazione tra omosessualità e pedofilia e quindi perversione era dunque netta.

Quando ero in prima o seconda media e chiesi chi era Pasolini mi fu detto che era uno sporcaccione. Quando avevo 13 anni ricordo che, pensando all’omosessualità, immaginavo mio fratello mentre baciava un suo amico di cui ero innamorata, e la cosa mi turbava molto.

Mi turbava perché quell’idea di perversione che avevo respirato condizionava il mio immaginario, mi era rimasta nella pancia e anche se cominciavo a sentire e vedere che esistevano omosessuali nel mondo e non sembravano degli sporcaccioni, quell’imprinting era come un filtro tra me e loro.

Come ho fatto a liberarmi da questo immaginario?

Ho avuto la fortuna di essere una persona curiosa. Ho cominciato presto a girare l’Italia per lavoro, ho conosciuto moltissima gente, ho avuto la fortuna soprattutto di incontrare omosessuali dichiarati (inizialmente solo maschi, le lesbiche «non esistevano») dentro le loro case, di entrare nella loro intimità. Ma se io non avessi avuto l’occasione dell’esperienza della conoscenza, quel filtro non si sarebbe dissolto e forse sarei ancora lì a provare turbamento immaginando due uomini in un letto (e le donne non le immaginerei).

Spesso persone che stimo per la loro cultura e che sono realmente convinte della necessità di lottare per i diritti civili di gay, lesbiche e trans, ammettono che PERO’ se ne vedono due per strada che si tengono per mano si irrigidiscono, provano turbamento. Perché non si tratta di essere colti o meno, qui si tratta di cosa ci si porta addosso, nell’ombelico.

Fobia significa paura oggettivamente ingiustificata. Qualcosa che mi turba senza un reale motivo. L’omofobia non è solo quella violenta degli insulti, delle sprangate in un vicolo. Che sia ingiustificabile l’omofobia violenta siamo sempre (quasi) tutti d’accordo. C’è una forma di omofobia che tutti e tutte ci portiamo addosso, chi più che meno, e che ha a che fare con la cultura che ci ha nutriti di stereotipi e paure, in un paese omofobo e sessuofobico. Io la chiamo omofobia lieve. L’omofobia lieve è quel disagio che sentiamo addosso anche se a parole diciamo di rispettare tutti, quando percepiamo nel nostro intimo quel «però».

Che cos’è quel «però»? A volte diciamo che è pudore ma non è vero. È timore. È il non voler socchiudere una porta che preferiamo lasciare chiusa, quando basterebbe poco per scoprire che dietro non c’è niente di speciale. Tutto il castello di impercettibili paure che abbiamo costruito intorno all’omosessualità si sgretola di fronte alla sua banalità. Perché è tutto come nelle coppie eterosessuali. A volte splendido, a volte no, a volte l’amore dura una notte, a volte un mese, a volte una vita intera.

L’unica via per sconfiggere il TIMORE che sentiamo dentro è CONOSCERE, AVVICINARSI. In ufficio, in fabbrica, in negozio, passiamo ore, sono la nostra seconda casa. Con i colleghi parliamo di noi, ascoltiamo i loro racconti. Ma se un collega è gay o una collega è lesbica allora no, siamo discreti, prudenti. Se poi è trans le difficoltà si amplificano, ma capita raramente di avere colleghe e colleghi trans perché hanno enormi difficoltà ad essere assunte/i in un panificio come in un ufficio (è ancora forte lo stigma trans-prostituta, perché è soltanto di trans che si prostituiscono che ci parla la televisione, gli altri, le altre, «non esistono»).

Quanti di noi se abbiamo un collega o una collega omosessuale chiediamo, facciamo domande sulla sua vita sentimentale come se fosse etero? In fabbrica come in ufficio, in un negozio come in uno studio di progettazione, proviamo ad essere curiosi, a ficcare il naso nelle vite degli altri. A chiedere loro come si sono conosciuti/e, come si sono dichiarati/e, accasati/e, perché si sono lasciati/e. ad organizzare cene a coppie miste, ad entrare in quella quotidianità identica alla nostra.
Entrare nelle vite degli altri per scoprire che sono le nostre stesse vite. Per scoprire che dove si sono costruite delle famiglie i bambini crescono sereni come tutti gli altri.

Trent’anni fa sarei stata titubante di fronte a una famiglia con due mamme ad esempio, oggi ne conosce e vedo che tutto fila liscio.
Oggi continuiamo a pensare che il modello fondante di amore tra due persone sia quello eterosessuale perché quello che dà naturalmente la vita.
Lo spermatozoo feconda l’ovulo, questo non si discute.
Ma è come se i sentimenti, gli affetti e il desiderio dovessero dare la precedenza alla procreazione naturale, sempre e comunque. Oggi la scienza ha fatto passi avanti su questo, e la scienza ci piace quando ci salva la vita, ci cura le malattie.

Chi si ostina a ritenere innaturale la famiglia omogenitoriale invoca la Natura in quanto madre illustrissima e intoccabile a cui bisogna lasciar fare. Ma guarda caso sono proprio gli stessi che invece non ne vogliono sapere di lasciar fare alla Natura quando si accaniscono a tenere in vita per 18 anni una ragazza grazie a un respiratore che di naturale non ha niente.

La Natura diventa buona o cattiva, a piacimento. e noi abbocchiamo, perché le certezze ci piacciono e ci rassicurano. Abbiamo poco tempo per approfondire, siamo indaffarati e stanchi, spesso non abbiamo il tempo di interrogarci, di riflettere con calma, ci fermiamo agli slogan, e abbocchiamo.
Anche sbandierare al mondo di avere amici gay tradisce una forma di omofobia lieve; se sono davvero sereno non ho bisogno di specificare alcuna etichetta.

Oggi ci sono dei cattolici integralisti – che non rappresentano tutto il mondo cattolico ma che finiscono però sui media e quindi diventano «il mondo cattolico» – che mettono in guardia contro quella che chiamano la teoria del gender, teoria che non esiste ma che secondo loro verrebbe propagandata nelle scuole cercando di uniformare maschile e femminile in un qualcosa di ibrido con risvolti perversi.
Quello che invece si fa nelle scuole si chiama Educazione alle differenze o Educazione di genere.
Me ne occupo anche io. Non vuol dire educare al neutro, dire che tra maschi e femmine non ci sono differenze o istigare ad una sessualità spregiudicata.
Significa educare al rispetto delle differenze, che è altra cosa; significa aiutare bambini e bambine, ragazzi e ragazze, a capire che l’aggressività non è cosa da maschi e la pazienza cosa da femmine, significa insegnare loro che non ci sono soltanto il bianco e il nero, che c’è fluidità nelle nostre identità, significa aiutare chi si scopre una identità sessuale differente dal modello eterosessuale dominante a non sentirsi penalizzato, sbagliato, difettato, condannato all’infelicità, soprattutto in quel momento della crescita, l’adolescenza, che vede le sofferenze amplificarsi tanto da essere insopportabili, a volte così insopportabili da togliersi la vita.

Ma chi ha sponsor danarosi può pagarsi anche una pagina di propaganda fanatica su un quotidiano nazionale e allora in tanti leggiamo che la parola genere è pericolosa, e allora sentiamo che se qualcuno ne parla a scuola via a dire di NO senza nemmeno sapere di che cosa si sta parlando. C’è perfino il rischio che anche persone che ricoprono ruoli istituzionali importanti in tema di educazione si lascino condizionare dalle varie forme di violenza psicologica che allarmano i genitori e calcano la mano sul naturale senso di protezione verso l’infanzia.

Questi integralismi che istigano all’odio contro gli omosessuali e sbandierando slogan contro la parola “gender” non rappresentano che se stessi, una minoranza gretta (a volte si rivelano anche banalmente dei mediocri in cerca di fama) ma pericolosa.
Tutto quel mondo cattolico aperto ed accogliente, portatore dei principi cristiani, non finisce alla tivù, non scende in piazza in manifestazioni omofobe che ci riportano al medioevo ma oggi quello che io non vedo non esiste.
Eppure esiste.
Questi integralisti si sono organizzati proprio per frenare qualcosa che loro non riescono ad accettare, proprio come negli anni 50, nel Mississippi o nell’Alabama, il kkk frenava contro l’apertura mentale della popolazione bianca che non voleva più schiavi ma uomini e donne liberi con cui convivere pacificamente.

Ho visto il film Selma. Quello che ha sconfitto razzismo e schiavitù, in Alabama, oltre alla lotta dei neri che hanno perseverato nella loro ribellione pagando spesso con la vita il loro coraggio, è stata la partecipazione di tanti bianchi che sono scesi in strada con i neri, uomini e donne dalla pelle bianca hanno detto No alla violenza di altri uomini e donne bianche. Che hanno detto «non in mio nome», «io non sono così».

Non aspettiamo dunque di avere un amico o un familiare omosessuale per dissociarci dall’omofobia, da chi agisce e istiga all’odio non in nostro nome.
Anche l’indifferenza rende complici. Anche il silenzio.
Quando assistiamo a discorsi omofobi, ad azioni omofobe, dobbiamo dissociarci, prendere posizione. Al bar, al parco, sul nostro posto di lavoro.

Si sente dire che gli omosessuali si auto-discriminano. Anche io mi isolerei se non potessi tenere per mano mio marito quando passeggio, scambiarmi con lui una tenerezza, allungare semplicemente una mano per stringere la sua mentre siamo al ristorante.
Provate a immaginare di dover presentare una moglie o un marito come il migliore amico, la migliore amica, per mesi, per anni, per una vita intera. Non lo trovereste insopportabile?
Perché di questo si tratta.

Conosco coppie insieme da trent’anni anni che ancora non si sono dichiarate ai propri genitori, che li hanno già persi senza aver potuto dire «Ehi, papà, guarda che non è vero che non ho ancora trovato la persona giusta».

Tornando all’adolescenza, provate a immaginarvi cosa vuol dire a 14, 15 anni, subire atti di bullismo a scuola, su facebook, dover fare finta di avere una fidanzatina o un fidanzatino e vergognarsi davanti allo specchio perché sai che ai tuoi genitori faresti schifo se sapessero come sei.
Provate a pensare cosa significa doversi giustificare per come si è, dover essere contenti se quelli intorno a voi vi accettano, non vi fanno del male.

Le persone non si devono accettare o tollerare.
Io non mi faccio accettare, gli altri prendono atto che io esisto, punto.
Nessuno indaga sulla mia vita sentimentale o sulla mia sessualità, nessuno mi chiede di giustificare i miei desideri.
Nessuno mi soffoca, mi chiude in un recinto.

A volte quando parliamo di diritti e leggi, sacrosanti, rischiamo di dimenticarci che stiamo parlando della vita quotidiana delle persone, della loro felicità e della loro infelicità. Di un rubinetto che perde un po’ di dolore ogni giorno, per tutta la vita.

Nei momenti socialmente difficili come quello che stiamo attraversando c’è il rischio che gli stereotipi si rafforzino, perché lo stereotipo è qualcosa di certo e dunque di rassicurante. Più il nostro futuro ci appare incerto e più ci aggrappiamo alle poche cose certe che ci riportano indietro, a quando avevamo meno paura del presente e del futuro. C’è dunque il rischio di una deriva violenta, di cui abbiamo già degli esempi drammatici. Proprio per questo è indispensabile che ognuno di noi guardi alla propria coscienza e si interroghi su quello che vuole fare, su quello che vuole essere. Vuole seguire il mondo, che va avanti e cambia ed è già in movimento, o vuole remare indietro, dimenticando che le discriminazioni ci hanno fatto conoscere il peggio di noi?

Nell’Alabama e nel Mississipi negli anni 50 avevano paura a stare vicino a un nero sull’autobus. Il razzismo non è sconfitto, ma hanno un presidente nero. Per eleggere un presidente nero significa non solo non averne paura, ma averne fiducia, perché andare a votare e mettere la croce su quel nome significa affidargli il proprio destino.
Le cose sono cambiate in America, ma i neri sono sempre gli stessi di 70 anni fa. Gli omosessuali di oggi sono quelli che 70 anni fa si nascondevano in matrimoni eterosessuali infelici, sono gli stessi che tra 70 anni cammineranno per strada per mano senza che nessuno si volti a guardarli.

Tra settanta anni il mondo guarderà a noi con la stessa rabbia e la stessa compassione con cui ricordiamo l’ignoranza di quelli che pur non facendo parte del kkk avevano paura a sedersi a scuola, in chiesa, al cinema, vicino a un nero. Li vediamo nei film e ci indigniamo, li troviamo violenti e patetici.

Perché aspettare di guardarci indietro con commiserazione e rimpianto?
Oggi possiamo decidere da che parte stare, possiamo e dobbiamo dire la nostra perché ogni discriminazione riguarda anche noi.

In Europa siamo tra gli ultimi paesi in fatto di rispetto dei diritti civili. È una vergogna se pensiamo a quando è stata scritta la nostra Costituzione, che parla di diritti e rispetto, di libertà, di dignità di tutte le persone, che è stata scritta per difenderci, per non farci mai più imbruttire, per non farci tornare mai più a quei tempi oscuri.

Non sprechiamo energie per capire perché siamo tornati indietro nuovamente, investiamo le nostre energie per dirci che indietro non vogliamo più tornare. Per dirci che presi uno ad uno siamo più avanti di quel che pensiamo, ma se non lo diciamo, se stiamo zitti, non ci rendiamo nemmeno conto di essere più evoluti di coloro che ci vogliono tenere a bada, e che forse oggi alzano la voce proprio perché sentono che gli stiamo sfuggendo di mano, che siamo davvero pronti a sentirci cittadini europei e rendere questo paese più aperto e più giusto.

Di omofobia lieve soffriamo tutti, l’abbiamo bevuta nel biberon, ma possiamo curarci. Cominciando a riconoscercela addosso per poi dichiararla ed elaborarla con serenità.
Di omofobia lieve si può guarire, ma non da soli. Bisogna aiutarsi l’un l’altro, e contemporaneamente, come per tante patologie, fare prevenzione. E bisogna investire con fiducia nei ragazzi e nelle ragazze – anche loro mal rappresentati dai media – nella loro forza e nella loro capacità di essere più onesti e liberi, più capaci di convivere anziché dividere di quanto lo siamo stati noi.

Il fallimento sociale ci dice che è finito il tempo dell’individualismo, dell’avidità, della spregiudicatezza che ci ha inaridito e impoverito, economicamente e umanamente. Che dobbiamo e possiamo riprenderci quella capacità di creare cultura e civiltà, capacità che a volte sembra soffocare nella grettezza ma che abbiamo ancora, che è il nostro patrimonio, è un patrimonio che non abbiamo difeso ma che portiamo con noi.

Quello che ci salverà è rimettere al centro le relazioni umane, è ritrovare un’alleanza tra esseri umani. E questo può accadere soltanto se ricominciamo da noi, restituendo ai nostri figli ma anche a noi stessi quelle parole come rispetto, libertà, civiltà, che ci fanno vivere meglio tutti, e che ci meritiamo.

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Che lavoro fai? L’ideologa del gender

Chiara Reali
www.wired.it

Io non lo so bene cosa voglia dire, famiglia tradizionale. Quella in cui sono cresciuta probabilmente lo è: mamma (chissà perché viene sempre da metterla per prima), papà, sorella, un cane prima e due gatte poi.

A un certo punto mi sono sposata, un po’ fuori tempo massimo, mi viene da dire, anche se di sicuro c’è chi si sposa più tardi (e c’è chi non si sposa mai, magari perché non può, ma di questo forse parleremo un’altra volta). Non so se però la mia – quella composta da lui, da me e dal gatto – sia una famiglia tradizionale. Ci manca quel figlio virgola trentanove, ma adesso inizia a dirsi child-free anziché childless e allora forse va bene così.

Il sabato mattina io e mia sorella dovevamo spolverare tutte le mensole e i mobili, spostando la statuetta della damina che suona il violino e il porta-caramelle di cristallo, mi raccomando; poi mio padre passava l’aspirapolvere e lavava i pavimenti, così almeno il sabato la mamma si riposa, anche se c’è la spesa da fare e allora forse si riposerà la domenica.

Se prendevamo un brutto voto, ci sgridava il papà. Se ci innamoravamo, andavamo a parlarne con la mamma. Se tornavamo a casa in ritardo, era il papà a venirci a cercare. Se avevamo la febbre, era la mamma ad appoggiarci le labbra alla fronte.

Di lavoro faccio l’ideologa del gender – adesso si dice così, no? Ormai i lavori non hanno più i nomi di una volta, e spiegarli ai genitori è un casino. Social-media manager, project coordinator, account manager e così via. Però ve lo voglio raccontare, cosa fa di lavoro un’ideologa del gender – così magari riesco anche a spiegarlo meglio ai miei genitori tradizionali che poi quando gli amici chiedono, e la Chiara? Non sanno mai bene cosa dire.

Purtroppo non lavoro mai con i bambini delle scuole materne o delle elementari, di solito solo con gli studenti delle scuole superiori e con quelli delle università, ma credo vada bene lo stesso perché, solo a maggio, mi è successo due volte di ricevere una telefonata la sera prima di un incontro a scuola. – Pronto? Parlo con Chiara? – Sì, sono io, mi dica. – Eh, purtroppo per domani non se ne fa più niente – ci dispiace un sacco, eh? Ma magari programmiamo un nuovo incontro a settembre, con calma, e invitiamo anche qualcuno che faccia il contraddittorio. A fare l’ideologa del gender ho cominciato seriamente un paio d’anni fa, avevo già trentaquattro anni. Quando la mia tradizionalissima mamma aveva la mia età, all’ufficio di collocamento (una volta i centri per l’impiego si chiamavano così) le dissero che era troppo vecchia per rimettersi a lavorare. Le mamme tradizionali magari lavoravano da giovanissime, poi facevano un figlio o due e smettevano di lavorare anche se poi lavoravano lo stesso, perché io tante lavatrici quante ne faceva lei non le ho mai fatte, per dire.

Non è che ci sia una giornata tipo, a fare l’ideologa del gender, e neanche gli studenti sono tutti uguali. Ci sono quelli che quando arrivi sono felici, ci sono quelli che dicono, eh, ma che palle, ma le sappiamo già queste cose e poi non siamo mica omofobi, e poi ci sono quelli che iniziano a urlare “gay di merda” dal fondo dell’aula e tu devi far finta di niente perché non sta bene, insultare chi ha vent’anni meno di te.

Ecco, se c’è una cosa che devi per forza imparare, se vuoi fare l’ideologa del gender, è che devi avere la pazienza di un santo. Perché gli adolescenti sono adolescenti e, per definizione, vogliono farti incazzare.

Me la ricordo proprio, quella sensazione, quella di voler far incazzare gli adulti. Un misto di orgoglio, paura, superbia – l’attesa della reazione che non fa in tempo a iniziare e ti sei già un po’ pentita se sei una ragazza come me, cresciuta in una famiglia tradizionale a pane e sensi di colpa, ma erano altri tempi e anche le famiglie tradizionali erano diverse, mi sa, ma è solo una supposizione: in fondo io insegno che la famiglia tradizionale non è che esiste, glielo dico proprio: la famiglia tradizionale non esiste, e mi faccio raccontare in che famiglie vivono loro e sono tutte così diverse che lo capiscono subito, che ho ragione.

Poi mi faccio raccontare altre cose. Tipo, chiedo loro se hanno dei segreti che se ci pensano, e pensano alla faccia che farebbero i loro genitori se li scoprissero, si sentono torcere le budella. Loro fanno sì con la testa. Ecco, gli dico, adesso sapete cosa prova un ragazzo gay, una ragazza lesbica, quando deve fare coming out.

Oppure gli chiedo di quando si sono innamorati, se sentivano quella cosa che avresti voglia di correre in cima a un palazzo altissimo, prendere un megafono e urlare il loro amore. Alcuni sorridono, altri arrossiscono, altri ancora si imbarazzano un po’ e piegano la testa e si nascondono nel cappuccio della felpa. Ecco, gli dico, e allora perché se sei gay questa cosa non la puoi fare? Perché in fondo il coming out è anche questo, gridare il proprio amore da un megafono.

Il mio primo fidanzato si chiamava Michele e ci siamo scambiati solo un bacio a stampo. Però quando mi accompagnava a casa dopo le riunioni degli scout e mi teneva per mano – e avevamo le mani sudate anche se era inverno – avrei voluto che il tempo non si fermasse mai. Faccio l’ideologa del gender e, se dovessi riassumere in poche parole in cosa consiste il mio lavoro, direi: parlare coi vostri figli e con le vostre figlie, ascoltarli. Ascoltarli, soprattutto, perché il mondo sta cambiando così in fretta che neanche noi ideologi del gender riusciamo a restare al passo.

Quando arrivo in una scuola la reazioni sono sempre diverse, ma quando me ne vado si assomigliano un sacco: mi dicono grazie e spesso mi chiedono dei consigli, che non hanno niente a che fare con l’essere gay o lesbiche o bisessuali ma hanno tutto a che fare con l’avere quindici, sedici, vent’anni e ritrovarsi ad avere dentro delle cose enormi che non sanno a chi dire. Perché voi, cari genitori tradizionali, mi sa che i vostri figli li ascoltate poco.